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Aulo aveva giudicato bene nel dire ch'egli non sarebbe stato ammesso alla presenza di Nerone. Gli si disse che Cesare era occupato a cantare col citerista Terpno e che d'abitudine gli non riceveva che coloro che invitava. In altre parole che Aulo non doveva in avvenire tentare di vederlo.
Seneca, ammalato di febbre, accolse il vecchio condottiero col dovuto onore; ma quando sentì che cosa voleva, disse con amaro sorriso:
– Io ti posso rendere un solo servigio, o nobile Plauzio, ed è di non mostrare a Cesare che io senta del tuo dolore e che io voglia giovarti; sappi che basterebbe un tal sospetto perchè egli, per spiacermi, non ti rendesse più Licia.
Non lo consigliò neppure di andare da Tigellino, da Vatinio o da Vitellio. Costoro con del denaro avrebbero potuto fare qualcosa; forse anche sarebbe loro piaciuto di fare del male a Petronio, la cui influenza cercavano di distruggere; ma assai più probabilmente essi rivelerebbero a Nerone come Licia fosse cara a Plauzio, e allora Nerone si incaponirebbe sempre più a non concedergliela. E qui, il vecchio filosofo, incominciò a parlare con pungente ironia, rivolgendola contro sè stesso.
– Tu sei stato muto, Plauzio, tu sei stato muto per degli anni, e Cesare non ama i muti. Come non hai potuto andare in estasi per la sua bellezza, per la sua virtù, per il suo canto, per la sua declamazione, per il suo modo di guidare la biga, per i suoi versi? Perchè non l'hai tu glorificato per la morte di Britannico, perchè non hai pronunciato panegirici in onore dell'assassino della madre e non lo hai congratulato di avere irrigidita Ottavia? A te, Aulo, manca la preveggenza, ma, fortunatamente, noi che viviamo a Corte ne possediamo in larga dose.
Ciò dicendo, tirò su la coppa che portava alla cintola, prese dell'acqua alla fontana dell'impluvio, si rinfrescò le labbra ardenti, e continuò:
– Ah, è grato il cuore di Nerone! Ti ama perchè tu hai servito Roma e facesti passare la gloria del suo nome ai punti estremi del mondo; mi ama perchè io fui il suo maestro. Perciò, vedi, io so che quest'acqua non è avvelenata e posso berla in pace. Il vino di casa mia è meno sicuro. Se tu hai sete bevi liberamente dell'acqua. Gli acquedotti ce la portano dai monti Albani e chi l'avvelenasse avvelenerebbe tutte le fontane di Roma. Come tu vedi, è ancora possibile essere sicuri in questo mondo e vivere una vecchiaia tranquilla. Sono ammalato, è vero, ma più nell'anima che nel corpo.
Era così. A Seneca mancava la forza di carattere che possedevano per esempio Cornuto e Trasea; perciò la sua vita non era che una serie di concessioni al delitto. Lo sentiva lui stesso. Sapeva che un seguace di Zeno Citico, avrebbe dovuto andare per un'altra strada, e per questo soffriva assai più che per la paura della morte.
Aulo interruppe queste malinconiche riflessioni.
– Nobile Anneo, diss'egli, so come Cesare ti ha ricompensato delle cure di cui hai circondato i suoi giovani anni. Ma l’autore del rapimento di Licia è Petronio. Insegnami un mezzo contro lui, dimmi a quale influenza egli soggiace e serviti con lui di tutta l'eloquenza che la vecchia amicizia per me ti può inspirare.
– Petronio e io, rispose Seneca, siamo in campi opposti; non conosco mezzi contro lui; non cede ad alcuna influenza. Con tutta la sua corruzione, egli è forse il migliore di tutti i miserabili di cui ora si circonda Nerone. Cercare di dimostrargli che egli ha commessa una cattiva azione è semplicemente sciupare del tempo. È un pezzo che Petronio ha perduto la facoltà di distinguere il bene dal male. Provagli invece che il suo atto è brutto e lo vedrai arrossire. Quando lo vedrò, gli dirò solo: il tuo atto è degno di un liberto. Se non ti aiuterà questo, ogni cosa sarà inutile.
