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CAPITOLO XI.
Vinicio non si coricò in quella notte. Poco dopo l'uscita di Petronio, quando le strida degli schiavi battuti non sapevano domare nè la sua rabbia, nè il suo dolore, egli radunò altri servi e, quantunque la notte fosse già avanzata, si mise alla loro testa in cerca di Licia.
Andò per il quartiere dell'Esquilino, per la via della Suburra, per il Vicus Sceleratus e per le vie adiacenti; poi passò per il Campidoglio, per il ponte Fabricio all'isola e per il Trastevere. Ma era un inseguimento senza scopo. Lui stesso non aveva speranza di trovare Licia; andava a casaccio come per consumare il tempo di una notte spaventosa. Tornò a casa verso l'alba, quando i carri e i muli dei venditori di legumi incominciavano ad apparire per le vie della città e i fornai aprivano le botteghe.
Ritornando ordinò che si portasse via il cadavere di Gulo, cui nessuno si era arrischiato di toccare. Mandò gli schiavi che si erano lasciati portar via Licia alle prigioni rurali – una punizione quasi più terribile della morte – e si gettò sur un divano nell'atrio, dove incominciò a pensare confusamente come rintracciare e impadronirsi di Licia.
Rinunziare a lei, perderla, non vederla più gli pareva impossibile; e il solo pensiero lo rendeva frenetico. L'imperiosa natura del giovine soldato si trovava, per la prima volta nella vita, urtata da un'altra volontà inflessibile e non sapeva darsi pace che ci fosse qualcuno che osasse contrariare i suoi desiderî. Piuttosto che rinunciare al suo intento avrebbe preferito vedere precipitare la città e il mondo. La coppa delle delizie gli era stata strappata mentre se l'avvicinava alle labbra, e questa cosa inaudita gridava vendetta in cielo.
Ma, prima di tutto, egli non voleva nè poteva concigliarsi col fato. Mai in vita sua aveva così ardentemente desiderato qualche cosa come Licia. Gli pareva di non poter vivere senza di lei. Non sapeva concepire che cosa avrebbe fatto all'indomani e come avrebbe sopravissuto nei giorni seguenti senza la fanciulla. Di momento in momento il furore lo trasportava fin quasi alla pazzia. Ora voleva averla nelle mani per batterla, per acciuffarla pei capelli, trascinarla al cubiculo e schernirla; ed ora era trasportato da uno slancio di tenerezza per la sua voce, per le sue forme, per i suoi occhî, dicendo che era pronto a gettarsi ai suoi piedi. La chiamava, si rodeva le dita, si stringeva la testa nelle mani. Faceva tutti gli sforzi per pensare con calma come trovarla, ma non poteva. Gli passavan per la testa mille progetti, mille propositi, uno più insensato dell'altro. Alla fine gli balenò l'idea che nessun altro che Aulo aveva potuto strappargliela e che in ogni caso egli doveva sapere dove era andata a nascondersi.
E balzò in piedi per correre alla casa di Aulo.
Se non avessero voluto dargliela, se non avessero avuto paura delle sue minacce, egli sarebbe andato dal Cesare ad accusare il condottiero di disobbedienza ed avrebbe ottenuto contro di lui una sentenza di morte, non prima però di avergli strappata la confessione del rifugio della fanciulla. Se poi gliela avessero data anche volenterosi, si sarebbe vendicato lo stesso. Lo avevano ricevuto, è vero, in casa loro, e gli avevano prodigato tutte le cure, ma questo non importava nulla. Con quell'atto scellerato lo avevano liberato da ogni debito di gratitudine. Qui la sua natura testarda e vendicativa incominciò a godere della disperazione di Pomponia Grecina, pensando al centurione che sarebbe apparso colla sentenza di morte per il vecchio Aulo. Non dubitava di ottenerla da Cesare. Petronio lo avrebbe aiutato. Cesare poi non negava mai nulla agli intimi, agli augustiani, a meno che ci fosse di mezzo l'antipatia personale o la gioia del rifiuto.
