Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

EPILOGO

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EPILOGO

 

La prima rivolta delle legioni galliche sotto Vindice non pareva molto pericolosa. Cesare non aveva che trentun anno e nessuno era tanto audace da sperare che il mondo si sarebbe liberato così presto dall'incubo che lo soffocava. Gli uomini si ricordavano che tra le legioni le rivolte non erano nuove e che erano avvenute anche sotto i precedenti imperi, rivolte che, ad ogni modo, erano passate senza cambiamento di sovrano, come durante il regno di Tiberio, quando Druso sedò la ribellione delle legioni pannoniche.

– Chi, diceva la gente, può prendere il governo dopo Nerone, se tutti i discendenti del divino Augusto sono periti?

Altri, guardando ai Colossi che lo rappresentavano, se lo imaginavano un Ercole e pensavano che nessuna forza avrebbe potuto abbatterlo. Vi erano pure quelli che dal suo viaggio all'Acaia lo compiangevano perchè Elio e Politeto, ai quali aveva affidato il governo di Roma e d'Italia, governavano più crudelmente di lui.

La dignità umana e la virtù erano spente. Nessuno era più sicuro della vita e dei beni. La legge aveva cessato di proteggere: i legami di famiglia erano franti, e i cuori umiliati non osavano neppur più ammettere la speranza. Dalla Grecia giungevano le notizie dei trionfi inauditi di Cesare, delle migliaia di corone guadagnate e delle migliaia di emuli vinti.

Il mondo pareva fosse un'orgia di buffoneria e di sangue; ma contemporaneamente si faceva largo l'opinione che la virtù e le azioni dignitose avevano cessato di esistere e che era venuto il tempo della danza e della musica, della depravazione e del sangue, e che la vita doveva continuare in avvenire su quella strada. Lo stesso Cesare a cui la ribellione apriva la via a nuovi saccheggi, non era molto interessato della rivolta delle legioni e di Vindice; anzi se ne diceva spesso contento. Non voleva neppure lasciare l'Acaia e solo si mosse alla volta di Napoli quando Elio gli fece sapere che l'assenza prolungata poteva fargli perdere l'impero.

A Napoli recitò e cantò, senza darsi pensiero degli avvenimenti che aggravavano il pericolo. Invano Tigellino gli spiegava che le passate rivolte delle legioni mancavano di capi e che questa aveva invece un uomo disceso dagli antichi re di Gallia e di Aquitania, famoso ed esperto soldato.

– Qui, rispose Nerone, i Greci mi ascoltano – i Greci che soli sanno come ascoltare e soli sono degni del mio canto.

Egli diceva che i suoi primi doveri erano l'arte e la gloria. Ma quando giunse la notizia che Vindice lo aveva proclamato un miserabile artista, si alzò in piedi e si mosse alla volta di Roma. Le ferite che gli aveva inflitte Petronioguarite stando in Grecia – si riaprivano nel suo cuore, e voleva che il Senato lo ripagasse per l'inaudita infamia.

Lungo la strada vide un gruppo fuso in bronzo, rappresentante un guerriero gallico sopraffatto da un cavaliere romano; lo considerò un buon augurio, e perciò, s'egli accennava alle legioni in rivolta e a Vindice, era solo per metterli in ridicolo.

Il suo ingresso in città sorpassò tutto ciò ch'era stato veduto prima. Entrò nel cocchio che aveva servito ad Augusto per il suo trionfo. Un arco del Circo era stato demolito per dare spazio al corteo. Gli andarono incontro il Senato, i cavalieri e una moltitudine di gente. Le mura tremavano alle grida:

Salute, Augusto! Salute, Ercole! Salute, divino, incomparabile, olimpico, pitico, immortale!

Dietro lui si portavano le corone e i nomi delle città nelle quali egli aveva trionfato; e sulle tavolette erano incisi i nomi degli avversarî ch'egli aveva sconfitto!

Nerone, ubriaco di gloria e commosso dal delirio della folla, domandò agli augustiani che gli stavano dintorno:

– Che cosa fu il trionfo di Giulio a paragone del mio?!

L'idea che un mortale qualunque osasse mettere la mano su tale semidio non gli entrava nella testa. Si sentiva veramente olimpico, e perciò sicuro. L'eccitamento e la frenesia delle moltitudini resero lui stesso frenetico. Si poteva dire che in quel giorno trionfale non solo Cesare, ma tutto il mondo aveva perduto la testa.

