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«Abbi pietà, carissime, non imitare nelle tue lettere i Lacedemoni o Giulio Cesare! Se tu potessi scrivere come Giulio: veni, vidi, vici (venni, vidi, conquistai), potrei capire la tua brevità. Ma la tua lettera significa assolutamente veni, vidi, fugi (venni, vidi, fuggii). Siccome la conclusione dell'affare è direttamente contraria alla tua natura, siccome tu sei ferito e siccome ti accaddero cose insolite, la tua lettera esige delle spiegazioni. Non potevo credere ai miei occhî quando lessi che il gigante licio aveva ucciso Crotone colla stessa facilità con cui un cane della Caledonia uccide un lupo nella gola dell'Ibernia. Questo uomo vale quant'oro pesa e dipende da lui solo di divenire il favorito di Cesare. Ritornato in città devo fare una più intima conoscenza col licio e gli farò fare una statua di bronzo per me. Barbadibronzo scoppierà dalla meraviglia quando gli dirò che fu presa dal vero. I corpi veramente atletici divengono più rari in Italia e in Grecia; dell'Oriente non occorre parlare; i Germani, benchè siano alti, hanno muscoli coperti di grasso e sono più notevoli per la grandezza che per la forza. Domanda al licio s'egli è un'eccezione o se nel suo paese ve ne sono molti come lui. Dovesse avvenire qualche volta a te o a me di organizzare giuochi pubblici, sarebbe bene sapere se si possono trovare persone come lui.
«Siano rese grazie agli dèi dell'Oriente e dell'Occidente che tu sei uscito vivo dalle loro mani. Te la sei cavata, naturalmente, perchè tu sei un patrizio e il figlio di un console; ma ogni cosa che ti è avvenuta mi stupisce altamente; quel cimitero dove ti sei trovato fra i cristiani, i cristiani stessi, la loro condotta con te e la seconda fuga di Licia, e finalmente quella peculiare tristezza e inquietudine che spira dalla tua breve lettera. Spiegati, perchè vi sono tanti punti che non posso capire; e se ti ho da dire la verità, ti dirò apertamente che non capisco nè i cristiani, nè te, nè Licia. Non meravigliarti se io, che mi occupo assai poco delle cose di questo mondo, eccetto che della mia persona, mi informo di te con tanta impazienza. Siccome ho partecipato a queste tue avventure, sento che fino a un certo punto mi riguardano. Scrivi presto perchè non posso prevedere quando ci rivedremo. I progetti nella testa di Barbadibronzo mutano come i venti in autunno. Pel momento, mentre indugiamo a Benevento, egli ha il desiderio di andare direttamente in Grecia senza ritornare a Roma. Tigellino lo ha però consigliato di rivedere la città, fosse pure per poco, perchè il popolo che pur sospira la venuta di Cesare (leggi di spettacoli e di pane), potrebbe preparare una rivolta. Così non posso dirti quale sarà la decisione. Dovesse vincerla l'Acaia, possiamo aver bisogno di vedere l'Egitto.
«Insisterei con tutte le mie forze per la tua venuta, perchè io penso che nella tua condizione d'animo i viaggi e i divertimenti ti servirebbero da medicina; ma potresti anche non trovarci. Considera poi se il riposo nei tuoi fondi siciliani non sarebbe preferibile alla tua dimora in Roma. Scrivimi minutamente di te, e addio. Non aggiungo augurî questa volta, eccetto quello per la salute, perchè, per Polluce! non so che cosa augurarti.»