Una supposizione gli fece quasi smarrire i sensi.
– E se Cesare stesso aveva preso Licia?
Tutti sapevano che Nerone, per scacciare il tedio, si abbandonava ai divertimenti notturni delle aggressioni. Anche Petronio prendeva parte a questi passatempi. Il loro godimento era di agguantare le donne e lanciarle in aria col mantello dei soldati tenuto ai lembi, fino al deliquio. Nerone stesso si compiaceva di chiamare queste spedizioni la caccia alle perle, perchè avveniva che nei quartieri occupati dalla numerosa popolazione indigente cogliessero non di rado qualche vera perla di gioventù e di bellezza. Allora il sagatio, come era detto il lanciamento delle donne col mantello, si mutava in un vero ratto, e la perla veniva inviata o al Palatino o a una delle infinite ville imperiali. Cesare stesso la regalava a uno dei suoi intimi. Così poteva essere avvenuto di Licia. Cesare l'aveva adocchiata al banchetto, e Vinicio non aveva dubbio che gli doveva essere apparsa come la più bella donna che avesse vista mai. Come poteva essere altrimenti? È vero che Licia trovavasi al Palatino e Nerone avrebbe potuto tenersela apertamente. Ma, come disse bene Petronio, Cesare non aveva il coraggio dei suoi delitti e preferiva all'audacia del potere scegliere sempre le vie tortuose. Poteva anche darsi che si fosse valso delle vie tortuose per paura di Poppea.
Al giovine soldato pareva, dopo tante considerazioni, che Aulo non avrebbe osato di far rapire una fanciulla che Cesare aveva dato a Vinicio. E, d'altra parte, chi oserebbe? Il gigante licio dagli occhî azzurri, che ebbe l'impudenza di entrare nel triclinio e portarla via dal banchetto sulle sue braccia? E dove avrebbe potuto nascondersi con lei? dove avrebbe potuto rifugiarla? No! uno schiavo non si sarebbe arrischiato tanto. Nessuno, all'infuori di Cesare, aveva potuto compiere quel rapimento.
A questo pensiero gli si annebbiarono gli occhî e gli si coperse la fronte di sudore. Se la cosa fosse stata così, Licia, per lui, era perduta per sempre. Era possibile strapparla dalle mani di qualunque altro, non da quelle di Cesare. Ora aveva proprio ragione di sclamare più che mai: Væ misero mihi! La sua imaginazione gli figurava Licia nelle braccia di Nerone, e per la prima volta nella vita capiva che vi erano angoscie insopportabili alla natura umana. Solo ora sapeva come amava Licia. E come l'intera vita passa nella memoria di chi sta per annegare, così Licia passava nulla sua. La vedeva, ne udiva ogni parola, la rivedeva alla fontana, nella casa di Aulo, al banchetto. Ne sentiva il contatto, il profumo dei capelli, il tepore del suo corpo, e riprovava il gaudio dei baci suggellati sulle sue labbra innocenti. Gli pareva mille volte più dolce, più bella, più amabile che mai; mille volte di più fra tutte le donne e le dee immortali. E quando si figurava tutto questo, che la donna più cara al suo cuore, la donna che era divenuta sangue del suo sangue, poteva essere alla mercè di Nerone, veniva assalito da un dolore puramente fisico, così straziante da fargli pensare di battersi la testa contro le pareti dell'atrio fino allo sfracellamento del cranio. Sentiva che poteva impazzire; e sarebbe diventato pazzo senza dubbio se non gli fosse rimasto il sentimento della vendetta. E come pensava prima che non potesse vivere senza possedere Licia, così pensava ora che non voleva morire prima di vendicarla. Quest'idea gli diede un certo sollievo.
– Sarò il tuo Cassio! disse a sè stesso pensando a Nerone.
Poco dopo prese da uno dei vasi che circondavano l'impluvio un pezzo di terra e fece un giuramento solenne a Efebo, ad Ecate e agli dèi famigliari, che si sarebbe vendicato.
