Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO LXXII.

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CAPITOLO LXXII.

 

Vinicio a Petronio,

«Noi pure, carissime, sappiamo molte cose di ciò che avviene in Roma, e quello che non sappiamo ce lo dicono le tue lettere. Quando si getta una pietra nell'acqua, l'onda del circolo va lontana lontana: così l'onda del furore e dell'abbominazione dal Palatino è venuta a noi. In viaggio per la Grecia, Nerone ha mandato qui Carina a saccheggiare la città e i templi per riempire il tesoro vuoto.

«Col sudore e le lacrime del popolo egli sta edificando la «casa d'oro» in Roma. È probabile che il mondo non abbia veduto una casa come quella, ma è anche probabile ch'esso non abbia veduto tanta infamia. Tu conosci Carina. Chilone, prima di redimere la sua vita colla morte, era come lui. La gente di Cesare non è ancora venuta nei paesi vicini a noi, forse perchè non vi sono templi o ricchezze in essi. Tu ci domandi se siamo fuori di pericolo. Io ti rispondo che siamo dimenticati; e questo basti come risposta. In questo momento, mentre scrivo sotto il portico, vedo la nostra baia tranquilla con Ursus in barca che getta nell'acqua limpida la rete. Mia moglie fila vicino a me della lana rossa, e, nei giardini, all'ombra dei mandorli, i nostri schiavi cantano. Oh quale quiete, carissime, e quale oblìo delle ansie e dei patimenti di una volta! Ma non è la Parca, come tu scrivi, che ci fili lo stame della vita così lieta; è Cristo che ci benedice, il nostro benamato Dio e Salvatore. Conosciamo le lacrime e i dolori, perchè la nostra religione c'insegna a piangere sulla sventura degli altri; ma in queste lacrime è una consolazione che ti è sconosciuta, perchè in qualunque tempo finisca la nostra vita, noi rivedremo tutti i nostri cari che perirono e periranno per la verità di Dio. Pietro e Paolo per noi non sono morti: sono semplicemente nati nella gloria. Le nostre anime li vedono e quando i nostri occhî piangono, i nostri cuori esultano della loro gioia. Oh sì, mio caro amico, siamo felici, di una felicità che nessuno può distruggere, perchè anche la morte che per te è la fine di ogni cosa, è per noi solo il passaggio in una regione più alta.

«E così passano i giorni e i mesi nella serenità dell'anima. I nostri servi e i nostri schiavi credono, come noi, in Cristo, e siccome Egli ha ordinato di amar tutti, così ci amiamo l'un l'altro. Sovente, quando il sole è tramontato o quando splende la luna sull'acqua, io e Licia parliamo del passato che ci pare un sogno. Ricordandomi come quella cara testolina fu vicino al martirio e alla morte, io esalto il mio Dio con tutta l'anima, perchè Lui solo ha potuto strapparla da quelle mani, salvarla dall'arena e restituirmela per sempre. O Petronio, tu hai veduto quale coraggio e quale conforto dia questa religione nella sventura, e quanta rassegnazione e forza dinanzi alla morte; così vieni a vedere quanta felicità essa dia nella vita comune di tutti i giorni. Il popolo non conosceva un Dio che gli uomini potessero amare, così non si amavano l'un l'altro; e questa era la loro sventura, perchè come la luce viene dal sole, così la felicità viene dall'amore. legislatori, filosofi hanno insegnato questa verità che non esisteva in Grecia in Roma; e quando dico in Roma, voglio dire in tutto il mondo. L'arido e freddo insegnamento degli stoici intorno al quale si radunano le persone virtuose, tempera il cuore come una spada, ma lo rende indifferente piuttosto che migliore. Perchè scrivo io di queste cose a te che sei dotto e che hai più intelligenza che io non abbia? Tu hai conosciuto Paolo di Tarso e hai conversato con lui più di una volta, perciò tu sai meglio di me, se, a paragone della verità ch'egli predicava, gli insegnamenti dei filosofi e dei rètori non siano vani giuochi di parole senza significato.

«Ti ricordi l'interrogazione che ti fece: «Se Cesare fosse cristiano, non vi sentireste più sicuri, non sareste più sicuri dei vostri beni e non sareste più liberi dalle inquietudini di un incerto domani?» Tu mi hai detto che la nostra dottrina è nemica della vita: e io ti rispondo ora che se dal principio di questa lettera ti avessi scritto solamente tre parole: «Io sono felice!» non avrei potuto manifestarti tutta la mia felicità. A questo tu risponderai che la mia felicità è Licia. È vero, amico mio. Perchè io amo la sua anima immortale e perchè noi entrambi ci amiamo l'un l'altro in Cristo; per un amore come questo non vi è separazione, non vi è inganno, non vi è mutamento, non vi è vecchiaia, non vi è morte. Perchè quando la gioventù e la bellezza se ne vanno, quando i nostri corpi avvizziscono e la morte viene, rimarrà l'amore, perchè lo spirito rimane. Prima che i miei occhî fossero aperti alla luce del vero ero pronto ad ardere anche la mia casa per amore di Licia; ma ora ti dico che io non l'amavo perchè è stato Cristo che mi ha insegnato ad amare. In lui è la sorgente della pace e della felicità. Non sono io che lo dico, è la stessa realtà. Paragona il tuo lusso, amico, circondato di inquietudini, le tue delizie non sicure del domani, e le tue orgie colla vita dei cristiani, e tu troverai pronta la risposta. Ma perchè il paragone ti sia più facile, vieni alle nostre montagne odoranti il timo, all'ombra dei nostri olivi allineati, sulle nostre rive coperte di edera. Qui ti aspetta una pace che non conosci da tanto tempo e cuori che ti amano sinceramente. Con un'anima nobile e buona come la tua dovresti essere felice. La tua mente svegliata può discernere la verità; quando l'avrai conosciuta, l'amerai. È possibile esserle nemici come Cesare e Tigellino, ma non è possibile esserle indifferente. O mio Petronio, Licia ed io ci confortiamo colla speranza di vederti presto. Sta bene, sii felice e vieni da noi.»

