Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO IV

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CAPITOLO IV

 

Petronio mantenne la promessa.

Il giorno appresso alla visita fatta a Crisotemide, egli dormì, è vero, tutto il giorno; ma alla sera si fece portare al Palatino, dove ebbe un colloquio confidenziale con Nerone: e il terzo giorno, in conseguenza di questo colloquio, un centurione alla testa di una diecina di pretoriani andò alla casa di Plauzio.

Il momento fu terribile. Messaggieri di questa specie sono spesso araldi di morte. Perciò quando il centurione picchiò col battaglio alla porta di Aulo e quando l'atriense annunciò che vi erano soldati in anticamera, tutta la casa fu invasa dal terrore. La famiglia si raccolse immantinenti intorno al vecchio generale, perchè nessuno dubitava che qualche sventura gli sovrastava sul capo. Pomponia gli gettò le braccia al collo, e si appese a lui con tutte le forze, bisbigliandogli parole frettolose colle labbra livide. Licia, bianca come una morta, gli baciò la mano: il piccolo Aulo si aggrappò alla sua toga. Dal corridoio, dalle camere del primo piano, occupate dalle donne e dai domestici, dal bagno, dalle cànove, da ogni parte della casa la folla degli schiavi usciva in fretta colle grida di heu! heu, me miserum. Le donne irrompevano in pianti dirotti e molte di loro si graffiavano le guance o si coprivano il capo coi fazzoletti.

Solo il vecchio condottiero, abituato da anni a guardare in viso alla morte, rimase calmo, colla sua faccia aquilina divenuta rigida come se fosse stata scolpita in marmo. Imposto il silenzio e dato ordine alla servitù di ritirarsi, disse:

Lasciami andare, Pomponia. Se la mia ora è venuta, avremo ancora tempo di dirci addio.

La respinse dolcemente.

Pomponia disse:

Dio conceda che la tua sorte sia anche la mia, o Aulo!

Poi, cadendo sulle ginocchia, si mise a pregare con quel fervore che nasce solo dalla paura di perdere un essere amato.

Aulo si avviò all'atrio, dove lo aspettava il centurione. Egli era il vecchio Cajo Hasta, altre volte suo subordinato e compagno nelle guerre britanniche.

– Ti saluto, capitano, diss'egli. Ti porto un saluto e un ordine di Cesare: ecco le tabelle ed il segno per mostrarti che io vengo in suo nome.

– Sono riconoscente a Cesare per il saluto ed obbedirò al suo , rispose Aulo. Sii il benvenuto, Hasta, e dimmi l'ordine che mi hai portato.

Aulo Plauzio, incominciò il centurione, Cesare ha saputo che abita in casa tua la figlia del re dei Lici, il quale, vivente il divo Claudio, la diede ostaggio ai Romani, come pegno che i confini dell'impero non sarebbero stati violati dai Lici. Il divo Nerone ti è grato, o capitano, che tu l'abbia ospitata per tanti anni; non volendo però ch'ella ti sia più oltre di peso e considerando che la fanciulla, come ostaggio, deve essere sotto la tutela di Cesare e del Senato, ti ordina ti consegnarla nelle mie mani.

Aulo era troppo soldato per permettersi dei rimpianti dinanzi un ordine di Cesare. Tuttavia l'impeto della collera e del dolore gli increspò leggermente la fronte. Dinanzi a quella increspatura tremavano un tempo le legioni britanne, ed anche ora sul viso di Hasta era la paura. Aulo Plauzio alla vista dell'ordine si sentì impotente. Guardò attentamente alla tabella e al segno, indi, levati gli occhî sul vecchio centurione, disse:

Aspetta, Hasta, nell'atrio fino a quando ti sarà consegnato l'ostaggio.

Dopo queste parole andò all'estremità della casa, nella sala chiamata æcus, dove lo aspettavano Pomponia Grecina, Licia e il piccolo Aulo, tremanti e spaventati.

– Nessuno è minacciato di morte, di esilio alle isole lontane, diss'egli: tuttavia un messaggiero di Cesare è sempre nunzio di sventura. Si tratta di te, Licia.

– Di Licia? domandò Pomponia sorpresa.

– Sì, rispose Aulo.

E voltosi alla fanciulla:

Licia, tu sei stata allevata in casa nostra come nostra figlia: io e Pomponia ti amiamo come tale: Ma sappi che tu non sei nostra figlia. Tu sei stata data dalla tua gente a Roma in ostaggio, e la tutela su te appartiene a Cesare. Ora Cesare ti toglie dalla nostra casa.

Parlava tranquillo, ma con un suono di voce insolito. Licia ascoltava battendo le palpebre, come se non intendesse di che cosa si trattava. Le guance di Pomponia impallidivano. Dalla entrata al corridoio ricomparivano le facce terrorizzate degli schiavi.