Si sentì meno angustiato. Aveva, se non altro, una ragione per vivere, per occupare i suoi giorni e le sue notti. Rinunciato all'idea di andare a casa di Aulo, diede ordine di portarlo al Palatino. Lungo la strada concludeva che se non gli avessero permesso di vedere Cesare e se lo avessero frugato per assicurarsi che non aveva in tasca delle armi, sarebbe stato più che mai evidente che Cesare aveva rapito Licia. Non aveva armi con lui. In generale la sua mente era scombussolata, ma come avviene colle persone fisse in un'idea, non aveva perduto l'idea dominante di vendicarsi. Ah, no! Innanzi tutto egli voleva vedere Atte, dalla quale si aspettava di sapere la verità intera. Sovente gli rinasceva la fugace speranza che avrebbe potuto pure vedere Licia, e questa gli dava i tremiti. Se poi Cesare l'avesse rapita senza sapere chi rapiva, gliela avrebbe restituita in giornata. Subito dopo respinse la supposizione. Se ci fosse stata la volontà di restituirgliela, gliela avrebbe rinviata ieri. Non c'era che Atte che potesse spiegare ogni cosa, e perciò era necessario vederla prima di ogni altro.
Convinto di questo, ordinò agli schiavi di affrettarsi; e lungo la strada pensava ora a Licia e ora alla vendetta.
Aveva udito dire che i sacerdoti egiziani della dea Pasht potevano infliggere malattie a chi volevano, e lui risolse di impararne lo spaventevole segreto. In Oriente egli aveva pure sentito narrare che gli ebrei avevano certe invocazioni colle quali potevano empire di ulceri i corpi dei nemici. Tra il suo servidorame c'erano molti ebrei; perciò non appena a casa li avrebbe torturati fino a quando ne avessero rivelato il segreto. Sopra tutto gli sorrideva il pensiero del breve pugnale romano che faceva uscire rivi di sangue come erano usciti da Caio Caligola, il quale aveva lasciato macchie incancellabili sulle colonne del portico. Egli era pronto a esterminare Roma. E se gli dèi vendicatori gli avessero promesso che tutto il popolo sarebbe morto, eccetto lui e Licia, egli avrebbe acconsentito con trasporto.
Di fronte all'arco ricuperò la ragione e disse a sè stesso, vedendo la guardia pretoriana:
– La minima opposizione che faranno nell'ammettermi, vorrà dire che Licia è nel palazzo per volontà di Cesare.
Il centurione gli si avvicinò sorridendogli affabilmente.
– Salute, nobile tribuno; se sei venuto a complimentare Cesare hai scelto un momento poco opportuno; non credo che possa riceverti.
– Che cosa è avvenuto? domandò Vinicio.
– L'infante Augusta si è ammalata ieri improvvisamente. Cesare e l'augusta Poppea le sono vicini coi medici stati invitati da ogni parte della città.
L'avvenimento era importante. Quando nacque Cesare era fuori di sè dalla gioia e l'accolse con extra humanum gaudium. Prima che la nascitura vedesse la luce, il Senato aveva solennemente confidato il frutto delle viscere di Poppea alla protezione degli dèi. Offerte votive erano state fatte a Anzio, dove il parto ebbe luogo; si celebrarono splendidi giochi e si eresse un tempio alla dea Fortuna. Nerone, incapace di essere moderato in qualche cosa, amava la bimba di un affetto incommensurabile; era cara anche a Poppea, specialmente perchè rafforzava la sua posizione e rendeva la sua influenza irresistibile.
La sorte dell'impero poteva essere nella vita o nella morte dell'infante Augusta; ma Vinicio era così occupato di sè e del suo amore, che senza fare attenzione a ciò che gli aveva detto il centurione, rispose:
– Voglio semplicemente vedere Atte.
E passò oltre.
Atte era anch'essa al capezzale della bambina e perciò dovette aspettarla non poco.