Attraverso i fiori e i mucchî di corone, nessuno poteva vedere il precipizio. Tuttavia in quella stessa sera le colonne e le muraglie dei templi erano coperti di iscrizioni che descrivevano i delitti di Nerone, lo minacciavano di una prossima vendetta e lo dileggiavano come artista. Da una bocca all'altra correva la frase: «Cantò fino a quando risvegliò i GalliNotizie inquietanti facevano il giro della città e ingrossavano. Gli augustiani erano sgomentati. Il popolo, incerto del futuro, non osava esprimere speranze o desiderî; non osava quasi sentire o pensare.

Ma egli continuava a vivere di teatro e di musica. Si occupava degli strumenti di nuova invenzione e di un organo ad acqua del quale si facevano le prove al Palatino. Con una mente fanciullesca, incapace di ideare e di agire, s'imaginava di poter stornare i pericoli colle promesse degli spettacoli e delle recite teatrali di da venire. Le persone che lo circondavano, vedendo che invece di provvedersi dei mezzi di difesa, andava solo alla ricerca di espressioni per descrivere vividamente il pericolo, incominciarono a perdere la testa. Molti però pensavano ch'egli stava semplicemente assordando e gli altri con delle citazioni, mentre intimamente era inquieto e terrorizzato. Infatti i suoi atti divenivano febbrili. Ogni giorno passavano per la sua testa migliaia di progetti. A momenti, balzava in piedi per andare incontro al pericolo: ordinava di imballare i suoi liuti e le sue cetre, di armare le giovani schiave come amazzoni e di ricondurre le legioni dall'Oriente. Poi di nuovo pensava di vincere la rivolta delle legioni galliche non colla guerra, ma col canto; e giubilava all'idea che col canto i soldati nemici avessero deposto le armi. I legionari lo avrebbero circondato colle lacrime agli occhî; lui avrebbe cantato loro un epinicio, e subito dopo sarebbe sorto per lui e per Roma l'età dell'oro. In altri momenti era avido di sangue; poi diceva a qualche altro che si sarebbe contentato del governo in Egitto. Si richiamava alla memoria le predizioni che lo facevano signore di Gerusalemme, o si commuoveva all'idea che si sarebbe guadagnato il pane come un bardo errabondo e che le città e le nazioni avrebbero onorato in lui non il Cesare, il signore della terra, ma il poeta come il mondo non aveva avuto mai.

E così lottava, infuriava, recitava, cantava, cambiando i pensieri, le citazioni, la vita sua e quella del mondo in un sogno assurdo, fantastico, spaventevole, in una tumultuosa caccia composta di frasi bislacche, di versi pessimi, di gemiti, di lacrime, di sangue; intanto la nube in Occidente ingigantiva e si addensava ogni giorno. La misura era più che colma; la pazza commedia si avvicinava alla fine.

Quand'egli seppe che Galba e la Spagna si erano uniti alla sollevazione, divenne furioso. Ruppe coppe, capovolse la tavola a un banchetto, diede ordini che Elio, Tigellino ebbero coraggio di eseguire. Uccidere i Galli residenti in Roma, incendiare la città una seconda volta, sguinzagliare le belve feroci e trasportare la capitale ad Alessandria sembrava a lui grande, sorprendente e facile. Ma i giorni della sua dominazione erano passati, ed anche coloro che avevano partecipato ai suoi delitti lo consideravano pazzo.

Comunque, la morte di Vindice e i dissensi tra le legioni in rivolta, pareva che facessero traboccare la bilancia della fortuna ancora dalla sua parte. E di nuovo ricominciarono i banchetti e i trionfi e di nuovo si distribuirono sentenze di morte; fino a quando una certa notte arrivò un messaggiero sopra un cavallo coperto di schiuma, con la notizia che nella stessa città i soldati avevano levato lo stendardo della rivolta, e proclamato Galba imperatore.

All'arrivo del messaggiero Cesare dormiva; svegliatosi, chiamò invano la guardia notturna di sentinella ai suoi appartamenti. Il palazzo era deserto: gli schiavi saccheggiavano negli angoli più lontani tutto ciò che si poteva portar via in fretta. Ma la vista di Nerone li spaventò; egli andava per il palazzo, riempiendolo delle grida della sua disperazione e della sua paura.

Alla fine accorsero i suoi liberti Faone, Sporo ed Epafrodito. Volevano che fuggisse e gli dicevano che non c'era tempo da perdere; ma egli si illudeva ancora. S'egli si fosse vestito a lutto e avesse parlato al Senato, il Senato avrebbe resistito alle sue preghiere e alla sua eloquenza? S'egli si fosse servito di tutta la sua arte oratoria, di tutta la sua rettorica, di tutta la sua maestria di recitare, ci sarebbe mai stato uno al mondo che avrebbe potuto resistergli? Non gli avrebbero dato anche per gratitudine la prefettura d'Egitto?