– La volontà di Cesare è legge, disse Aulo.

Aulo! sclamò Pomponia stringendosi la fanciulla fra le braccia, come se avesse voluto difenderla, sarebbe meglio per lei se morisse.

Licia, rifugiandosi al suo seno, ripeteva; «madre! madreincapace, coi singhiozzi, di pronunciare altre parole.

Sulla faccia di Aulo ricomparvero l'ira e il dolore.

– Se fossi solo al mondo, diss'egli tristamente, non la cederei viva, e i nostri parenti potrebbero oggi portare sacrifici a Giove Liberatore. Ma io non ho il diritto di uccidere te e il nostro figlio, il quale potrà forse vivere giorni migliori. Oggi andrò da Cesare a implorare perchè ritiri l'ordine. Non so se vorrà ascoltarmi. Intanto addio, Licia, e sappi che io e Pomponia abbiamo sempre benedetto il giorno in cui tu hai preso posto in casa nostra.

Così dicendo mise la mano sulla testa di lei, facendo di tutto per conservarsi tranquillo. Ma quando Licia lo guardò cogli occhî pieni di lagrime e quando gli prese la mano e se l'appressò alle labbra per coprirgliela di baci, la sua voce sentiva del profondo paterno dolore.

Addio, gioia nostra, luce dei nostri occhî, diss'egli,

E andò prestamente all'atrio per non lasciarsi sopraffare dall'emozione, indegna di un romano e di un condottiero.

Intanto Pomponia, dopo di avere condotta Licia nel cubicolo, incominciò a consolarla, a farle animo con parole che suonavano strane in quella casa, dove di dalla parete, nella stanza contigua, trovavasi il larario e l'ara sulla quale Aulo Plauzio, fedele all'antico costume, offriva sagrifici agli dèi famigliari. L'ora della prova era venuta. «Un tempo Virginio trafisse il seno di sua figlia per salvarla dalle unghie di Appio. Più tardi, Lucrezia si redense dal disonore con la vita. La casa di Cesare è un antro di infamia, di malvagità, di delitto. Ma noi, Licia, sappiamo perchè non abbiamo diritto di alzare le mani su noi stessi! Sì! La legge sotto cui noi viviamo entrambe è un'altra più grande, più santa; ci consente di difenderci dalla scelleraggine e dal disonore anche a costo del martirio e del sangue. Il più grande merito è di colei che esce pura dalla casa della corruzione. Fortunamente la vita non è che un attimo, mentre la risurrezione viene sola dal sepolcro. Al di della tomba non regna più Nerone, ma la misericordia. Ivi invece del dolore è l'allegrezza, invece del pianto è la gioia

Parlò poi di stessa.

Sì! essa era tranquilla: ma nel suo cuore erano profonde ferite. Aulo era il suo rimorso perchè non era ancora stato inondato dalla luce divina. E neppure le era stato permesso di allevare il figlio all'amore della verità. Se pensava che la vita poteva terminare in questo modo e che l'ora della separazione dolorosa e terribile poteva venire ad ogni momento, non sapeva imaginare felicità, anche in cielo, senza loro.

Ella aveva già pianto tante notti, pregando e implorando la grazia e la misericordia. Offriva le sue pene a Dio e aspettava con fiducia. Ed ora che un altro dolore l'aveva colpita e che un ordine del tiranno toglieva da lei uno dei suoi cari – uno che Aula aveva chiamato luce dei loro occhîsperava ancora colla fede che c'era una potenza superiore a Nerone ed una misericordia più potente della sua collera.

Si tirò a la testa della fanciulla con passione. Licia cadde sulle ginocchia, e cogli occhî nelle pieghe del peplo di Pomponia, rimase un istante raccolta nel silenzio. Si rialzò meno agitata.

– Mi piange il cuore per te, madre, e per il padre e per il fratello; ma so che la resistenza è inutile e che ci sarebbe fatale a tutti. Ti prometto che nella casa di Cesare io non dimenticherò mai le tue parole.

Le gettò le braccia al collo una volta ancora, poi, entrambe, si avviarono all'æcus, dove disse addio al piccolo Aulo, al loro vecchio maestro di greco, alla sua governante che l'aveva cullata e a tutti gli schiavi.

Uno di quest'ultimi, un alto e spalluto licio, chiamato in casa Ursus, il quale con altri servi aveva seguìto la madre di Licia con la figlia al campo dei Romani, si prostrò ai piedi di Pomponia.

– O domina, permettimi di andare colla mia padrona a servirla e a vegliarla nella casa di Cesare.

– Tu non sei nostro servo, bensì il servo di Licia, rispose Pomponia; ma se ti ammetteranno nella casa di Cesare, in quale modo potrai tu vegliare su lei?