La vide verso mezzogiorno, con una faccia pallida e stanca che diveniva più pallida alla sua vista.
– Atte, gridò Vinicio afferrandola per la mano e trascinandola nel mezzo dell'atrio, dove è Licia?
– Volevo domandarlo a te, ribattè Atte guardandolo negli occhî con aria di rimprovero.
Quantunque si fosse promesso di rimanere tranquillo, si prese di nuovo la testa a due mani e colla faccia stravolta dalla sofferenza, disse:
– È andata! È stata rapita lungo la strada!
Poco dopo, risensando, levò la faccia sulla faccia di Atte, dicendo tra i denti:
– Atte! se ti è cara la vita, se tu non vuoi procurarti qualche sciagura, che tu non puoi neppure imaginare, rispondimi sinceramente. L'ha presa Cesare?
– Ieri Cesare non ha lasciato il palazzo.
– Giura, per l'ombra di tua madre, in nome di tutti gli dèi, giura che ella non è nel palazzo!
– Per l'ombra di mia madre, Marco, non è nel palazzo, e Cesare non l'ha rapita. L'infante Augusta è ammalata da ieri e Nerone non ha lasciato la sua culla.
Vinicio respirò. Il più terribile pericolo stava per dileguarsi.
– Ah, dunque, disse sedendo sopra uno sgabello e stringendosi i pugni, è Aulo che l'ha rapita! Guai a lui!
– Aulo Plauzio è stato qui questa mattina. Non ha potuto vedermi perchè io ero occupata colla bimba; egli ha domandato di Licia a Epafrodito e ad altri servi di Cesare; disse loro che sarebbe ritornato per parlare con me.
– Egli vuole stornare da lui il sospetto. Se egli non sapesse che cosa è avvenuto, sarebbe andato a cercar Licia a casa mia.
– Ha scritto poche parole per me sulla tavoletta, dalla quale tu vedrai che sapendo che Licia era stata condotta via da casa sua per volontà tua e di Petronio, si aspettava ch'essa sarebbe stata inviata a te; e questa mattina, di buon'ora, era alla tua residenza, dove gli fu detto ciò che era avvenuto.
Detto questo andò nel cubicolo a prendere la tavoletta.
Vinicio la lesse e rimase silenzioso. Atte, leggendogli i pensieri sulla faccia scombuiata, dopo una lunga pausa disse:
– No, Marco. È avvenuto ciò che Licia voleva.
– Tu sapevi che voleva fuggire! irruppe Vinicio.
– Sapevo che non voleva diventare la tua concubina. Ella lo guardò cogli occhî foschi, quasi severamente.
– E tu, che cosa sei stata tutta la tua vita?
– Prima di tutto io fui una schiava.
Vinicio non cessava dall'agitarsi. Cesare gli aveva dato Licia; non era dunque obbligato a sapere che cosa fosse stata prima. L'avrebbe ritrovata anche in fondo alla terra, e avrebbe fatto di lei quello che avrebbe voluto. Perdio, se l'avrebbe! Doveva essere la sua concubina. Avrebbe dato ordine di fustigarla tante volte gli sarebbe piaciuto.
Se gli fosse venuta a noia, l'avrebbe data all'ultimo dei suoi schiavi o le avrebbe imposto di girare una ruota di molino a mano, in Africa, nei suoi possedimenti. Egli l'avrebbe cercata solo per domarla, avvilirla e pestarla sotto i piedi.
E la concitazione cresceva e gli faceva perdere il senso della misura, al punto che Atte vedeva ch'egli prometteva più di quanto avrebbe potuto attuare; che parlava perchè soffriva ed era furioso. Avrebbe potuto perfino avere compassione di lui, ma le sue stravaganze le fecero perdere la pazienza e finì per domandargli perchè era andato da lei.