Vinicio, ricevendo questa lettera, non aveva, a tutta prima, voglia di rispondere. Egli sentiva che non ne valeva la pena e che non avrebbe giovato a nessuno e spiegato nulla. Malcontento, si era lasciato penetrare dall'idea della vanità della vita. Di più pensava che Petronio non l'avrebbe capito e che qualcosa era avvenuto tra loro che li avrebbe divisi l'uno dall'altro. Ritornato dal Trastevere alla sua splendida «insula», egli si sentiva disfatto e provava nei primi giorni un certo compiacimento a riposare in mezzo agli agi e alla ricchezza. Ma non fu che di poca durata. Sentì ben presto tutta la vacuità della sua vita; che tutto ciò che lo interessava prima, o aveva cessato di esistere o si era ridotto quasi a nulla. Gli pareva che i legami che lo avevano tenuto, fino a ieri, unito col suo mondo, gli fossero stati recisi nell'anima, senza che altri fossero stati sostituiti. Al pensiero ch'egli avrebbe potuto andare a Benevento e di là all'Acaia, sommergendosi in una vita fastosa e spensierata, provava un senso di disgusto. «A quale scopo? E quale ne sarebbe il vantaggio?» Erano le prime interrogazioni che gli sorgevano nella testa. Per la prima volta pensava che se vi andasse, anche la conversazione geniale di Petronio, col suo spirito, colla sua prontezza, coi concetti squisiti del suo pensiero e coll'eleganza delle frasi, gli sarebbe venuta a noia. La stessa solitudine aveva finito per annoiarlo. Tutti i suoi conoscenti erano a Benevento con Cesare; così egli doveva starsene a casa solo, col cervello pieno di pensieri e col cuore pieno di sentimenti che non sapeva spiegarsi. C'erano momenti in cui credeva che se avesse potuto raccontare a qualcuno quello che provava, forse avrebbe potuto comprendere tutto in qualche modo e mettere un po' d'ordine nei suoi pensieri. Influenzato da questa speranza, dopo alcuni giorni di esitazione, risolse di rispondere a Petronio; quantunque non fosse poi certo di spedirgli la lettera.
«Tu vuoi che io scriva più minutamente, sia; non posso però dire se potrò farlo più chiaramente di prima, perchè vi sono tanti nodi ch'io non so districare. Ti ho descritto la mia dimora tra i cristiani, il loro trattamento verso i nemici, tra i quali avevano diritto di annoverare me e Chilone, la loro gentilezza con cui mi hanno curato e la scomparsa di Licia. No, mio caro, io non sono stato risparmiato perchè ero il figlio di un console. Tali motivi non esistono per loro, dal momento che hanno perdonato anche a Chilone, dopo che io li avevo incitati a sotterrarlo in giardino. Sono gente che il mondo non ha veduto finora; nè la loro dottrina fu mai udita nell'universo fino a questi giorni. Non posso dir altro, e sbaglia colui che li considera alla nostra stregua. Ti dico che se fossi stato in letto col braccio rotto in casa mia e fra i miei servi, anzi fra la mia famiglia, avrei avuto più comodi, s'intende, ma non avrei ricevuto metà delle premure che ho trovato tra loro.
«Sappi anche che Licia è come gli altri. Se fosse stata mia sorella, mia moglie, non avrebbe potuto curarmi con affetto maggiore. Più di una volta il mio cuore si riempiva di gioia, pensando che solo l'amore poteva ispirare una simile tenerezza. Più di una volta io lessi l'amore nel suo sguardo e sul suo volto. Mi crederai? Allora, in mezzo a quella gente comune che viveva in una stanza che serviva da cucina e da triclinio, io mi sentivo più felice che mai non fossi stato. No, io non le ero indifferente e anche oggi non ho ragione di credere il contrario. Pure questa stessa Licia lasciò segretamente la casa di Miriam per me. Seggo giorni interi con la testa in mano e penso: perchè se n'è andata in questo modo? Ti ho mai scritto che io mi sono offerto spontaneamente di ridarla ad Aulo? Essa mi dichiarò che la cosa era impossibile e perchè Aulo e Pomponia se n'erano andati in Sicilia e perchè la notizia della sua ricomparsa, col mezzo degli schiavi, sarebbe passata di casa in casa fino al Palatino, e Cesare avrebbe potuto toglierla di nuovo ad Aulo.
«Ella sapeva che io non l'avrei più inseguita, che avevo smesso di valermi della violenza e che incapace di cessare di amarla e di vivere senza di lei, l'avrei condotta in casa mia, attraverso le porte inghirlandate, e fatta sedere sulla pelle nuziale del mio lare. E nondimeno se n'è fuggita! Perchè? Nulla la minacciava. Se non mi amava poteva respingermi. Il giorno prima della sua fuga ho fatto la conoscenza di un uomo straordinario, di un certo Paolo di Tarso, il quale mi parlò di Cristo e della Sua dottrina con un calore e una forza che ogni sua parola, senza volerlo, incendiava e inceneriva le fondamenta della società nostra. Questo stesso uomo venne a vedermi dopo la di lei fuga e a dirmi:
« – Se Dio apre i tuoi occhî alla luce, e ti toglie il velo che li copre, come Egli lo tolse dai miei, tu vedrai che ella ha fatto bene; e allora, forse, tu la troverai.»
