Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO IX.

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CAPITOLO IX.

 

A Licia rincresceva di perdere Pomponia Grecina, cui voleva bene con tutta l'anima; e le rincresceva di perdere la casa di Aulo; tuttavia ella non disperava più. Provava anzi una specie di gioia al pensiero ch'ella stava per sagrificare i piaceri e il lusso per la Fede, dando la preferenza a una esistenza nomade e sconosciuta. C'era forse in questo un po' di curiosità fanciullesca di conoscere questa vita nuova, in regioni remote, fra barbari e bestie selvaggie; ma c'era ancora di più: la fede profonda e sincera, che a fare quello che stava per fare ubbidiva al Divino Maestro e che da quel momento egli stesso avrebbe vegliato su lei come sopra una fanciulla ubbidiente e fedele. In tal caso, che male poteva avvenirle? Se fossero venuti i patimenti, essa li avrebbe subìti in suo nome. Se le fosse venuta la morte, Egli l'avrebbe presa con , e un giorno, morta Pomponia, si sarebbero trovate insieme per l'eternità. Più di una volta, nella casa di Aulo, torturava la sua testolina perchè non poteva fare nulla per quel Crocifisso, del quale Ursus parlava con tanta tenerezza. Il momento era venuto. Licia si sentiva quasi felice, e incominciò a parlare di una felicità ad Atte, che non poteva capire.

Era bello lasciare ogni cosa: casa, ricchezze, città, giardini, templi, portici; lasciare un paese pieno di sole e persone care al cuore... e perchè? Per sottrarsi all'amore di un giovane cavaliere superbamente bello. Erano idee che non potevano entrare nella mente di Atte. A momenti le pareva che l'atto di Licia fosse giusto e che vi dovesse essere una felicità misteriosa nel compierlo; ma non poteva farsi un'idea chiara di tutto questo, specialmente che l'avventura che si proponeva Licia poteva finir male, un'avventura nella quale poteva lasciarvi semplicemente la vita. Timida per natura, Atte pensava con trepidazione a quello che poteva portarle la sera. Ma aveva vergogna di comunicare le sue paure a Licia. Il giorno era chiaro e i raggi del sole erano nell'atrio, e Atte persuase Licia di andare a riposare dopo una notte senza sonno. Licia acconsentì; e tutte e due si avviarono al cubicolo, il quale grande e sontuoso per le antiche relazioni tra Atte e Cesare. Si adagiarono entrambe l'una accanto all'altra, ma, malgrado la stanchezza, Atte non poteva dormire.

Per un certo tempo essa era stata triste e infelice; ora era invasa da una inquietudine che non aveva sentita mai prima. Finora la vita le era sembrata pesante e senza domani, ora le sembrava ignominiosa.

La confusione le si rinfittiva nella testa. La porta della luce le si schiudeva e le si richiudeva. Al momento in cui s'apriva, la luce l'abbagliava in un modo che non poteva vedere nulla distintamente.

Indovinava, semplicemente, che in quella luce era una felicità immensa, al cui paragone il resto si dileguava.

Una felicità così sconfinata che se, per esempio, Cesare avesse messo da parte Poppea per riamarla, la sua gioia non sarebbe stata così grande. Le passò per la mente che Cesare, ch'ella amava e considerava inconsciamente una specie di semidio, era da compiangersi come uno schiavo, e che quel palazzo dalle colonne di marmo numidico non valeva meglio di un mucchio di pietre. Alla fine, questi pensieri ch'essa non sapeva spiegare, incominciarono a torturarla; ella voleva dormire, ma tormentata, non poteva.

Pensando che Licia, minacciata da tanti pericoli, non poteva non essere svegliata, si volse dalla sua parte a discorrere della sua fuga della sera.

Licia invece dormiva tranquilla. Nel cubicolo oscuro, le cui tende non erano interamente chiuse, entravano fili di sole in mezzo ai quali giocava la polvere d'oro. Per questi raggi Atte mirava il viso delicato di Licia che riposava sul suo braccio nudo, cogli occhî chiusi e la bocca semiaperta. Il suo respiro era regolare come di una dormiente.

– Essa dorme, essa può dormire, pensava Atte. Ella è ancora una bimba!

Tuttavia, poco dopo, le venne in mente che questa bimba preferiva la fuga piuttosto che divenire l'amante di Vinicio; preferiva la miseria all'abiezione, la vita errabonda a una casa reale, alle vesti, ai gioielli, al suono dei liuti e delle cetere.

Perchè?

E contemplava Licia, come per trovare una risposta sul viso della dormiente. Indugiava sulla sua fronte spianata, sulla calma dell'arco sopraccigliare, sulle sue trecce scure, sulle sue labbra dischiuse, sul suo seno verginale cui la respirazione sollevava regolarmente; poi, disse:

– Come poco le rassomiglio!

Licia le pareva un miracolo, una specie di visione divina, un essere adorato dagli dèi, cento volte più bella di tutti i fiori del giardino di Cesare, di tutte le statue del suo palazzo. Nel cuore della greca non c'era però invidia. Al contrario, la compiangeva pensando al pericolo che correva. Era come un sentimento materno. Non solo Licia le appariva bella come una bella visione, ma anche carissima; onde, avvicinate le sue labbra ai suoi capelli neri, glieli baciò.