Vinicio non trovò subito la risposta. Era andato da lei perchè lo aveva voluto; perchè credeva ch'ella potesse dargli qualche notizia; ma in verità egli era andato al palazzo per Cesare e non avendolo potuto vedere, aveva domandato di lei. Licia, colla fuga, aveva disobbedito alla volontà di Cesare: perciò egli voleva implorare da lui un ordine per la sua ricerca in ogni parte della città e dell'impero, avesse dovuto per questo impiegare tutte le legioni e far perquisire ogni casa del dominio romano. Petronio avrebbe secondato la sua preghiera e le ricerche sarebbero incominciate nello stesso giorno.
– Bada, rispose Atte, di non perderla proprio nel momento in cui potesse venire rintracciata per ordine di Cesare.
– Che cosa vuoi dire? le domandò.
– Ascoltami, Marco. Ieri Licia e io eravamo nei giardini; incontrammo Poppea coll'infante Augusta, portata da Lilita, l'africana. Nella sera la bimba cadde ammalata e Lilita ora insiste nel dire che ella deve essere stata stregata. Se la bimba guarisse, non se ne parlerà altro; ma se morisse, Poppea sarà la prima ad accusare Licia di stregheria; e dovunque sarà trovata non ci sarà salvezza per lei.
Vi fu del silenzio, poi Vinicio disse:
– Forse è vero ch'ella l'ha stregata, e forse ha stregato anche me.
– Lilita ripete che la bimba incominciò a piangere nel momento che passava da noi. È certo ch'essa era ammalata quando la portarono nei giardini. Marco, cerca di Licia dove ti piace, ma fino a quando la bimba imperiale non è guarita, non parlare di lei a Cesare, se non vuoi attirarle sul capo la vendetta di Poppea.
– Le vuoi tu bene, Atte? domandò con fierezza Vinicio.
– Sì, le voglio bene.
E le lacrime brillarono negli occhî della liberta.
– Tu l'ami perchè non ti ha ripagata coll'odio, come me.
Atte lo guardò per del tempo come se esitasse o volesse sapere s'egli parlava sinceramente, poi rispose:
– Uomo cieco e violento, ella ti amava!
Vinicio balzò in piedi sotto l'influenza della parola.
– Non è vero!
Ella lo odiava. Come poteva saperlo, Atte? Avrebbe, Licia, fatta tale confessione dopo la conoscenza di un solo giorno? Che amore è mai quello che preferisce vagabondare non si sa dove, che preferisce la miseria disonorevole, l'incertezza del domani o anche la morte obbrobriosa, alla casa ornata di fiori, nella quale un amante l'aspetta al banchetto? È meglio ch'egli non senta certe cose per non impazzire. Egli non avrebbe rinunciato a quella fanciulla per tutti i tesori di Cesare, ed ella fuggiva! Che amore è mai questo che ha paura della gioja e dà infiniti dolori? Chi poteva capirlo? Chi poteva sondarlo? Se non fosse stato perchè sperava di trovarla, si sarebbe trafitto con una spada. L'amore cede, non fugge. Alla casa di Aulo vi furono momenti in cui si credeva vicino alla felicità: ma ora egli sapeva ch'ella lo odiava, ch'ella lo odia e che l'odierà fino alla morte.
Atte, di solito dolce e mite, ebbe un impeto d'indignazione. E che cosa aveva egli fatto per guadagnarsi l'amore di Licia? Invece di inchinarsi dinanzi ad Aulo e Pomponia per ottenerla, la fece rapire con uno strattagemma. Voleva fare della figlia allevata in una casa rispettabile e della figlia di un re, non una moglie, ma una concubina; egli l'aveva fatta condurre in questa casa del delitto e dell'infamia; corruppe i suoi occhî con un banchetto immondo; trattò con lei da libertino. Aveva egli dimenticata la casa di Aulo e di Pomponia Grecina, dove era stata allevata? Non aveva egli abbastanza buon senso da capire che vi son donne diverse da Nigidia, Calvia Crispinilla, Poppea e da tutte le altre che si potevano incontrare in casa di Cesare? Non aveva egli veduto subito che Licia era un'onesta fanciulla che preferiva la morte al disonore?
