Henryk Sienkiewicz
Quo vadis

CAPITOLO XXVI.

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CAPITOLO XXVI.

 

La mattina dopo si svegliò dolente, ma colla testa libera e senza febbre. Gli pareva che fosse stato svegliato dal bisbiglio della conversazione; aperti gli occhî si accorse che Licia era scomparsa. Ursus, inchinato sul fuoco, frugava nella cenere e ne tirava di sopra la bracia che si spegneva. Quando ne trovava qualche pezzo vi soffiava sopra come se la sua bocca fosse stata un mantice di fabbro. Vinicio, rammentandosi che quell'uomo aveva abbattuto Crotone il giorno prima, si mise a contemplare attentamente il suo dorso gigantesco che rassomigliava a quello di un ciclope, e le sue braccia e le sue gambe forti come colonne.

Grazie a Mercurio che costui non mi ha rotto il collo, pensò Vinicio. Per Polluce! Se gli altri lici sono come questo, le legioni danubiane avranno un bel da fare qualche volta.

Disse ad alta voce

Ehi, schiavo!

Ursus trasse la testa disotto la cappa e con un sorriso quasi amichevole disse:

Dio ti conceda una buona giornata e la salute; ma io sono un uomo libero, non uno schiavo.

Le parole produssero buona impressione su Vinicio che desiderava interrogare Ursus sul luogo di nascita di Licia: perchè al suo orgoglio di patrizio romano si confaceva assai più di parlare con un plebeo libero che con uno schiavo, in cui la legge, il costume riconoscevano il carattere di uomo.

– Allora tu non appartieni ad Aulo? gli domandò.

– No, signore, io servo Callina, come servivo sua madre di mia spontanea volontà.

Ricacciò la sua testa sotto la cappa e si rimise a soffiare nella bracia sulla quale aveva posto della legna. Finito, se la tirò fuor di nuovo e disse:

– Da noi non ci sono schiavi.

Dove è Licia? domandò Vinicio.

– È uscita e io sono incaricato di prepararti il cibo. Ella ha vegliato al tuo capezzale tutta notte.

Perchè non l'hai tu sostituita?

Perchè non volle; e io devo ubbidire.

Qui i suoi occhî si offuscarono; un momento dopo aggiunse:

– Se non fosse stato per l'obbedienza, tu non saresti vivo.

– Sei tu dolente di non avermi ucciso?

– No, signore; Cristo ci proibisce di uccidere.

– E Atacino e Crotone?

– Non ho potuto fare altrimenti, mormorò Ursus.

E con profondo dolore guardava alle sue mani, rimaste pagane quantunque l'anima sua avesse accettata la croce. Poi mise una pentola al fuoco e rimase cogli occhî fissi sulla fiamma.

– Fu colpa tua, signore, disse’egli dopo una lunga pausa. Perchè hai tu alzata la mano su lei, sulla figlia di un re?

In un subito l'orgoglio gli rimescolò il sangue. Un uomo volgare e barbaro osava non solo parlargli famigliarmente, ma biasimarlo. Alle cose straordinarie e improbabili che gli capitavano da ieri, doveva aggiungere anche questa.

Debole e senza schiavi, trattenne lo sdegno, anche perchè desiderava sapere qualche particolare della vita di Licia.

Calmatosi, incominciò a domandargli della guerra dei Lici, contro Vanno e i Svevi. Ursus era lieto di conversare, ma non poteva aggiungere molto a quello che aveva detto Aulo Plauzio a Vinicio. Egli non aveva preso parte alla battaglia, perchè era andato cogli ostaggi al campo di Atelio Istero. Sapeva solo che i Lici avevano battuti gli Svevi e gli Iasigi; e che il loro capo era caduto sotto le frecce di un iasigio. Subito dopo che avevano saputo che i Semnoni avevano incendiato le foreste al confine, se ne ritornarono indietro più che in fretta a punire l'oltraggio; gli ostaggi rimasero con Atelio e furono trattati con onori reali. Poco dopo morì la madre di Licia; il comandante romano non sapeva che fare della bimba.

