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Di questa lettera Vinicio non ebbe risposta. Petronio non scrisse perchè Cesare poteva ordinare il ritorno a Roma da un momento all'altro. E per davvero la notizia del ritorno s'era già sparsa per la città, con grande giubilo della plebe avida di giochi, di granaglie e di olive, state immagazzinate in grande quantità a Ostia. Elio, il liberto di Nerone, ne annunciò alla fine il ritorno nel Senato. Ma Nerone, che si era imbarcato colla sua corte a Miseno, se ne ritornava lentamente, sostando nella città lungo la costa, per riposare o per dare delle rappresentazioni teatrali. A Minturno rimase dieci o venti giorni, con un pensiero vago di ritornare a Napoli ad attendere la primavera, la quale s'era fatta sentire col suo tepore assai prima degli altri anni.
Durante tutto questo periodo, Vinicio viveva chiuso nella sua casa, pensando a Licia, e a tutte quelle cose nuove che occupavano la sua anima e gli davano idee e sentimenti fino allora sconosciuti. Di tanto intanto egli vedeva Glauco, le cui visite lo deliziavano perchè poteva parlare col medico di Licia. Glauco non sapeva dove essa si era rifugiata, ma lo assicurava che gli anziani la proteggevano con premuroso affetto. Una volta, commosso al dolore di Vinicio, gli disse che Pietro aveva biasimato Crispo di avere rimproverato la fanciulla per il suo amore. Il giovane patrizio divenne pallido dall'emozione.
Più di una volta aveva pensato di non essere indifferente a Licia, ma gli nascevano di frequente il dubbio e l'incertezza. Ora, per la prima volta, sentiva da un estraneo, e per giunta cristiano, la conferma dei suoi desiderî e delle sue speranze. Al primo impeto di gratitudine voleva correre da Pietro. Saputo ch'egli era nei dintorni della città a predicare, supplicò Glauco ad accompagnarvelo, promettendogli di fare una generosa largizione ai poveri della comunità cristiana. Gli pareva che se Licia lo amava, tutti gli ostacoli erano eliminati, perchè egli era pronto a genuflettersi a Cristo ogni momento. Glauco, quantunque lo incalzasse insistentemente a ricevere il battesimo, non lo assicurava che avrebbe potuto conquistarsi subito Licia, perchè gli diceva che era necessario di abbracciare la religione per sè stessa, per amore di Cristo, e non per altri fini.
– Si deve avere anche un'anima cristiana, gli disse.
E Vinicio, che s'incolleriva a ogni ostacolo, conveniva che Glauco, come cristiano, aveva detto quello che doveva dire.
Egli non era interamente conscio dei profondi cambiamenti avvenuti in lui, perchè prima considerava la gente e le cose col proprio egoismo; ora egli si era abituato a poco a poco al pensiero che altri potessero vedere e sentire diversamente e che la giustizia non volesse sempre dire l'interesse personale.
Desiderava sovente di vedere Paolo di Tarso, i cui discorsi le rendevano avido di sapere e lo agitavano profondamente.
Col pensiero egli resisteva alla sua dottrina e mentalmente escogitava argomenti per combatterla; tuttavia voleva vederlo e udirlo. Ma Paolo se n'era andato ad Aricia e d'allora le visite di Glauco erano divenute più rare, e Vinicio rimaneva solo nella sua solitudine. Ricominciò la corsa per gli angiporti adiacenti alla Suburra e per i vicoli del Trastevere, nella speranza di poterla vedere anche da lontano. Perduta anche questa speranza, il suo cuore venne ripreso dalla stanchezza e dalla impazienza. Alla fine i suoi istinti di razza si risvegliarono colla potenza dell'ondata che si riprecipita alla spiaggia che l'aveva respinta. Gli pareva di essere stato un cretino che si era affollato il cervello di cose che lo immelanconivano senza scopo e che doveva accettare dalla vita ciò che la vita gli poteva dare. Si decise di dimenticare Licia o almeno di darsi ai piaceri indipendentemente da lei.
Sentiva così di fare l'ultima prova e si gettò in essa con la cieca impetuosa energia che gli era particolare. Sembrava che la stessa vita ve lo spingesse colla violenza della corrente.