Poi, sapeva egli quali dèi ella adorava e se questi dèi non erano più puri e migliori della Venere sfrontata o di Iside, adorate dalle dissolute donne di Roma? No! Licia non le aveva fatto alcuna confessione, ma le aveva detto che sperava in lui, in Vinicio, per la sua salvezza; ella sperava ch'egli avrebbe ottenuto da Cesare il permesso di ridonarla a Pomponia. E mentre diceva questo, arrossiva come una vergine che ama e confida.
Il cuore di Licia batteva per lui: ma lui, Vinicio, l'aveva terrorizzata e offesa; l'aveva indignata; ora la cercasse pure coll'aiuto dei soldati di Cesare, ma sapesse almeno che morendo la bambina di Cesare, i sospetti cadrebbero su Licia e la morte di lei sarebbe inevitabile.
L'emozione incominciava a fare la sua strada attraverso l'ira e il dolore di Vinicio.
La convinzione di Atte, ch'egli era amato da Licia, lo scosse fin nel fondo dell'anima. Se la ricordava nel giardino di Aulo, quand'ella ascoltava le sue parole colla faccia accesa dal rossore, e gli occhî pieni di luce. Gli pareva che avesse incominciato allora ad amarlo; e subito, al pensiero, si sentì invaso da un sentimento soave che lo imparadisava. Pensava che avrebbe potuto a poco a poco farsi amare da lei, amandola. Ella avrebbe intrecciato fiori alla porta di lui e l'avrebbe unta col grasso di lupo e si sarebbe seduta come sua moglie sulla pelle di montone del suo focolare, e avrebbe sentito dalla sua bocca le parole sacramentali: Ubi tu Caius, ego Caia – dove tu sei, Caio, ivi sono io, Caia. E sarebbe stata sua per sempre. Perchè non ha egli fatto in questo modo? Vero, egli voleva fare così. Ora se n'è andata, e non l'avrebbe forse trovata più mai, e trovandola le potrebbe procurare la morte, e non procurandole la morte, nè lei, nè Aulo, nè Pomponia avrebbero mai voluto sentire parlare di lui. Venne ripreso dall'ira; ma questa volta non era più contro la casa di Aulo o Licia, ma contro Petronio. Petronio era la colpa di tutto. Se non fosse stato per lui, Licia non sarebbe stata obbligata a essere errabonda. Sarebbe la sua fidanzata e nessuna sciagura penderebbe sul suo caro capo. Ma ora tutto era passato ed era troppo tardi per riparare al male che non si poteva più disfare.
– Troppo tardi!
E gli pareva che un golfo si fosse aperto ai suoi piedi. Non sapeva come incominciare, da qual parte avviarsi, a chi rivolgersi. Atte, come un'eco, ripeteva: troppo tardi! cosa che sentita da un'altra bocca gli sonava come una sentenza di morte. Capiva però una cosa: che doveva trovare Licia o gli sarebbe accaduto qualche cosa di grave.
E ravvolgendosi macchinalmente nella toga, stava per andarsene senza neppure dire addio ad Atte, quando le cortine all'entrata dell'atrio si separarono per lasciar passare la pensosa figura di Pomponia Grecina.
Indubbiamente ella aveva udito della scomparsa di Licia e credeva che le sarebbe stato più facile che ad Aulo di vedere Atte.
Dinanzi a Vinicio divenne pallida e disse, dopo una pausa:
– Dio ti perdoni, Marco, il male che tu hai fatto a noi e a Licia.
Egli rimase colla testa piegata, come un colpevole, senza capire quale Dio doveva o poteva perdonargli. Pomponia non doveva parlare di perdono, ma di vendetta.
Egli uscì sconvolto, sotto il peso di tristi pensieri, con l'anima lacerata.