«E ora sono qui che mi rompo il cervello su queste parole come se le avessi udite dalla bocca di una pitonessa di Delfi. Mi pare di capire qualche cosa. Benchè essi amino gli uomini, i cristiani sono nemici della nostra vita, dei nostri dèi e dei nostri delitti; per questo ella fuggì da me, come da un uomo che appartiene al nostro mondo e col quale avrebbe dovuto dividere la vita considerata dai cristiani delittuosa.
«Tu dirai che dal momento che poteva rifiutarmi non aveva bisogno di fuggire. Ma se mi amava? Se mi amava volle fuggire dall'amore. A questo pensiero sorge in me prepotente la voglia di mandare schiavi in ogni vicolo a gridare nelle case: «Licia, ritorna!» Ecco dove non capisco più la sua fuga. Io non le avrei impedito di credere al suo Cristo, al quale avrei anzi fatto elevare un altare nell'atrio. Che male poteva fare a me un altro Dio? Non potevo forse credere in Lui, io che non credo molto negli dèi antichi? So di certo che i cristiani non mentono, ed essi dicono che Egli risorse dalla morte. Un uomo morto non può risorgere. Quel Paolo di Tarso, cittadino romano, conoscendo come ebreo gli antichi scritti ebraici, mi disse che la venuta di Cristo era preannunziata dai profeti da mille anni.
«Tutte queste cose sono soprannaturali, ma non ne siamo circondati da ogni lato? Il popolo non ha ancora cessato di parlare di Apollonio di Tiana. La narrazione di Paolo, che non vi è che un Dio solo invece che un'assemblea di dèi, mi pare sensata. Forse Seneca è di questa opinione e con lui molti altri. Cristo visse, si lasciò crocifiggere per la redenzione del genere umano e risorse. Tutto questo è perfettamente vero. Perciò non vedo la ragione di ostinarmi in una opinione contraria. E perchè non dovrei elevargli un altare se sono pronto, per esempio, ad elevarne uno a Serapide? Per me non sarebbe neppure difficile di rinunciare agli altri dèi, perchè nessun uomo ragionevole ora crede in loro. Ma sembra che tutto questo non basti ancora ai cristiani. Non basta onorare Cristo; si deve vivere secondo i suoi precetti; e qui tu ti trovi alla spiaggia di un mare che ti si ordina di guadare.
«Se promettessi di farlo, essi stessi sentirebbero che la mia promessa non sarebbe che un vano suono di parole. Paolo me lo disse apertamente. Tu sai come io ami Licia e che non v'è cosa al mondo che non sarei pronto a fare per lei. Ma anche se lo volessi, non potrei sollevare il Soracte o il Vesuvio sulle mie spalle o mettermi sul palmo della mano il lago Trasimeno o far diventare i miei occhî neri, azzurri come quelli dei lici. S'ella esigesse tutto questo, io potrei avere la voglia di compiacerla, ma non la forza di compierlo. Io non sono un filosofo, ma non sono così stupido come a te sarò sembrato forse più di una volta. Ecco quello che ti dico. Io non so come i cristiani regolino la loro vita; so che dove la loro religione incomincia, la dominazione romana finisce, come finisce la differenza tra conquistati e conquistatori, tra ricchi e poveri, tra signori e schiavi; finisce il potere supremo, Cesare, la legge e tutto l'ordine sociale del mondo; e al posto di tutto questo apparisce Cristo con una certa misericordia sconosciuta fino ad ora; con una certa bontà tutt'affatto contraria alla natura umana dei nostri istinti romani. È vero che Licia mi è più cara che Roma e tutta la sua signoria; lascierei che tutto il mondo sprofondasse, pur di averla nella mia casa. Ma questa è un'altra cosa. I cristiani non si contentano delle semplici parole; per loro un uomo deve sentire che la loro dottrina è la verità e avere null'altro nel cuore.