Ursus voleva ritornare al suo paese con lei, ma la strada non era sicura per le bestie feroci e per le tribù selvagge. Giunse la notizia che un'ambasciata licia si era presentata a Pomponio a offrirgli aiuto contro i Marcomanni. Istero mandò Ursus con Licia a Pomponio, dove seppe che non vi erano state ambasciate. Rimase al campo colla bimba. Pomponio li condusse poi a Roma, dove alla fine del trionfo donò la figlia del re a Pomponia Grecina.

Benchè Vinicio non ignorasse che qualche particolare del racconto di Ursus, pure ascoltò con piacere, perchè il suo immenso orgoglio di razza si sentiva solleticato dal fatto che un testimonio oculare confermasse la nascita reale di Licia. Come figlia di re ella poteva occupare alla Corte di Cesare il posto delle figlie delle primarie famiglie, tanto più che il popolo, di cui suo padre era stato regnante, non aveva mai preso le armi contro Roma; e quantunque barbaro, avrebbe potuto divenire terribile, perchè, secondo lo stesso Atelio Istero, era composto di un numero strabocchevole di guerrieri.

Ursus gli ribadì questo concetto completamente.

Viviamo nelle foreste, diss'egli in risposta a Vinicio, ma abbiamo tanta terra da non sapere dove finisca; la gente è infinita. Nelle foreste vi sono intere città di legno, nelle quali è grande abbondanza, perchè noi portiamo via quello che saccheggiano i Semnoni, i Marcomanni, i Vandali e i Quadi. Essi non osano venire da noi; ma quando il vento soffia dalle loro parti, incendiano le nostre foreste. Noi non li temiamo, temiamo del Cesare romano.

– Gli dèi diedero a Roma il dominio di tutto il mondo, disse severamente Vinicio.

– Gli dèi sono spiriti maligni, rispose Ursus con semplicità; e dove non ci sono romani non c'è supremazia.

Qui egli si mise a ravvivare il fuoco e a dire come a stesso:

– Quando Cesare si fece condurre Callina al palazzo e io credetti che qualche grave disgrazia le potesse capitare, volevo correre al mio paese per ritornare coi Lici a soccorrere la figlia del re. E i Lici si sarebbero mossi verso il Danubio, perchè sono virtuosi, benchè pagani. Ivi avrei portato loro «buone notizie». Se mai Callina ritornerà da Pomponia Grecina, io mi prosterò a lei per domandarle il permesso di lasciarmi andare da loro, perchè Cristo è nato lontano ed essi non hanno sentito parlare di Lui. Certo, Egli sapeva meglio di me dove Gli conveniva nascere; ma s'Egli fosse venuto al mondo da noi, nelle nostre foreste, noi non lo avremmo indubbiamente torturato a morte. Ci saremmo dato cura del fanciullo e lo avremmo custodito perchè a Lui non mancassero mai cacciagione, funghi, vesti di castoro, ambra. E il bottino che avremmo tolto agli Svevi e ai Marcomanni lo avremmo dato a Lui, perchè Egli vivesse negli agi.

Così parlando, egli pose sul fuoco la pentola col cibo per Vinicio, e tacque. I suoi pensieri erravano ancora per le solitudini selvagge licie.

Il liquido incominciò a bollire; poi versò la minestra in una scodella e lasciatala raffreddare ben bene, disse:

Glauco ti consiglia, signore, a muovere anche il tuo braccio sano meno che sia possibile; Callina mi ha ordinato di darti da mangiare.