E Licia dormiva tranquillamente, come se fosse stata a casa, sotto la protezione di Pomponia Grecina. E dormì piuttosto a lungo. Il mezzogiorno era già passato quando aperse gli occhî, guardando per il cubicolo meravigliata. Era sorpresa di non trovarsi in casa di Aulo.

– Sei tu, Atte? domandò ella alfine vedendo nel buio il viso della greca.

– Io Licia.

– È sera?

– No, bimba; non è che mezzogiorno passato.

Ursus non è ancora ritornato?

Ursus non ha detto che sarebbe ritornato; disse ch'egli avrebbe sorvegliato stasera la lettiga assieme coi cristiani.

– È vero.

Lasciarono il cubicolo e andarono al bagno, dove Atte immerse Licia; poi si rifocillarono colla colazione e uscirono nei giardini del palazzo, nei quali non si aveva paura di cattivi incontri, dal momento che Cesare e i suoi cortigiani dormivano ancora. Licia vedeva per la prima volta tanta magnificenza di giardini affollati di pini, di cipressi, di querce, di olivi e di mirti, tra cui sorgeva, biancheggiando qua e , una popolazione di statue. Luccicava lo specchio cristallino degli stagni, erano fioriti i cespugli delle rose inzuppate dal polverìo scintillante delle fontane; le entrate delle grotte incantevoli erano inghirlandate di edera e di caprifogli; cigni d'argento svolazzavano sull'acqua; tra le statue e gli alberi vagolavano gazzelle dei deserti africani addomesticate e uccelli multicolori importati da tutte le regioni della terra.

I giardini erano vuoti, ma qua e c'erano schiavi che lavoravano col badile, cantando sottovoce; altri, ai quali era concesso il riposo, sedevano sugli orli degli stagni o all'ombra delle querce, nella tremula luce dei raggi del sole che passava per il fogliame; altri innaffiavano i cespi di rose e i fiori carnicini dello zafferano.

Atte e Licia passeggiavano guardando a tutte le meraviglie dei giardini; e quantunque la mente di Licia non fosse tranquilla, pure ella era ancora troppo bambina per non entusiasmarsi e resistere al piacere. Pensava anche che Cesare se fosse stato migliore avrebbe potuto essere felicissimo in quel palazzo con tanti giardini incantevoli.

Stanche, le due donne sedettero su una panchina quasi sepolta dai cipressi, e incominciarono a discorrere di ciò che le teneva in pensiero, vale a dire della fuga imminente di Licia.

Atte era più agitata della fanciulla. In certi momenti le sembrava un progetto pazzesco. Si sentiva commossa da una pietà profonda per lei. Si diceva che era mille volte meglio tentare di riconciliarsi con Vinicio, poi le domandava da quanto tempo lo conosceva, e se non credeva che si sarebbe lasciato persuadere di restituirla a Pomponia.

Licia scrollò tristamente il capo.

No, Vinicio nella casa di Aulo si era mostrato differente. Egli era gentile, ma dopo il banchetto di ieri ella aveva paura di lui e preferiva fuggire fra i Lici.

– Nella casa di Aulo, incalzò Atte, egli ti piaceva, non è vero?

– Mi piaceva, rispose Licia abbassando il capo.

– E tu non eri una schiava come ero io, disse Atte dopo un momento di sospensione. Vinicio potrebbe anche sposarti. Tu sei un ostaggio e figlia di un re licio. Aulo e Pomponia ti amano come una propria figlia; sono sicura che ti adotterebbero. Vinicio potrebbe sposarti, Licia.

Ma Licia rispose senza alterare la voce e con una più grande tristezza:

Preferisco fuggire fra i Lici.

Licia, vuoi tu che io vada direttamente da Vinicio, lo svegli, se dorme, e gli dica ciò che ti ho detto? Sì, mia diletta, andrò da lui e gli dirò: Vinicio, questa è la figlia di un re, e una fanciulla cara all'illustre Aulo; se tu l'ami, restituiscila ad Aulo ed a Pomponia e poi conducila via come moglie.

Ma la fanciulla rispose con voce così sommessa che Atte capì a stento:

Preferisco fuggire fra i Lici.

E due lacrime dondolarono sull'orlo del ciglio.

La conversazione venne interrotta dal rumore di passi che andavano verso loro; e prima che Atte avesse tempo di vedere chi veniva, apparve Poppea Sabina dinanzi al poggiuolo con un piccolo seguito di schiave. Due di esse reggevano mazzi di penne di struzzo fisse su fili dorati; con esse le agitavano l'aria e la proteggevano dal sole autunnale ancora ardente. Dinanzi a lei un'egiziana, nera come l'ebano, col seno colmo, portava nelle braccia un fanciullo avvolto nella porpora frangiata d'oro. Atte e Licia si alzarono, pensando che Poppea sarebbe passata senza volgere la sua attenzione a loro; invece ella si fermò e disse:

Atte, i sonagli che tu hai mandato per la bambola sono stati attaccati male; la bimba ne strappò uno e se lo mise in bocca; fortunatamente Lilith la vide in tempo.

