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Petronio non s'era sbagliato. Due giorni dopo il giovine Nerva, il quale gli era sempre stato amico e devoto, gli mandò a Cuma il suo liberto per avvertirlo di ciò che avveniva alla corte di Cesare.
La morte di Petronio era stata decisa. Al mattino del giorno seguente essi gli avrebbero mandato un centurione, coll'ordine di fermarsi a Cuma ad aspettare altri ordini; pochi giorni più tardi, il secondo messaggiero gli avrebbe portato la sentenza di morte.
Petronio ascoltò la notizia colla massima imperturbabilità.
– Tu porterai al tuo signore, diss'egli, uno dei miei vasi; gli dirai che lo ringrazio con tutta l'anima, perchè sono così in grado di prevenirne la sentenza.
E subito si mise a ridere, come uomo che abbia trovato una idea e goda anticipatamente il momento di metterla in pratica.
In quello stesso pomeriggio i suoi schiavi corsero dappertutto a invitare gli augustiani e tutte le signore in Cuma a un sontuoso banchetto alla villa dell'arbiter.
Prima scrisse nella sua biblioteca; poi fece un bagno, dopo il quale ordinò alla vestiplicæ di accomodare le pieghe del suo abito. Andò al triclinio elegante e maestoso come uno degli dèi, a dare un'occhiata da critico ai preparativi, e poi passò nei giardini dove i giovani e le fanciulle greche intessevano corone di rose per la sera.
Sul suo volto non era alcuna preoccupazione. I domestici sapevano solo che il banchetto doveva essere qualche cosa di straordinario, perchè egli aveva dato ordine di ricompensare generosamente quelli dei cui servigi era contento e di staffilare coloro che facevano male le cose o che erano stati biasimati o puniti prima. Volle che i citaredi o i cantanti fossero pagati profumatamente e anticipatamente. Poi andò a sedere in giardino, sotto un faggio, dal cui fogliame i raggi del sole chiazzavano il terreno di luce, e chiamò Eunice.
Ella apparve vestita di bianco, con un ramoscello di mirto nei capelli, bella come una delle Grazie. Se la fece sedere vicino e gentilmente, con le dita, le toccò le tempie, contemplandola con quell'ammirazione con cui un critico contempla la statua uscita allo scalpello di un maestro.
– Eunice, diss'egli, sai tu che non sei più schiava dal giorno che sei mia?
Ella alzò tranquillamente i suoi occhî azzurri come il cielo e disse di no con un cenno della testa.
– Sono sempre schiava, diss'ella.
– Ma forse tu non sai, continuò Petronio, che la villa e quelle schiave che intrecciano corone, e tutto ciò che è nella villa coi campi e il gregge sono d'ora innanzi tuoi.
Eunice, udito questo, si staccò da lui e gli domandò con una voce piena di paura:
Poi gli si riavvicinò, guardandolo stupita. Poco dopo il di lei viso divenne bianco come una cera.
Egli sorrise e disse una sola parola:
– Così!
Seguì un momento di silenzio, mentre una leggiera brezza moveva le foglie del faggio.
Petronio poteva supporre che gli stava dinanzi una statua di marmo bianco.
– Eunice, diss'egli, voglio morire tranquillamente.
E la fanciulla, guardandolo con un sorriso che lacerava il cuore, bisbigliò:
– Ti capisco.
A sera, gli invitati che erano già stati ai banchetti di Petronio e che sapevano che al loro confronto anche quelli di Cesare sembravano tediosi e barbari, incominciarono ad arrivare in gran numero. A nessuno passò per la mente che quello doveva essere l'ultimo simposio. Tanti sapevano, è vero, che le nubi della collera di Cesare si addensavano sulla testa dello squisito arbitro; ma ciò era avvenuto tante volte, e Petronio aveva saputo dissiparle così spesso con un semplice atto o una sola parola audace, che nessuno pensava davvero che fosse minacciato da un pericolo grave. Il suo viso lieto e il suo solito sorriso, senza preoccupazioni di sorta, confermò tutti in questa opinione. La bella Eunice, cui egli aveva dichiarato di voler morire tranquillo, e per la quale ogni sua parola era un decreto, aveva sulle sue fattezze una calma perfetta e negli occhî uno splendore che poteva essere considerato di gioia. All'entrata del triclinio i giovinetti coi capelli nelle reti dorate mettevano corone di rose sulla testa dei convitati, avvertendoli, come era l'abitudine, di passare la soglia mettendo innanzi il piede destro. Nella sala vi era una mite fragranza di violette; le lampade ardevano nei vetri alessandrini di varî colori. Accanto ai divani stavano le fanciulle greche, il cui còmpito era di umettare di profumi i piedi degli invitati. Alle pareti erano i citaredi e i coristi ateniesi che aspettavano il segnale del loro maestro.