«Gli dèi mi sono testimoni che tutto ciò è superiore alle mie forze. Intendi tu che cosa voglia dire? C'è in me qualcosa che rabbrividisce dinanzi questa religione e se le mie labbra dovessero glorificarla, se io dovessi conformarmi ai suoi precetti, il mio spirito e la mia ragione direbbero che lo faccio per amore di Licia e che senza di lei non vi sarebbe per me nulla al mondo di più repulsivo della sua fede. E, strano a dirsi, Paolo di Tarso capisce tutto questo e lo capisce anche quel vecchio teurgo di Pietro, il quale, malgrado tutta la sua bonarietà e la sua bassa origine, è il più intelligente tra loro, e fu discepolo di Cristo. E sai tu che cosa fanno? Pregano per me, invocano dal cielo qualcosa che chiamano grazia; ma nulla discende su me, salvo l'inquietudine e un ardente desiderio per Licia.
«Ti ho scritto che se n'andò segretamente; ma prima d'andarsene mi lasciò una croce ch'ella stessa intrecciò con dei rami. Risvegliandomi, me la trovai vicino al letto. L'ho ora in casa e me le avvicino, non so perchè, come a una cosa divina, vale a dire con rispetto e riverenza. L'amo perchè è stata legata dalle sue mani, e l'odio perchè ci divide. In certi momenti mi pare che vi sia dell'incantesimo e che il teurgo Pietro, benchè si sia dichiarato un semplice pastore, sia più grande di Apollonio e di quanti lo precedettero e che egli ci abbia avviluppato tutti, Licia, Pomponia e me con gli altri.
«Tu hai scritto che nella mia lettera sonvi l'ansietà e la tristezza. La tristezza deve esserci perchè ho perduto Licia di nuovo, e l'ansietà è perchè in me è avvenuto qualche cambiamento. Ti confesso sinceramente che non vi è nulla di più ripugnante per me di quella religione, pure non mi riconosco più dal giorno che ho conosciuto Licia. È del fascino o dell'amore? Circe trasformava il corpo delle persone col toccarli, la mia anima è stata cambiata. Soltanto Licia può aver fatto questo, o, per meglio dire, Licia coll'aiuto della religione ch'ella professa. Tornando alla mia «insula», nessuno mi aspettava. Gli schiavi, credendomi a Benevento, s'imaginarono ch'io non sarei ritornato così presto; perciò trovai la casa in disordine. Ho trovato gli schiavi ubriachi al banchetto ch'essi si erano offerti nel mio triclinio; s'aspettavano più probabilmente la morte che di vedermi; e ne sarebbero stati assai meno terrorizzati. Tu sai come io sia severo in casa mia; tutti caddero in ginocchio e altri svennero dal terrore. T'imagini che cosa ho mai fatto? Al primo impeto volevo sottoporli alle verghe e ai bottoni di fuoco, ma venni subito preso da un senso di vergogna. Vuoi tu credere? Quei disgraziati mi mossero a compassione.
«Tra loro sono vecchî schiavi che il mio zio, Marco Vinicio, portò dalle rive del Reno, ai tempi di Augusto. Mi chiusi solo nella biblioteca e là mi gironzolavano per la testa pensieri ancora più strani; questo, per esempio: che dopo quanto avevo veduto e udito in mezzo ai cristiani, non dovevo più trattare gli schiavi come prima, perchè anch'essi erano uomini. Per alcuni giorni mi venivano intorno avviliti e terrorizzati, perchè credevano che io indugiassi onde trovare un modo più crudele per punirli. Ma io non li punii e non li punii perchè non potevo. Li radunai al terzo giorno e dissi loro:
« – Vi perdono; procurate colle vostre premure di farmi dimenticare la vostra colpa.