– Non lo so, domina; so solo che nelle mie mani il ferro si rompe come il legno.

Venuto in quel punto Aulo e udita la domanda, non solo non si oppose, ma dichiarò che egli non aveva diritto di detenerlo. Stavano mandando via Licia che Cesare aveva chiesto come ostaggio, ed era obbligo che mandassero con lei il suo seguito, il quale passava anch'esso sotto la custodia di Nerone.

Qui egli susurrò all'orecchio di Pomponia che sotto forma di scorta essa poteva aggiungere quanti schiavi voleva perchè il centurione non poteva rifiutarli.

Per Licia questo fu un sollievo, Pomponia fu pure contenta di poterla circondare di servi di sua scelta. Oltre a Ursus, ella le destinò la vecchia governante, due cipriotte, abilissime pettinatrici, e due fanciulle germaniche per il bagno. La sua scelta fu fatta tra gli aderenti alla religione. Ursus era del numero da tanti anni. Pomponia poteva contare sulla fedeltà di quei servi e si consolava pensando che fra non molto il seme della fede sarebbe stato nella casa di Cesare.

Ella scrisse poche parole ad Atte, liberta di Nerone, raccomandandole caldamente Licia. Pomponia, è vero, non l'aveva mai incontrata alle riunioni dei fratelli della nuova credenza; ma aveva udito che Atte non si rifiutava mai di venir loro in soccorso e che aveva letto avidamente le lettere di Paolo di Tarso. Si sapeva che la giovine liberta era mesta ed affatto diversa da tutte le altre donne della casa di Nerone, e che in genere, era il buon genio del palazzo imperiale.

Hasta promise di consegnare la lettera ad Atte lui stesso. Ritenendo cosa naturale che la figlia di un re avesse un seguito, non sollevò eccezioni; solo si meravigliava che fosse di poche persone. Pregò semplicemente di far presto perchè non voleva essere sospettato di poco zelo.

Venne il momento della separazione. Gli occhî di Pomponia e di Licia si riempirono di nuovo; Aulo le ripose la mano sulla testa e dopo un breve intervallo i soldati, seguìti dalle grida del piccolo Aulo, il quale voleva contendere al centurione la sorella coi pugni, condussero Licia al palazzo di Cesare.

Il vecchio capitano diede ordine di preparare immediatamente la sua lettiga, e poi si chiuse con Pomponia nella pinacoteca contigua all'æcus.

Senti, Pomponia. Io andrò da Cesare, quantunque io creda che la mia visita sarà inutile; e pur sapendo che la parola di Seneca vale più nulla ora, pure andrò da Seneca. Oggi hanno più influenza Sofonio Tigellino, Petronio o Vatinio. Cesare non ha forse mai sentito parlare dei Lici. E se ha domandato Licia, l'ostaggio, gli è che qualcuno gliel'ha suggerito. È facile indovinare chi sia stato il suggeritore.

Pomponia levò subitamente gli occhî.

Petronio?

– Fu lui.

Vi fu un momento di silenzio. Poi Aulo continuò:

Vedi che cosa vuol dire lasciar varcare la soglia della casa a persone senza coscienza e senza onore. Sia maledetta l'ora in cui entrò Vinicio in questa casa, poichè ci condusse Petronio! Povera Licia! Uomini come quelli non domandano un ostaggio, ma una concubina.

Il suo dire divenne più sibilante per la rabbia e per l'angoscia che sentiva per la figlia adottiva. Si conteneva a mala pena e solo i pugni mostravano la violenza ch'egli faceva a stesso.

– Ho venerato gli dèi fino ad oggi, ma vedo che non sono che una menzogna. Non vi è altro dio al mondo che un pazzo, un perfido mostro chiamato Nerone.

Aulo, diss'ella, Nerone non è che una pestilenziale manata di cenere al cospetto di Dio.

Aulo passeggiava in su e in giù per il mosaico della pinacoteca. La sua vita era piena di atti grandiosi, e vuota di grandi sventure. Perciò non vi era abituato. Il vecchio condottiero si era affezionato a Licia assai più di quello che credeva, perciò non sapeva conciliare il pensiero colla perdita. S'aggiunga ch'egli si sentiva umiliato. Una mano pesava su lui ch'egli disprezzava e tuttavia sentiva ch'essa era potente e che lui era impotente.

Alla fine, domato lo sdegno che turbava i suoi pensieri, disse:

Credo che Petronio non ce l'abbia tolta per Cesare, perchè egli non avrebbe voluto offendere Poppea. Ce la portò via o per lui o per Vinicio. Oggi lo saprò.

E qualche minuto dopo la lettiga lo portava in direzione del Palatino. Pomponia, sola, si recò dal piccolo Aulo, il quale continuava a piangere la sua sorella e a minacciare Cesare.

 

 


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