La tavola era tutta uno splendore, ma uno splendore che non faceva chiudere gli occhî e non opprimeva; pareva una cosa naturale. La gioia e la libertà si spandevano per la sala col profumo delle violette. Gli ospiti entravano e sentivano che nulla li minacciava o li comprimeva, come nella casa di Cesare, dove un uomo poteva perdere la vita per lodare poco o troppo. Alla vista delle lampade, delle tazze intrecciate di edera, del vino che si raffreddava nella neve e delle vivande squisite, i cuori degli ospiti si rallegravano. La conversazione faceva sentire il susurro delle api sul melo in fioritura. A momenti veniva interrotta da uno scoppio di risa gioconde, a momenti dagli applausi e a momenti da un bacio deposto troppo rumorosamente su qualche bianca spalla.
Gli invitati, mentre bevevano il vino, ne spargevano qualche goccia dai calici per gli dèi immortali, invocando la loro protezione e i loro favori per il padrone di casa. Non importava che parecchî di loro non avessero fede negli dèi. Il costume e la superstizione lo esigevano. Petronio, volgendosi a Eunice, parlava di Roma, degli ultimi divorzî, degli intrighi amorosi, delle corse, di Spiculo, divenuto ultimamente famoso nell'arena, e degli ultimi libri nelle botteghe dei libraî Atracto e Sozii. Quand'egli spargeva gocce di vino diceva che le spargeva solo in onore della Signora di Cipro, la divinità più antica e più grande, la sola immortale che durava e imperava.
La sua conversazione era come la luce del sole che illuminava a ogni istante un nuovo oggetto o come la brezza primaverile che agita i fiori in un giardino. Alla fine diede il segnale al maestro di musica e subito le cetre incominciarono a suonare sommesse, accompagnate dalle voci dei giovanetti. Poi le fanciulle di Cos, il luogo di nascita di Eunice, si misero a danzare, lasciando vedere le loro rosee forme sotto le loro vesti di garza. Dopo loro un indovino egiziano predisse agli ospiti il futuro, traendo l'oroscopo dai movimenti dei colori dell'iride in un vaso di cristallo.
Quando ne ebbero abbastanza di questi divertimenti, Petronio si elevò sul suo cuscino siriaco e disse con esitanza:
– Vi chieggo scusa, amici, se vi domando un favore a un banchetto. Voglia ciascuno degli invitati accettare come un dono la coppa dalla quale egli ha sparso il vino in onore degli dèi per la mia felicità.
Le coppe di Petronio scintillavano d'oro, di pietre preziose ed erano scolpite dagli artisti: perciò, quantunque il dare doni fosse cosa comune in Roma, i commensali ne furono entusiasti. Alcuni lo ringraziarono ad alta voce; altri dissero che Giove nell'Olimpo non aveva mai onorato gli dèi con tali doni; e finalmente v'erano di quelli che rifiutavano di accettarle, dicendo che il regalo sorpassava l'aspettativa di ognuno.
Ma egli alzò in alto la coppa mirrena, la quale rassomigliava in splendore all'iride, ed era di un valore inestimabile, dicendo:
– Ecco la coppa colla quale io sparsi il vino in onore della Signora di Cipro. Che nessun labbro la tocchi d'ora innanzi e che nessuna mano sparga vino da essa in onore di un'altra divinità.
Gettò la coppa preziosa sul pavimento, coperto di fiori dai colori dello zafferano e bianchi; e quando fu tutta in frantumi, e si vide intorno tanti visi sorpresi, disse:
– Miei cari amici, siate lieti e non vi date pensiero. La vecchiaia e la debolezza sono il triste retaggio degli ultimi anni della vita. Io voglio darvi un buon esempio e un buon consiglio. Come vedete è in voi la libertà di aspettare la vecchiaia. Voi potete andarvene prima che arrivi, come faccio io.
– Che cosa vuoi fare? gli domandarono parecchie voci spaventate.
– Voglio godermela, bere del vino, udire della musica, guardare alle forme divine di colei che mi è vicina e cadere nel sonno con la testa inghirlandata. Mi sono accommiatato da Cesare, e volete sentire che cosa gli ho scritto nel momento della separazione?
Si tolse disotto il cuscino di porpora un foglio e lesse:
– So, o Cesare, che tu aspetti il mio arrivo con impazienza, e che il tuo cuore amico e fedele mi desidera giorno e notte. So che tu sei pronto a colmarmi di doni, a farmi prefetto delle guardie pretoriane, e ordinare a Tigellino di essere quello che lo hanno fatto gli dèi, un mulattiere in quelle terre che tu ereditasti dopo avere avvelenato Domizio. Perdonami, ma io ti giuro per Platone e per le ombre di tua madre, di tua moglie, di tuo fratello e di Seneca che non posso aderire al tuo desiderio. La vita è un grande tesoro. Io ho preso le gemme più preziose da quel tesoro, ma nella vita vi sono tante cose che io non posso più sopportare.