Licia aveva ordinato! Non c'era da ridire. Vinicio non si sognò neppure di opporsi all'ordine di Licia, come se ella stessa fosse stata la figlia di Cesare, o una dea. Perciò egli non disse una parola; e Ursus, sedutosi vicino al suo letto, prese un po' di liquido in una tazza, e l'avvicinò alla sua bocca. Egli faceva tutto questo con tanta sollecitudine e con un sorriso così bonario, che Vinicio non poteva credere ai suoi occhî, e non poteva riconoscere in lui lo stesso terribile titano che aveva il giorno innanzi atterrato Crotone e si era precipitato su lui come una tempesta che lo avrebbe fatto in pezzi senza la pietà di Licia. Il giovane patrizio, per la prima volta in vita sua, incominciò a meditare su questo: Che cosa vi può essere nel petto di un uomo semplice, di un barbaro, di un servo?

Ma Ursus, malgrado tutte le sollecitudini, era un infermiere assai imbarazzato. La tazza gli si perdeva tra le dita erculee, in modo che l'ammalato non poteva appressarvi la bocca. Dopo vani sforzi il gigante era grandemente turbato, e disse:

– Ah, sarebbe più facile districare il bisonte dai lacci in cui è caduto!

L'ansietà del licio divertiva Vinicio e la sua comparazione non lo interessò meno. Egli, nei circhi, aveva veduto i terribili uri importati dalle selve nordiche, contro i quali i più audaci bestiarî andavano con paura, perchè non la cedevano, in grandezza e forza, che all'elefante.

– Hai tu mai provato ad afferrarli per le corna? Gli domandò Vinicio.

– Ho avuto paura fino al ventesimo anno, rispose Ursus; poi mi è avvenuto di provare.

Egli ricominciò a dare da mangiare a Vinicio in un modo più ridicolo di prima.

Bisognerà che chiami Miriam o Nazario, diss'egli.

Nel tempo stesso la pallida faccia di Licia apparve dalla tenda.

– Vengo subito ad aiutarvi, diss'ella.

E in un attimo uscì dal cubicolo, nel quale si era ritirata per coricarsi, come appariva dai capelli sciolti e dalla stretta tunica che indossava, chiamata dagli antichi capitium, la quale era chiusa completamente fino al collo.

Vinicio, il cui cuore batteva affrettatamente alla vista di Licia, incominciò a sgridarla di non avere ancora pensato al riposo; ma ella rispose giocondamente:

– Stavo appunto per andare a dormire, ma prima voglio prendere il posto di Ursus.

Prese la tazza, sedette sulla sponda del letto e porse il cibo a Vinicio, il quale si sentì subito soggiogato e felice. Quand'ella s'inchinava, egli ne sentiva il tepore del corpo e i suoi capelli sciolti gli strisciavano sul petto. L’impressione lo faceva impallidire; colla confusione e coll'impeto dei desiderî sentiva pure che gli era supremamente cara quella testolina, al cui paragone il mondo intero era nulla. Prima, la desiderava; ora, incominciava ad amarla con tutto il cuore. Prima, come nella vita e nei sentimenti, egli era stato, come tutta la gente del suo tempo, un egoista cieco e testardo che pensava solamente a ; in quel momento cominciava a pensare a lei.

Perciò, un minuto dopo, respinse il nutrimento; e quantunque la sua presenza gli desse un immenso piacere, disse:

Basta! Va a riposare, mia divina.

– Non parlarmi in quel modo, rispose Licia: non è bene che io senta tali parole.

Comunque gli sorrise, dicendo che non aveva più sonno, che non si sentiva più affaticata e che non sarebbe andata a coricarsi prima della venuta di Glauco. Le parole della fanciulla andavano per le orecchie di Vinicio come una musica; il suo cuore si gonfiava di gioia e il suo pensiero faceva di tutto per mostrare la sua gratitudine.

Dopo un momento di silenzio, disse:

Licia, io non ti conoscevo prima. Ora comprendo che volevo ottenerti per una falsa via; perciò ti dico: ritorna a Pomponia Grecina e sta sicura che in avvenire nessuna mano si leverà contro di te.

Immediatamente il viso di Licia divenne melanconico.

– Sarei felice, rispose la fanciulla, se potessi vederla anche in lontananza; ma non posso tornare da lei.