– Grazie anche per ciò, rispose il generale.
Indi diede ordine di portarlo a casa di Vinicio, il quale lo trovò nella sala da scherma che si esercitava col lanista di casa. Aulo si lasciò trasportare dalla collera vedendolo tranquillamente che giocava di scherma durante la consumazione del ratto di Licia; non era ancora caduta la cortina dietro il lanista, che Aulo scoppiò in un torrente furioso di invettive e di ingiurie. Ma Vinicio, non appena seppe che Licia era stata rapita, divenne così spaventevolmente pallido, che Aulo non potè neppur per un istante sospettare che egli vi avesse partecipato. La fronte del giovane divenne tutta imperlata di sudore; il sangue che gli era rifluito al cuore, in un attimo gli corse alle guance come una vampata di fuoco; i suoi occhî lampeggiavano: la sua bocca faceva domande insensate. La gelosia imperversava in lui come una tempesta. Parevagli che una volta che Licia aveva varcata la soglia del palazzo di Cesare, per lui non ci fosse più speranza. Non appena Aulo ebbe pronunciato il nome dello zio, il sospetto che Petronio si fosse burlato di lui passò per la mente del giovane soldato come un lampo. Dando Licia a Nerone, o voleva ottenere altri favori, o voleva tenerla per sè. Che Licia accendesse d'amore chi la vedeva non entrava nella sua testa. La violenza che aveva nel sangue, lo infuriava come un cavallo selvaggio e gli oscurava il pensiero.
– Capitano, diss'egli con voce rotta dall'ira, ritorna a casa e aspettami. Sappi che se Petronio fosse mio padre, io ne trarrei vendetta per il torto fatto a Licia. Ritorna a casa e aspettami. Non l'avrà nè Cesare nè Petronio.
Poi andò coi pugni sulle maschere di cera vicino all'atrio, scoppiando in un impeto di collera:
– Lo giuro per quelle maschere mortali! Preferirei uccidere lei e me.
Detto questo e con un altro «aspettami», si mise a correre per l'atrio come un uomo matto, e uscì, alla volta di Petronio, urtando i pedoni sulla via.
Aulo ritornò a casa con qualche speranza. Pensava che se Petronio aveva persuaso Cesare di portarla via per darla a Vinicio, questi l'avrebbe restituita. Inoltre si consolava dicendo che se non si fosse potuto liberare Licia, l'onore della fanciulla sarebbe stato protetto e vendicato colla morte. Supponeva che Vinicio avrebbe mantenuto la promessa. Lo aveva veduto sconvolto dalla passione e sapeva come questo sentimento era forte in tutta la famiglia. Lui stesso che amava Licia coll'affetto di vero padre, avrebbe preferito assassinarla che darla a Cesare. E se non fosse stato per suo figlio, l'ultimo rampollo della sua stirpe, l'avrebbe finita. Aulo era un soldato ed era molto se aveva udito parlare degli stoici; si accostava però al loro modo di pensare. Al suo orgoglio era preferibile la morte che il disonore.
Ritornato a casa, pacificò Pomponia, dandole le consolazioni ch'egli aveva, e tutti e due incominciarono ad aspettare notizie da Vinicio. A ogni momento che udivano i passi degli schiavi nell'atrio, credevano che fosse Vinicio che portasse loro l'amata fanciulla ed erano pronti a benedire entrambi dal fondo del cuore. Comunque, il tempo passava e nessuno veniva. Solo verso sera si udì il colpo del martello alla porta.
Poco dopo entrò uno schiavo consegnando ad Aulo una lettera. Al vecchio generale piaceva farsi vedere padrone di sè: ma in questo momento prese la lettera con certo tremito e incominciò a scorrerla in fretta, come se ne dipendesse la sorte di tutta la sua casa.
Immediatamente la sua faccia si oscurò, come se vi fosse caduta l'ombra di una nube che passava.
– Leggi, diss'egli, volgendosi a Pomponia.
«Marco Vinicio ad Aulo Plauzio, salute. Ciò che è avvenuto è avvenuto per volontà di Cesare, dinanzi al quale curvate le vostre teste, come io e Petronio abbiamo curvate le nostre.»