«Non imaginarti, ti prego, che io sia indignato perchè tu hai assassinato tua madre, tua moglie e tuo fratello, perchè tu hai incendiato Roma e inviato a Erebo23 tutte le persone oneste dei tuoi dominî. No, pronipote di Chronos. La morte è l'eredità dell'uomo e da te non si poteva aspettarsi altro. Ma farsi lacerar le orecchie per anni interi dalla tua poesia, vedere il tuo pancione domiziano su gambe sottili turbinare in una danza pirrica, udire la tua musica, la tua declamazione, i tuoi versi sbagliati e burleschi, o miserabile poeta dei suburbi, è cosa che sorpassa le mie forze e mi ha suscitato la voglia di morire. Roma si tappa le orecchie quando ti sente e il mondo ti insulta. Non posso nè voglio più arrossire per te. Gli ululati di Cerbero, benchè rassomiglianti alla tua musica, mi irriteranno meno, perchè io non sono mai stato amico di Cerbero e non ho ragione di vergognarmi dei suoi latrati. Addio, ma non scrivere più musica; uccidi ma non scrivere più versi; avvelena il popolo, ma non danzare più mai; sii un incendiario, ma non suonare più sulla cetra. Questo è l'ultimo desiderio e l'ultimo consiglio amichevole che ti invia l'Arbiter Elegantiæ.»
I commensali rimasero esterrefatti, perchè sapevano che la perdita dell'impero sarebbe stata meno crudele a Nerone che questo colpo. Intendevano pure che l'uomo che aveva scritto quelle parole doveva morire; e al tempo stesso il pallore della paura si diffondeva per le loro guance perchè avevano udito uno scritto come quello.
Ma Petronio rideva di gioia sincera e spontanea, come se si fosse trattato della più innocente facezia; poi girò gli occhî sugli invitati, e disse:
– Siate allegri e bandite la paura. Nessuno ha bisogno di vantarsi di avere udito questa lettera. Io me ne vanterò solo con Caronte, quando sarò con lui in barca per l'altra riva.
Fece cenno al medico greco e gli allungò il braccio. In un attimo l'abile chirurgo gli aperse la vena dove il braccio si piega. Il sangue zampillò sul cuscino e innaffiò Eunice, la quale, sostenendo la testa di Petronio, s'inchinò su lui, dicendo:
– Hai tu supposto che io ti lasciassi? Se gli dèi mi dessero l'immortalità e Cesare l'impero del mondo, ti seguirei lo stesso.
Petronio sorrise, si alzò un po', avvicinò le sue labbra a quelle di Eunice e disse:
– Vieni con me.
Ella stese il suo roseo braccio al chirurgo e poco dopo il di lei sangue incominciò a confondersi e a perdersi in quello dell'arbitro.
Indi Petronio fece segno al maestro di musica e di nuovo si udirono le cetre e le voci dei coristi. Cantarono prima Armodio, poi il Canto di Anacreonte – il canto nel quale il poeta si duole di avere trovato un tempo il fanciullo di Afrodite assiderato e piangente sotto un albero; egli lo raccolse, lo scaldò, gli asciugò le ali, e il fanciullo ingrato gli attraversò il cuore con un dardo, e da quel momento il poeta non ebbe più pace.
Petronio e Eunice, colla testa dell'uno adagiata sul petto dell'altra, belli come due divinità, ascoltavano, sorridevano e divenivano pallidi. Alla fine del canto Petronio ordinò dell'altro vino e delle altre vivande; poi si mise a conversare coi convitati vicini a lui di cose di poca importanza, ma piacevoli, tali come si dicevano di solito ai banchetti. Per ultimo, chiamò il greco perchè gli fasciasse il braccio per un momento, perchè il sonno lo tormentava, ed egli voleva abbandonarsi ad Hypnos prima che Thanatos lo addormentasse per sempre.
Infatti si addormentò. Si risvegliò col viso di Eunice sul suo petto, come un fiore bianco. L'adagiò sul cuscino per contemplarla una volta ancora. Dopo si fece riaprire le vene.
Al suo cenno i coristi ricominciarono il Canto di Anacreonte, accompagnati dolcemente dalle cetere per non soffocare le parole. Petronio continuava a impallidire; terminato il canto si volse di nuovo agli invitati, dicendo:
– Amici, confessate che con noi perisce...
Non ebbe la forza di finire; coll'ultimo movimento del suo braccio cinse Eunice, la sua testa cadde sul cuscino e morì.
Gli ospiti, guardando a quelle due bianche forme, rassomiglianti a due statue meravigliose, comprendevano bene che con loro periva tutto ciò che era rimasto alla società di quel tempo: la poesia e la bellezza.