Perchè? domandò Vinicio meravigliato.

– Noi cristiani, per mezzo di Atte, sappiamo che cosa avviene al Palatino. Non hai tu udito che Cesare, subito dopo la mia fuga e prima della sua partenza per Napoli, ha fatto chiamare Aulo e Pomponia, e credendo che mi abbiano prestato mano, li ha minacciati della sua collera? Fortunatamente Aulo potè dirgli: «Tu sai che il mio labbro non ha mai pronunciato una bugia; ti giuro in questo momento che noi non l'abbiamo aiutata a fuggire, e non sappiamo come tu non sai che cosa sia avvenuto di lei.» Cesare gli credette e dopo se ne scordò. Consigliata dagli anziani, non scrissi mai alla madre dove sono, perch'ella possa giurare arditamente in ogni tempo che non sa nulla di me. Tu forse, Vinicio, non capirai quello che ti dico; ma a noi non è permesso di mentire, anche in una questione in cui la vita possa essere in pericolo. Tale è la religione sulla quale noi foggiamo i nostri cuori. Perciò io non ho veduto Pomponia dall'ora in cui ho lasciato la sua casa. È molto se di tanto in tanto le giunge l'eco che sono viva e non in periglio.

Presa dalla passione, i suoi occhî si inumidirono, ma si calmò quasi subito e disse:

So che Pomponia pure sospira per me; ma noi abbiamo consolazioni che non hanno gli altri.

– Sì, rispose Vinicio, Cristo è la vostra consolazione, ma io non lo capisco.

Guardaci! Per noi non ci sono separazioni, non ci sono dolori, non ci sono pene; o se vengono, si mutano in gioia. E la stessa morte, che per voi è la fine della vita, è per noi semplicemente il principio, lo scambio di una felicità terrena per una felicità più alta, una felicità meno calma per una felicità più calma ed eterna. Considera che cosa deve essere una religione che ci ingiunge di amare anche i nostri nemici, che ci proibisce di mentire, che purifica le nostre anime dall'odio, e ci promette una felicità inesauribile dopo la morte.

– Ho udito questo insegnamento all'Ostriano, ed ho veduto come avete fatto con me e con Chilone: ricordandomi dei vostri atti, mi pare un sogno, e mi pare che io non dovrei credere ai miei occhî e alle mie orecchie. Rispondimi a questa domanda:

« – Sei tu felice?

– Lo sono, rispose Licia. Chi ha fede in Cristo non può essere infelice.

Vinicio la guardò come se quello che aveva udito andasse al di di ogni concepimento umano.

– E non hai tu desiderio di ritornare da Pomponia?

– Lo desidero con tutto il mio cuore, e vi ritornerò se tale sarà la volontà di Dio.

– Perciò ti dico, ritorna, e ti giuro per i lari miei che non alzerò la mano contro di te.

Licia pensò un momento e poi rispose:

– No, non posso esporre quelli che mi sono più cari al pericolo. Cesare non ama i Plauzio. Se vi ritornassi – tu sai come gli schiavi diffondano le notizie per tutta Roma – il mio ritorno farebbe scalpore per la città. Nerone, per mezzo degli schiavi, lo saprebbe e punirebbe Aulo e Pomponia, o almeno mi farebbe condur via una seconda volta.

– È vero, rispose Vinicio corrugando la fronte, ciò potrebbe accadere. Egli lo farebbe non fosse che per dimostrare che la sua volontà deve essere ubbidita. È vero che egli ti ha dimenticata e forse non si rammenta più di te, perchè la perdita era mia e non sua. Forse se ti prendesse da Aulo e Pomponia potrebbe darsi che ei ti mandasse a me, ed io potrei restituirti a loro.

Vinicio, vorresti vedermi di nuovo al Palatino? Domandò Licia.

Digrignò i denti e rispose:

– No, tu hai ragione. Io parlo come un pazzo! No!

E subito si vide dinanzi a un precipizio senza fondo.