«S'inginocchiarono piangendo e tendendo le mani con dei gemiti e chiamandomi padrone e padre; io, lo scrivo arrossendo di vergogna, non ero meno commosso di loro. Mi pareva in quel momento che io stessi guardando il viso gentile di Licia e che ella, cogli occhî pieni di lacrime, mi ringraziasse per ciò che avevo fatto. E, proh pudor! sentii che le mie ciglia erano umide. Sai che cosa ti voglio confessare? Questo: che io non posso vivere senza di lei; che la solitudine mi consuma, che sono assolutamente infelice, e che la mia tristezza è più grande di quella che tu credi.
«In quanto ai miei servi, una cosa attrasse la mia attenzione. Che il perdono non solo non li rese insolenti e indisciplinati, ma nessuna paura di castigo li ha mai resi così zelanti e premurosi come la gratitudine. Non solo essi fanno il loro dovere, ma pare che rivaleggino l'un l'altro a indovinare i miei desiderî. Ti dico questo perchè il giorno prima di lasciare i cristiani, io dissi a Paolo che la società colla religione di Cristo, si sarebbe sfasciata come una botte senza cerchi; Paolo mi rispose che «l'amore è un cerchio più forte della paura». E ora vedo che in certi casi la sua opinione può essere giusta.
«L’ho esperimentata pure sui miei clienti, i quali, saputo del mio ritorno, si affrettarono a venirmi a salutare. Tu sai che io non sono mai stato taccagno con loro; mio padre invece fu sempre, per principio, altezzoso coi clienti e mi insegnò a trattarli colla stessa burbanza. Ma quando io li ho veduti coi loro mantelli stracciati e le loro facce dimagrate, sentii qualche cosa come della compassione. Ordinai che si portasse loro da mangiare, parlai con loro chiamandone alcuni per nome, e ad alcuni domandai delle loro mogli e dei loro figli, e di nuovo vidi negli occhî di questa gente delle lacrime; e anche questa volta mi pareva che Licia vedesse che cosa facevo e che mi lodasse e ne fosse lieta.
«Incomincio a smarrire la ragione o è l'amore che confonde i miei sentimenti? Non so. Questo so di certo: che ho un costante presentimento ch'ella mi stia guardando in distanza e che ho paura di fare cosa che possa turbarla o offenderla.
«Così è, Caio! Essi hanno cambiato l'anima mia e me ne sento bene; qualche volta sono tormentato dal pensiero che la virilità e la energia mi abbiano abbandonato e che io non solo non sia più buono nè a dare consigli, nè a dare giudizî, nè a banchettare, ma neanche a fare la guerra. Questi sono davvero degli incantesimi! Ho cambiato a tal punto, che ti dico anche quello che mi venne in mente quando ero in letto ferito, che se Licia fosse come Nigidia, Poppea, Crispinilla e le nostre divorziate; se fosse così spietata e così a buon mercato come loro, non l'amerei come l'amo ora. Ma dal momento che l'amo per quello stesso motivo che ci divide, ti puoi imaginare che caos stia per nascere nella mia anima e in che tenebre io viva. Com'è che io non posso vedere le vie che mi sono aperte e a che distanza mi trovo dal sapere che cosa fare? Se la vita può essere comparata a una sorgente, la mia è di ansietà invece che di acqua. Vivo colla speranza di rivederla e qualche volta mi pare di esserne sicuro. Ciò che mi accadrà in un anno o due non so, nè posso indovinare. Non lascierò Roma. Non potrei sopportare la compagnia degli augustiani, senza aggiungere che la consolazione della mia tristezza e della mia inquietudine è l'idea che sono vicino a Licia, e che col mezzo di Glauco, il medico, il quale ha promesso di venire a vedermi, o col mezzo di Paolo di Tarso, potrò, di tanto in tanto, venire a sapere qualche cosa. No, non lascerei Roma, anche se tu mi offrissi il governo d'Egitto. Sappi anche che ho ordinato allo scultore di erigere un monumento di marmo a Gulo, che io ho ammazzato in un momento di esasperazione. Troppo tardi mi è venuto in mente ch'egli mi aveva portato nelle sue braccia e che mi aveva insegnato a mettere la freccia all'arco. Non so perchè il ricordo di lui mi ha suscitato il rincrescimento e il rimorso. Se ciò che scrivo ti stupisce, ti ripeto che io non sono meno stupito di te: quello che è certo è che ti scrivo la pura verità. Addio.»