I liberti, abituati all'adulazione, non avevano ancora l'audacia di contraddirlo apertamente; solo lo avvertivano che prima ch'egli potesse arrivare al Foro il popolo lo avrebbe fatto in pezzi e gli dichiararono che se non fosse saltato in groppa al cavallo senza indugio, anch'essi lo avrebbero abbandonato.

Faone gli offriva asilo nella sua villa fuori di porta Nomentana. Poco dopo montarono a cavallo, coprendo la testa di Nerone con un mantello, e via se ne andarono di galoppo verso le porte della città. La notte impallidiva, ma per le strade c'era un'animazione che dimostrava l'eccezionalità del momento.

Per tutta la città si vedevano gruppi di soldati e soldati soli. Non lontano dal campo il cavallo di Cesare s'impennò spaventato alla vista di un cadavere. Il mantello gli cadde dalla testa e un soldato riconobbe Nerone, ma confuso dall'incontro inaspettato, gli fece il saluto militare. Passando per il campo pretoriano udirono le acclamazioni in onore di Galba. Nerone capì finalmente che l'ora della morte era vicina. Il terrore e i rimorsi s'impadronirono di lui. Diceva di vedersi dinanzi l'oscurità sotto forma di una nube nera e che dalla nube uscivano facce che gli riproducevano le sembianze di sua madre, di sua moglie e di suo fratello. I suoi denti battevano dallo spavento; tuttavia la sua indole di attore provava una specie d'incanto nell'orrore di quella scena. Essere assoluto padrone della terra, e perdere ogni cosa gli pareva il culmine della tragedia; e fedele al suo mandato, recitò la commedia fino alla fine. Lo riprese la mania delle citazioni, con un desiderio ardente che coloro che erano con lui le conservassero per i posteri. A minuti diceva che voleva morire e chiamava Spiculo, il più esperto gladiatore nell'arte di uccidere; e a minuti declamava: «La madre, la moglie, il padre, mi chiamano alla morte.» Nondimeno, di tanto in tanto, lo attraversavano lampi di speranza – di speranza vana e fanciullesca. Sapeva che andava alla morte, tuttavia non lo credeva ancora.

Trovarono la porta Nomentana aperta. Andando innanzi passarono vicino all'Ostriano, dove Pietro aveva predicato e battezzato. All'alba arrivarono alla villa di Faone.

Ivi i liberti non gli tennero più celato che il tempo di morire era venuto. Allora egli ordinò di scavargli una fossa, e si distese in terra perchè potessero prenderne la giusta misura. Alla vista però della terra che buttavano fuori, si sentì gelare il sangue. La sua faccia carnosa divenne pallida, e sulla sua fronte apparvero stille di sudore come gocce di rugiada. Indugiò. Con una voce che sentiva della sua viltà e della sua teatralità, dichiarò che l'ora non era ancora venuta; e ricominciò a declamare. Alla fine li supplicò di bruciare il suo corpo.

– Che artista perisce! diss'egli come stupefatto.

Intanto era giunto il messaggiero di Faone coll'annuncio che il Senato aveva decretato che il «matricida» doveva essere punito secondo l'antico costume.

– Che cos'è l'antico costume? domandò Nerone colle labbra cadaveriche.

Chiuderanno il tuo collo in una forca, ti frusteranno a morte e getteranno il tuo cadavere nel Tevere, rispose brutalmente Epafrodito.

Nerone si scoperse il petto.

– È tempo, allora! diss'egli guardando il cielo.

E ripetè:

– Che artista perisce!

In quel momento si udì lo scalpitìo di un cavallo. Era il centurione che veniva coi soldati a prendere la testa di Barbadibronzo.

– Presto! gridarono i liberti.

Nerone si mise il coltello alla gola, ma ve lo spingeva timidamente. Era evidente ch'egli non avrebbe mai avuto il coraggio di sprofondarvelo. Immediatamente Epafrodito gli andò sopra con la mano e ve lo immerse fino al manico.

– Ti porto la vita! esclamò il centurione entrando.

– Troppo tardi! rispose Nerone con voce rauca; poi aggiunse:

– Ecco la fedeltà!

In un attimo la morte si impadronì della sua testa. Il sangue usciva dal suo collo enorme come una corrente nera che andava sui fiori del giardino. Le sue gambe urtarono convulsivamente il terreno e morì.

All'indomani la fedele Atte ravvolse il suo corpo in ricche stoffe e lo arse sopra un rogo pieno di profumi.

E così Nerone è passato come un turbine, come una tempesta, come un incendio, come passa la guerra o la morte. Ma la basilica di Pietro, dall'alto del Vaticano, domina ancora la città e il mondo.

Vicino all'antica porta Capena, ancora oggi si vede una piccola cappella, coll'iscrizione alquanto logorata: Quo vadis, Domine?

 

 

FINE.


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