Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LXVII.

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CAPITOLO LXVII.

 

Petronio, dopo la liberazione di Licia, per non irritare Cesare, andò al Palatino cogli altri augustiani. Voleva udire che cosa dicevano e sapere se Tigellino stava tramando qualche altra cosa per sopprimere Licia. Lei e Ursus erano passati, è vero, sotto la protezione del popolo, e nessuno poteva toccarli senza suscitare una sommossa; tuttavia Petronio, che conosceva l'odio che nutriva per lui l'onnipotente prefetto pretoriano, s'imaginava che probabilmente Tigellino, impotente a colpirlo direttamente, avrebbe cercato qualche modo di vendicarsi contro il nipote.

Nerone era irritato e furioso, perchè lo spettacolo non era finito come aveva ideato. Sulle prime non voleva neppure guardare a Petronio; ma Caio, senza perdere il sangue freddo, gli si avvicinò, e con tutta la libertà dell'arbitro dell'eleganza, disse:

Sai tu, divino, che cosa mi passa per la mente? Scrivi un poema sulla fanciulla che per ordine del signore del mondo è stata liberata dalle corna del bue selvaggio e restituita al suo amante. I Greci sono sensibili e sono sicuro che il poema li manderà in visibilio.

Il suggerimento piacque a Nerone, a dispetto della sua irritazione, e gli piacque prima come soggetto per un poema, poi perchè poteva glorificare stesso come il signore magnanimo della terra; guardò per del tempo a Petronio e poi disse:

– Sì, forse tu hai ragione. Ma non è sconveniente che io celebri la mia clemenza?

– Non è necessario di fare nomi. In Roma tutti capiranno a chi si allude e le notizie di Roma corrono per tutto il mondo.

– Sei tu sicuro che ciò potrà piacere all'Acaia?

– Per Polluce, se lo sono! sclamò Petronio.

E se ne andò contento, perchè egli si sentiva sicuro che Nerone, la cui intera vita era un adattamento della realtà alle sue opere letterarie, non avrebbe sciupato il tema; e in questo modo avrebbe legato le mani a Tigellino. Questo, comunque, non gli fece cambiare l'idea di mandare via da Roma Vinicio, subito che lo avrebbe permesso la salute di Licia. Così, vedendolo il giorno dopo, disse:

Conducila in Sicilia. Come le cose sono avvenute, da parte di Cesare non ti si minaccia nulla; ma Tigellino è pronto a servirsi anche del veleno, se non per l' contro di voialtri due, per l'odio contro di me.

Vinicio gli sorrise e rispose:

– Ella era sulle corna del bufalo; però Cristo l'ha salvata.

– Allora onoralo con un'ecatombe, replicò Petronio con accento d'impazienza; ma non supplicarlo di salvarla una seconda volta. Ti ricordi come Eolo abbia ricevuto Ulisse quando andò la seconda volta a domandargli il vento favorevole? Le deità non amano di ripetersi.

– Una volta ch'ella abbia ricuperata la salute, voglio condurla da Pomponia Grecina, disse Vicinio.

– E farai bene, Pomponia è ammalata; me lo disse Antistio, parente di Aulo. Intanto qui accadranno cose che ti faranno dimenticare, e in questi tempi i dimenticati sono i più felici. Che la fortuna sia il tuo sole d'inverno e la tua ombra d'estate.

Poi lasciò Vinicio sommerso nella sua felicità e andò da Teocle a informarsi della salute di Licia.

Il pericolo era passato. Dimagrata come era nel sotterraneo, l'aria putrida e la mancanza di tutto l'avrebbero uccisa; ma ora essa era circondata dalle cure più tenere e aveva non solo di tutto, ma anche del lusso. Per ordine di Teocle la condussero, due giorni dopo, nei giardini della villa, ove vi rimaneva delle ore. Vinicio le ornava la lettiga di anemoni e sopratutto di iridi per ricordare l'atrio della casa degli Aulo. Più di una volta, all'ombra del fogliame, parlavano delle angoscie e delle paure passate tenendosi stretti per mano. Licia diceva che Cristo lo aveva fatto passare attraverso i patimenti appunto per mutargli l'anima ed elevarlo a . Vinicio sentiva che ciò era vero e che in lui non era più nulla del patrizio di una volta che non conosceva altra legge che il suo desiderio. Nei ricordi non c'era alcuna amarezza. Pareva loro che degli anni interi fossero passati al disopra delle loro teste e che il passato spaventevole fosse assai lontano. Al tempo stesso li padroneggiava una calma che non avevano mai provata prima. Una vita nuova di una felicità immensa era entrata in loro e li aveva uniti. Cesare, in Roma, poteva infuriare e riempire il mondo di terrore; essi sentivano su loro una protezione cento volte più potente e non avevano più paura della sua collera malvagia, come se per loro avesse cessato di essere il padrone della vita e della morte. Una volta, verso il tramonto, udirono dal lontano serraglio il ruggito dei leoni e delle altre bestie feroci. Prima i muggiti riempivano Vinicio di spavento perchè erano di cattivo augurio; ora lui e Licia si guardavano l'un l'altra, e alzavamo gli occhî nel crepuscolo della sera. Di tanto in tanto Licia, ancora debolissima e incapace di stare in piedi da sola, si addormentava nella quiete del giardino; egli la vegliava, e, osservandone il volto addormentato, pensava involontariamente che non era quella Licia ch'egli aveva conosciuto alla casa di Aulo. La prigionia e il male avevano in certo qual modo spenta la sua bellezza. Quando la vide alla casa di Aulo, e, più tardi, quando andò per rapirla alla casa di Miriam, ella era superba come una statua e fresca come un fiore; ora il suo volto era divenuto come trasparente; le sue mani erano smagrite, il suo corpo era stato assottigliato dalla malattia, le sue labbra avevano assunto un pallore insolito e anche i suoi occhî parevano meno azzurri di una volta. Eunice, dai capelli dorati, che le portava fiori e ricchi drappi per coprirle i piedi, era una divinità di Cipro al paragone. Petronio si sforzava invano di trovare in lei la bellezza di prima, e con una scrollata di spalle pensava che quell'ombra dei Campi Elisi non valeva la pena di tutte quelle lotte, di tutti quei dolori e di tutte quelle torture che avevano quasi succhiata la vita di Vinicio. Ma Vinicio, innamorato ora del suo spirito, l'amava di più; e quando egli la vegliava addormentata, gli sembrava di vegliare sul mondo intero.

 

 


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