– Ti domando scusa, Augusta, rispose Atte incrociando le braccia sul petto e curvando la testa.

Poppea si soffermò a guardare Licia.

– Chi è questa schiava? domandò Poppea con una pausa.

– Ella non è una schiava, divina Augusta, me una bimba allevata da Pomponia Grecina, e la figlia di un re licio data da lui come ostaggio a Roma.

– È ella venuta a trovarti?

– No, Augusta. Essa è al palazzo da ieri.

– Fu ella al banchetto di ieri sera?

– Sì, Augusta.

– Per ordine di chi?

– Per ordine di Cesare.

Poppea fissava Licia con maggior attenzione, la quale stava a testa china, ora alzando i vividi occhî pieni di curiosità e ora velandoli colle palpebre. Immantinenti una ruga solcò la fronte di Augusta. Gelosa della sua bellezza e della propria potenza, viveva nella continua inquietudine che un giorno qualche fortunata rivale potesse detronizzarla come era stata detronizzata Ottavia. Perciò ogni bel viso che incontrava nel palazzo, suscitava i suoi sospetti. Coll'occhio di un critico ne abbracciò tutta la persona, considerò ogni parte della sua faccia e ne fu spaventata. «È semplicemente una ninfa, pensò ella, ed è Venere che l'ha messa al mondo.» E improvvisamente le passò per la mente un pensiero che prima non le si era mai affacciato: che essa, Poppea, era notevolmente invecchiata.

Ferita nella propria vanità, si sentì intimamente turbata e le si riempì la testa di paura. «Forse Nerone non l'ha veduta, o avendola veduta attraverso lo smeraldo, non l'ha apprezzata. Che cosa avverrebbe se si imbattesse in tale maraviglia di giorno, alla luce del sole? Inoltre, essa non è una schiava, è la figlia di un re, un re barbaro, è vero, ma un re. Dèi immortali! È bella come lo sono io, ma è più giovane di me.»

Infittirono le rughettine tra le sue sopracciglia, e di sotto alle ciglia dorate gli occhî scintillarono di una fredda vivezza.

– Hai tu parlato con Cesare?

– No, Augusta.

Perchè hai tu scelto di essere qui piuttosto che nella casa di Aulo?

– Non ho scelto, signora. Petronio persuase Cesare di togliermi da Pomponia. Sono qui contro il mio desiderio.

Ritorneresti da Pomponia?

Poppea fece quest'ultima interrogazione con voce più soffice e dolce; e nel cuore di Licia rinacque la speranza.

Signora, diss'ella stendendole la mano, Cesare ha promesso di darmi come schiava a Vinicio; ma tu, intercedi per me e ridonami a Pomponia.

Petronio, dunque, persuase Cesare di toglierti da Aulo e darti a Vinicio?

– Così è, signora. Vinicio deve mandare a prendermi oggi; tu che sei buona, abbi compassione di me.

Detto questo, si curvò, prese la veste di Poppea e aspettò col cuore ansante la risposta. Poppea la guardò per un attimo, colla faccia illuminata da un perfido sorriso, e disse:

– Ti prometto che oggi diverrai la schiava di Vinicio.

E se ne andò, splendida come una visione, col viso ammantato di perfidia.

Alle orecchie di Licia e di Atte giungeva solo il pianto della bambina che aveva cominciato a strillare per non si sapeva che cosa.

Ritorniamo. Non resta che aspettare il soccorso da dove può venire.

E tornarono nell'atrio, ove rimasero fino a sera. Quando si fece buio e le schiave vi portarono i candelabri con grandi fiamme, le due donne erano assai pallide.

Smettevano sovente di parlare. Entrambe ascoltavano se veniva qualcuno. Licia ripeteva sempre che, per quanto addolorata di lasciare Atte, pure preferiva che avvenisse tutto in quel giorno, perchè Ursus doveva essere nell'ombra ad aspettarla. L'emozione la faceva respirare più frequente. Atte raccoglieva febbrilmente tutti i gioielli che poteva e li legava in un angolo del peplo di Licia, supplicandola di non rifiutare un regalo che racchiudeva anche i mezzi della fuga. Di momento in momento subentrava un silenzio pieno d'inganni per l'udito. Ora sembrava loro di sentire un bisbiglio dietro la cortina, ora il pianto di un bimbo e ora una muta di cani che abbaiava.

Immediatamente la cortina d'entrata si mosse senza rumore ed apparve nell'atrio, come uno spirito, un uomo alto, bruno, colle guance punteggiate di vaiuolo. Licia riconobbe subito Atacino, un liberto di Vinicio che era stato alla casa di Aulo.

Atte mandò un grido; ma Atacino s'inchinò profondamente e disse:

– Alla divina Licia manda un saluto Marco Vinicio, il quale l'aspetta a banchetto nella sua casa ornata di verde. Le labbra della fanciulla impallidirono.

Vado, diss'ella.

Indi gettò le sue braccia al collo di Atte come un addio.

 

 


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