Egli era un patrizio, un tribuno militare e un uomo potente; ma al disopra di ogni potenza del mondo al quale egli apparteneva, c'era un pazzo, la cui volontà e la cui perfidia era impossibile prevedere. Solo i cristiani potevano cessare di temerlo o di averne paura; gente per cui questo mondo, colle sue divisioni e colle sue sofferenze, era nullo; gente per cui, la stessa morte era nulla. Tutti gli altri tremavano dinanzi a lui. Il terrore del tempo in cui vivevano si faceva palese a Vinicio in tutta la sua mostruosità. Egli non poteva rendere Licia ad Aulo e Pomponia per paura che il mostro se ne ricordasse e rivolgesse la sua collera contro di lei; per la stessa ragione, se la sposasse, potrebbe esporre lei, lui e gli Aulo alla sua ira implacabile. Un momento di umore bestiale bastava a rovinarli tutti. Vinicio, per la prima volta, comprese che il mondo doveva cambiare e trasformarsi o la vita sarebbe divenuta impossibile. Comprese anche quello che un istante prima gli era oscuro: che in tempi come quelli non potevano essere felici che i cristiani.

Ma sopratutto, addolorato dal rimorso, confessava ch'era lui che aveva trascinato la vita di Licia e la propria su una via nella quale era difficile trovare l'uscita.

E sotto l'influenza del rimorso incominciò a parlare.

Sai tu, Licia, che sei più felice di me? Tu, nella tua povertà in questa stanza, tra la tua gente, tu hai la tua religione e il tuo Cristo; io non ho che te; e quando tu mi sei mancata, io ero come un mendicante senza pane e senza tetto. Tu mi sei più cara di tutto il mondo. Ti cercavo perchè senza di te non potevo vivere. Rifuggivo dai banchetti e mi era impossibile il sonno. Se non fosse stato per la speranza di trovarti, mi sarei buttato sulla punta di una spada. Io temo la morte, perchè morto non potrei più vederti. Dico la verità dicendo che non potrò vivere senza di te. Ho vissuto fino adesso nella speranza di trovarti e ammirarti. Ti ricordi della nostra conversazione in casa di Aulo? Una volta tu hai disegnato sulla sabbia un pesce e io non ne sapevo il suo significato. Ti ricordi che giocammo alla palla? Ti amavo allora più della vita e tu avevi incominciato a sentire che io ti amavo. Venne Aulo a spaventarci colla Libitina e a interrompere il nostro colloquio. Pomponia, al momento di separarci, disse a Petronio che Dio è uno, onnipotente e misericordioso; ma a noi non venne neppure in mente che Cristo era il tuo Dio e il suo. Ch'Egli mi ti conceda e io lo amerò, benchè a me sembri il Dio degli schiavi, degli stranieri e dei poveri. Tu siedi vicino a me e non pensi che a Lui. Pensa anche a me o finirò per odiarlo. Per me tu sola sei una divinità. Siano benedetti tuo padre e tua madre, benedetta la terra che ti ha dato i natali! Vorrei abbracciare i tuoi piedi, pregarti, adorarti, portare voti e sagrifici a te, tre volte divina. Tu non sai, tu non puoi sapere quanto ti ami.

Così dicendo si passò la mano sulla fronte e chiuse gli occhî. La sua natura non aveva mai conosciuto freno nell'amore, nell'ira. Parlava esaltato, come un uomo che non badava più a quello che diceva. Ma quello che diceva usciva dal fondo della sua anima; era sincero. Si sentiva che l'angoscia, l'estasi, la passione e l'adorazione erompevano finalmente dal suo cuore come un torrente irrefrenabile di parole. Le parole di lui sonavano alle orecchie di Licia come bestemmie, nondimeno il suo cuore incomincia a palpitare come se avesse voluto rompere la tunica del suo seno. Non poteva non sentire pietà per lui e per le sue sofferenze e non essere commossa per il rispetto con cui le parlava. Si sentì adorata e deificata senza limite; sentì che quell'uomo inflessibile e pericoloso era ora suo, anima e corpo, come uno schiavo, e il sentimento della sommissione di lui e della potenza di lei le inondavano l'anima di felicità.