 

Petronio ricevette questa lettera a Cuma, dove era andato cogli altri augustiani che seguivano Cesare. La sua lotta di tanti anni con Tigellino si avvicinava alla fine. Petronio sapeva già che doveva cadere in cotesta lotta e ne capiva il perchè.

Siccome Cesare discendeva di giorno in giorno nella parte di attore, di buffone e di auriga; siccome egli affondava sempre più nella languida e scurrile dissipazione vergognosa, così il consumato arbiter gli era divenuto un semplice peso.

Petronio taceva e Nerone vedeva nel silenzio il biasimo; l'arbitro lodava e l'imperatore vi sentiva il ridicolo. Il brillante patrizio irritava il suo amor proprio e ne suscitava l'invidia. La sua ricchezza e i suoi splendidi lavori d'arte erano divenuti oggetti che facevano gola tanto all'imperatore che all'onnipotente ministro. In vista del viaggio all'Acaia, Petronio era stato risparmiato e per il suo gusto squisito e per le sue cognizioni di tutto ciò che era greco. Ma a poco a poco Tigellino aveva insinuato a Cesare l'idea che Carina lo vinceva di molto in materia di gusto e di cognizioni e che sarebbe stato assai più abile nel preparare gli spettacoli, i ricevimenti e i trionfi. Da quel momento Petronio fu perduto. Non si ebbe coraggio di inviargli la sua sentenza in Roma. Cesare e Tigellino si ricordavano che quell'esteta apparentemente effeminato, che faceva della notte il giorno e che si occupava solo di lusso, di arte e di banchetti, aveva dimostrato, proconsole in Bitinia e console nella capitale, una sorprendente attività ed energia. Lo consideravano capace di qualunque cosa, e in Roma si sapeva ch'egli non era solo amato dal popolo, ma anche dai pretoriani. Nessuna delle persone di fiducia di Cesare poteva prevedere che cosa Petronio poteva fare in un dato caso; pareva dunque più giudizioso di attirarlo fuori di città e raggiungerlo in provincia.

A questo scopo egli ricevette un invito di andare a Cuma cogli altri augustiani. Benchè vi sospettasse l'imboscata, vi andò forse per non parere in aperta opposizione e forse per mostrare una volta di più una faccia gioconda, senza alcuna preoccupazione di Cesare e degli augustiani, e per guadagnare un'ultima vittoria su Tigellino prima della morte.

Intanto quest'ultimo lo accusava di amicizia col senatore Scevino, il quale fu l'anima della congiura di Pisone. La gente di Petronio rimasta in Roma venne incarcerata e la sua casa venne circondata dai pretoriani. Saputo questo, egli non si mostrò inquieto, interessato, e con un sorriso disse agli augustiani che egli aveva ricevuto nella sua splendida villa in Cuma:

– Ad Ahenobarbus non piacciono le interrogazioni dirette; così voi vedrete la sua confusione quando gli domanderò chi ha dato ordine di imprigionare la mia «famiglia» nella capitale.

Poi li invitò a un banchetto «prima del grande viaggio»; la lettera di Vinicio gli giunse appunto quando aveva fatto le preparazioni per la partenza.

Al momento divenne pensieroso, ma poco dopo riprese l'abituale tranquillità e nella stessa sera gli rispose con queste parole:

«Godo della vostra felicità e ammiro i vostri cuori, perchè io non avevo mai pensato che due amanti potessero ricordarsi di una terza persona lontana. Voi non solo non mi avete dimenticato, ma volete persuadermi di venire in Sicilia a dividere con voi il vostro pane e il vostro Cristo, il quale, come tu scrivi, vi ha dato una felicità così benefica.

«Se è vero, onorateLo. Secondo me Ursus c'entra per qualche cosa nella salvezza di Licia; come c'entra un po' anche il popolo di Roma. Ma dal momento che tu credi che sia Cristo che l'abbia salvata, non voglio contraddirti. Non risparmiare offerte per Lui. Anche Prometeo si è sacrificato per l'uomo; ma ohimè! Prometeo è evidentemente una invenzione dei poeti, mentre persone degne di fede mi hanno detto che hanno veduto Cristo coi loro occhî. Son d'accordo con te ch'egli sia il più meritevole degli dèi.