Di fuori e per gli androni la gente si affollava. Fra gli schiavi del palazzo c’erano uomini di guerra e senatori, venuti a domandare della salute dell'infante e al tempo stesso a farsi vedere e a dare prova della loro ansietà anche alla presenza degli schiavi di Nerone. La notizia della malattia della «divina» si era diffusa prestamente, come si vedeva dai nuovi personaggi che giungevano e dalla calca di popolo all'apertura dell'arcata. Gli ultimi arrivati vedendo Vinicio che usciva dal palazzo lo assalirono chiedendogli notizie; ma egli continuò la sua via senza rispondere, fino a che Petronio, venuto anche lui a domandare dell’ammalata, gli andò quasi addosso.
Alla vista di Petronio sarebbe divenuto senza dubbio furioso e avrebbe commesso qualche sproposito nella casa di Cesare, se dopo avere lasciata Atte, l'umiliazione e l'esaurimento non gli avessero soffocata l'irascibilità innata.
Spinse da una parte Petronio e tentò di proseguire, ma l'altro lo trattenne quasi per forza.
– Come sta l'infante Augusta? gli domandò.
La violenza di Petronio risuscitò in un momento la collera e l'indignazione di Vinicio.
– L'inghiottisca l'inferno con tutta questa casa! diss'egli digrignando i denti.
– Silenzio, sciagurato! disse Petronio guardandosi attorno in fretta. Se desideri sapere qualcosa di Licia, vieni con me; qui non ti dico nulla. Vieni; ti dirò ciò che penso in lettiga.
E mettendo il suo braccio intorno al giovine tribuno, lo condusse fuori del palazzo.
Questo era ciò che premeva a Petronio, perchè egli non aveva notizie della fanciulla.
Malgrado l'indignazione di ieri, egli aveva una grande simpatia per Vinicio. Pieno di risorse e sentendosi responsabile di ciò che era avvenuto, aveva già preso alcune precauzioni.
– Ho dato ordine ai miei schiavi di vigilare alle porte della città. Ho fatto loro una minuta descrizione della fanciulla e del gigante che la portò via dal banchetto di Cesare, perchè è lui, senza dubbio alcuno, che l'ha rapita. Ascoltami: probabilmente Aulo e Pomponia vorranno nasconderla in qualche loro campagna; e in questo caso sapremo per che via ve la condurranno. Se i miei schiavi non la vedranno, noi sapremo ch'ella è ancora in Roma e allora inizieremo in questo stesso giorno le nostre ricerche.
– Aulo non sa dove ella sia, rispose Vinicio.
– Ne sei sicuro?
– Vidi Pomponia. Essa pure è alla sua ricerca,
– Iersera non può essere uscita di città perchè le porte di notte sono chiuse. A ogni porta sono due dei miei schiavi. Uno deve seguire Licia e il gigante, l'altro deve venire all'istante ad avvertirmi. Se è in città, la troveremo. Licia è presto riconosciuta anche per la sua statura e per le sue spalle. Tu sei fortunato che non è stato Cesare a portartela via, e io te lo posso assicurare perchè tra me e il Palatino non vi sono segreti.
Vinicio, trasportato più dal dolore che dalla collera, in una voce rotta dall'emozione, disse a Petronio che aveva udito da Atte i nuovi pericoli che minacciavano Licia, pericoli così spaventosi ch'era necessario, rinvenendola, di nasconderla a Poppea. Lo rimproverò poi acerbamente dei consigli che gli aveva dato. Se non fosse stato per lui, le cose sarebbero andate altrimenti. Licia sarebbe stata alla casa di Aulo e lui avrebbe potuto vederla ogni giorno e sarebbe in quel momento più felice di Cesare. La narrazione lo commoveva sempre più; alla fine l'afflizione e la collera lo fecero piangere.
Petronio, il quale non aveva neppur pensato che il giovane potesse amare con tanta passione, vedendolo piangere dalla disperazione, stupefatto, disse a sè stesso:
– Oh, onnipotente Venere, tu sola imperi sugli dèi e sugli uomini!