Tutto il passato le si ravvivava. Egli ridiveniva ancora l'elegante Vinicio, bello come un dio pagano; colui che nella casa di Aulo le aveva parlato d'amore e destato come dal sonno il suo cuore ingenuo; colui dai cui abbracci Ursus l'aveva strappata come dalle fiamme. Ma ora, a vederlo così estasiato e angosciato, colla faccia pallida e gli occhî supplichevoli, ferito, torturato da un amore invincibile, pieno di sommissione e di adorazione, le pareva tale come lo voleva, tale come l'avrebbe amato con tutta l’anima, perciò più caro ch'egli non fosse mai stato prima.

A un tratto comprese che poteva venire il tempo in cui l'amore di Vinicio avrebbe potuto afferrarla e portarla via come in un turbine; e quando comprese questo, provava la stessa impressione di poc'anzi: ch'ella stava sull'orlo di un precipizio. Era per questo che aveva lasciato la casa di Aulo? Per questo che si era salvata colla fuga? Per questo che si era nascosta per tanto tempo nei quartieri più poveri della città? Chi era Vinicio? Un augustiano, un soldato, un cortigiano di Nerone! Un uomo che partecipava ai suoi vizî, alle sue orgie, alle sue pazzie, come si era veduto a quel banchetto ch'ella non poteva dimenticare, che andava ai templi, come tanti altri, a offrire sagrifici agli dèi falsi e bugiardi, nei quali forse non credeva, ma che pubblicamente onorava. Un uomo che l'aveva perseguitata per farne la sua schiava e la sua amante e gettarla in quel mondo spaventevole del libertinaggio, del lusso, del delitto e del disonore che chiamava la collera e la vendetta di Dio. È vero, pareva cambiato; tuttavia le aveva appena detto che se ella avesse pensato più a Cristo che a lui, egli sarebbe stato pronto a odiare Cristo. Pensava che la stessa idea di ogni altro amore che non fosse l'amore di Cristo, era un peccato contro lui e contro la religione. Quando vide che altri sentimenti e altri desiderî potevano nascere nel fondo della sua anima, si sentì invasa dallo sbigottimento per il suo avvenire e per il suo cuore.

Mentre avveniva in lei questa lotta interna, comparve Glauco, venuto a rinnovare la fasciatura dell'ammalato e a informarsi della sua salute. In un lampo l'impazienza e l'ira si diffusero sul viso di Vinicio. Egli era così adirato che il colloquio con Licia fosse stato interrotto tanto bruscamente, che rispondeva quasi con disprezzo alle interrogazioni di Glauco. È vero ch'egli si moderò con sollecitudine ma se Licia aveva mai qualche illusione che ciò che egli aveva udito all'Ostriano avesse potuto agire sulla sua natura indomita, questa illusione svaniva. Non aveva cambiato che per lei; ad eccezione di questo sentimento, erano rimasti nel suo petto la durezza e l'egoismo del suo cuore, la rapacità del vero romano, incapace non solo del dolce sentimento della dottrina cristiana, ma sordo ad ogni senso di gratitudine.

Se ne andò intimamente addolorata e inquieta. Prima, nelle sue preghiere ella offriva a Cristo un cuore tranquillo e veramente puro come una lacrima; ora, quella pace era turbata. Nel calice del fiore si era insinuato un insetto velenoso che incominciava a strepitare. Anche il sonno, ad onta delle due notti passate senza dormire, non le portò sollievo. Ella sognò di vedere all'Ostriano Nerone alla testa di tutta una turba di augustiani, di baccanti, di coribanti e di gladiatori che andava sui cristiani colla sua biga inghirlandata di rose, mentre Vinicio l'agguantava per il braccio, la traeva nella quadriga, e se la premeva al seno dicendole: «Vieni con noi.»

 

 


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