La città, intorpidita e spopolata dall'inverno, incominciava ad animarsi all'avvicinarsi di Cesare. Gli si preparava un ingresso trionfale. La primavera era sbocciata. La neve distesa sui monti Albani si era liquefatta al soffio dei venti africani. I prati dei giardini erano affollati di violette. Il Foro e il Campo Marzio rigurgitavano delle moltitudini che si scaldavano al sole che andava infocandosi. Lungo la via Appia, il luogo per le scarrozzate in campagna, era incominciato il movimento delle bighe e delle quadrighe sfarzose. C'erano frequenti escursioni ai monti Albani. Le giovani, sotto pretesto di adorare Giunone in Lanuvium (ora Civita Lavinia), o Diana in Aricia, lasciavano la casa per unirsi a compagnie che scampagnavano sitibonde di gozzoviglie e di avventure.
Un giorno Vinicio vide tra i superbi cocchî quello splendido di Crisotemide, preceduto da due molossi; esso era circondato da una vera folla di giovani e di vecchî senatori, la cui posizione li tratteneva in città. Crisotemide guidava essa stessa quattro cavalli còrsi, e spargeva lungo il passaggio sorrisi e leggieri cenni coll'aureo scudiscio; ma quando vide Vinicio, trattenne i cavalli, lo invitò a salire e lo condusse al banchetto a casa sua, che durò tutta notte. Vinicio bevette così smoderatamente, che non si ricordava come lo avevano portato a casa. Si rammentava solamente che quando Crisotemide gli parlò di Licia se ne offese, e, ubriaco, gli rovesciò sulla testa una coppa di Falerno. Il ricordo di questo incidente lo metteva ancora in collera.
Il giorno dopo, Crisotemide, la quale aveva indubbiamente dimenticato l'insulto, andò a fargli visita e a ricondurlo alla passeggiata di Via Appia. Poi a cena, a casa di lui, gli confessò che Petronio e il suo citarista gli erano venuti a noia e che il suo cuore era libero.
Per tutta una settimana andavano dovunque insieme, ma non pareva che la relazione dovesse continuare. Dopo il Falerno, il nome di Licia non venne mai pronunziato, ma Vinicio non sapeva liberarsi dal pensiero di lei. Si figurava sempre che gli occhî della fanciulla erano su lui e questa idea lo empiva di paura. Egli soffriva e non poteva sottrarsi dall'idea che la sua condotta rattristava Licia. Alla prima scena di gelosia fatta da Crisotemide per la compera di due fanciulle siriache, la lasciò andar via in un modo volgare. Non smise la vita dei bagordi e degli amorazzi in una volta; anzi vi si immerse con maggiore follìa, come per far dispetto a Licia. Alla fine si accorse che il pensiero non lo aveva abbandonato un istante; che essa era la causa di tutta la sua attività, tanto per il male che per il bene; e che davvero egli non si occupava di nulla al mondo che di lei.
Lo soggiogarono il disgusto e la stanchezza. Il piacere gli era divenuto ripugnante e gli lasciava dei rimorsi. Si sentiva infelice, e questa cosa lo maravigliava grandemente perchè prima soleva considerare buono ogni capriccio che gli passava per la testa. Alla fine, perduta la libertà e la volontà di fare quello che voleva, cadde in una tale apatia, dalla quale neppure la notizia della venuta di Cesare seppe farlo uscire. Nulla gli interessava e non visitò Petronio fin a quando questi non gli mandò l'invito e la lettiga.
Arrivato dallo zio, il quale da parte sua lo ricevette con gioia, rispose di malavoglia alle sue domande; ma i suoi sentimenti e i suoi pensieri repressi a lungo, scoppiarono e uscirono dalla sua bocca come un torrente di parole. Per una volta ancora egli si mise a narrargli i particolari delle sue ricerche per Licia, la sua vita tra i cristiani, ogni cosa che aveva udito e veduto tra loro, di quanto era passato nella sua testa e nel suo cuore, e finalmente del suo disordine cerebrale che gli aveva sopressa la calma e il senso di distinguere e giudicare. Nulla lo attraeva, nulla gli piaceva; non sapeva a che cosa attaccarsi, nè che cosa fare. Egli era pronto ad adorare Cristo. Egli sentiva la sublimità del Suo insegnamento, ma sentiva anche un'invincibile repugnanza per esso. Capiva che se fosse riuscito a possedere Licia, non sarebbe stata completamente sua, perchè avrebbe dovuto dividerla col di lei Cristo. Insomma egli viveva senza vivere, senza speranza, senza un domani, senza fede nella felicità. Intorno a lui era un'oscurità in mezzo alla quale egli cercava a tentoni un'uscita senza poterla trovare.