«Mi ricordo dell'interrogazione di Paolo di Tarso, e penso che se Ahenobarbus vivesse secondo gli insegnamenti di Cristo potrei avere tempo di fare una visita in Sicilia. E allora avremmo potuto conversare, all'ombra degli alberi, vicino alle fontane, di tutti gli dèi e di tutte le verità discusse dai filosofi greci di ogni tempo. Oggi devo limitarmi a darti una risposta breve.

«Mi interessano due soli filosofi: Pirrone e Anacreonte. Io sono pronto a venderti tutto il resto a buon mercato, con tutti gli stoici greci e romani. La verità, Vinicio, abita in qualche parte tanto in alto, che gli stessi dèi non possono vederla dalla cima dell'Olimpo. A te, carissime, pare che il vostro Olimpo sia ancora più alto, e tu, standotene dove sei, mi chiami: «Vieni, tu vedrai cose che non hai mai vedute!» Può darsi. Ma la mia risposta è questa: «Non ho piedi per il viaggio.» E se tu leggerai questa lettera fino in fondo, riconoscerai che ho ragione.

«No, felice marito della principessa Aurora! La tua religione non è per me. Devo amare i bitinî che portano la mia lettiga e gli egiziani che scaldano il mio bagno? Devo amare Barbadibronzo e Tigellino? Lo giuro per le bianche ginocchia delle Grazie che se anche lo volessi, non potrei. Vi sono in Roma centinaia di migliaia di persone che hanno le spalle curve, le ginocchia grosse, le coscie secche, gli occhî fissi, o le teste enormi. Mi ordini tu di amare pure tutta questa gente? Dove devo trovare tutto questo amore se non è nel mio cuore? E se il tuo Dio desidera che io ami tutte queste persone, perchè nella sua onnipotenza non ha dato loro la forma dei figli di Niobe, per esempio, che tu hai veduto al Palatino? Chi ama la bellezza non può, per questa stessa ragione, amare la bruttezza. Si può non credere ai nostri dèi, ma è possibile amarli come li hanno amati Fidia, Prassitele, Mirone, Scopa e Lisia

«Se anche volessi andare dove tu mi vorresti, non potrei. Ma dal momento che non voglio, sono doppiamente incapace di aderire al tuo desiderio. Tu credi, come Paolo di Tarso, che dall'altra parte dello Stige vedrai il tuo Cristo in certi Campi Elisi. Ti dica allora se Egli mi riceverebbe colle mie gemme, col mio vaso mirreno, coi miei libri pubblicati da Sozio e colla mia Eunice dai capelli d'oro. È un pensiero che mi fa ridere; perchè Paolo di Tarso mi ha detto che per amore di Cristo bisogna rinunciare alle corone di rose, ai banchetti ed al lusso. È vero che Egli mi ha promesso un'altra felicità; ma io gli ho risposto che sono troppo vecchio per una felicità nuova e che i miei occhî si sarebbero sempre deliziati delle rose e che l'odore della violetta è più caro a me del fetore del mio sucido vicino della Suburra.

«Queste sono le ragioni per cui la tua felicità non è per me. Ma ve n'è un'altra ancora che ho lasciato per ultimo: Thanatos mi chiama. Per te la luce della vita incomincia; ma il mio sole è tramontato, e il crepuscolo sta circonvolgendo la mia testa. In altre parole, io devo morire, carissime.

«Non vale la pena di soffermarsi molto su questo. Doveva finire così. Tu che conosci Ahenobarbus, capirai facilmente la posizione. Tigellino ha vinto, o piuttosto le mie vittorie sono giunte al loro termine. Ho vissuto come mi piaceva, morirò come mi piace.

«Non addolorarti. Nessun Dio mi ha promesso l'immortalità, così non ne sono sorpreso. Al tempo stesso t'inganni, Vinicio, quando affermi che solo il tuo Dio insegni all'uomo a morire serenamente. No. Il nostro mondo conosceva, prima che tu fossi nato, che allorquando l'ultima coppa fosse stata vuotata, bisognava andarseneandarsene a riposare – e desso conosce ancora come morire tranquillamente. Platone afferma che la virtù è musica, e che la vita di un saggio è armonia. Se ciò è vero, morirò come ho vissutovirtuosamente.

«Mi piacerebbe accommiatarmi dalla tua divina moglie colle parole colle quali la salutai una volta alla casa di Aulo: «Ho veduto tante persone, ma nessuna che ti fosse uguale

«Se l'anima è più di quello che pensa Pirrone, la mia, lungo il suo viaggio per la riva dell'Oceano, volerà a te e a Licia, e entrerà in casa vostra sotto forma di una farfalla o, come credono gli egiziani, sotto forma di un falco. Ma se non è, non posso venire.

«Intanto che la Sicilia rifaccia per voi i giardini delle Esperidi; che le dee dei campi, dei boschi e delle fontane spargano fiori sul vostro sentiero, e che le bianche colombe facciano i loro nidi in ogni acanto delle colonne della vostra casa

 

 

 


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