Petronio, durante la narrazione, guardava al suo viso sfinito e alle sue mani, le quali, mentre parlava, si stendevano come se veramente stessero cercando nell’ombra nera la via d'uscita, e divenne pensieroso.
Ad un tratto s'alzò e avvicinatosi a Vinicio gli prese colle dita i capelli al disopra dell'orecchio.
– Sai tu, disse Petronio, che vi sono capelli grigi alle tue tempie?
– Forse ve ne sono, rispose Vinicio; non mi meraviglierei se tutti i miei capelli incanutissero tosto.
Seguì del silenzio. Petronio era un uomo di buon senso e spesso meditava sull'anima e sulla vita dell'uomo. In generale la vita della società in cui vivevano entrambi, poteva essere, esternamente, felice o infelice, ma interiormente era tranquilla. Proprio come un fulmine o un terremoto poteva rovesciare un tempio, così la sfortuna poteva schiacciare una esistenza. In sè, essa, tutta assieme, era composta di linee semplici e armoniose, libera da complicazioni. Nelle parole di Vinicio vi era però qualche cos'altro e Petronio si trovava per la prima volta dinanzi una serie di problemi spirituali che nessuno finora aveva risolto. Era un uomo abbastanza ragionevole da capirne l'importanza, ma con tutta la sua prontezza di mente egli non sapeva rispondere alle interrogazioni che gli faceva.
– Questo deve essere della magia.
– Io pure ci ho pensato, rispose Vinicio; più di una volta ho pensato che entrambi io e Licia, siamo stati ammaliati.
– E se tu, disse Petronio, andassi, per esempio, dai sacerdoti di Serapide? Tra loro, come tra i sacerdoti in generale, vi sono, senza dubbio, dei mistificatori; ma ce ne sono altri che hanno raggiunto meravigliosi effetti cogli scongiuri.
Disse questo, comunque, senza convinzione, con voce incerta, conscio esso stesso della ridicolaggine di tale consiglio.
Vinicio si passò una mano sulla fronte, e disse:
– Incantesimi! Ho veduto stregoni servirsi di forze sotterranee e sconosciute per i loro proprî guadagni: ho veduto quelli che se ne servivano per fare del male ai loro nemici. Ma questi cristiani vivono poveramente, perdonano ai loro nemici, predicano la sommissione, la virtù e la misericordia; quali vantaggi potrebbero trarre dai sortilegi e perchè se ne servirebbero?
Petronio era esasperato di non trovare di che rispondere; non volendo però passare per un uomo a corto di argomenti, disse, tanto per dare una risposta:
– Si tratta di una nuova setta!
– Per la divina abitatrice dei boschetti di Pafo, come tutto ciò guasta la vita! Tu ammirerai la virtù e la bontà di questa gente, ma io ti dico che sono cattivi, perchè sono nemici della vita come le malattie e la morte stessa. Come stanno le cose, noi ne abbiamo abbastanza di nemici; ci volevano proprio anche i cristiani! Provati a contarle, queste malattie: Cesare, Tigellino, la poesia di Cesare, i ciabattini che governano i discendenti degli antichi quiriti, i liberti che seggono in Senato. Per Castore! Ve ne è abbastanza. È una setta distruttiva e ripugnante. Hai tu tentato di scuoterti di dosso questa tristezza e di goderti un po' la vita?
– Ho provato.
– Ah, traditore! disse Petronio ridendo; le notizie corrono subito cogli schiavi. Tu mi hai sedotto Crisotemide.
– Vinicio fece un gesto di disgusto.
– In ogni caso ti ringrazio, rispose Petronio. Io le manderò un paio di babbucce ornate di perle. Nel mio linguaggio di amante esse vogliono dire: «Vattene!» Io ti devo una doppia gratitudine: prima perchè non hai accettato Eunice, secondo perchè tu mi hai liberato da Crisotemide. Ascoltami. Ti è dinanzi un uomo che si è alzato presto, ha fatto il suo bagno, banchettato, avuto Crisotemide, scritto satire e perfino intessuto della prosa coi versi, ma che è stato infastidito come Cesare, e spesso è stato incapace di emanciparsi dai tetri pensieri. E sai tu perchè? Perchè cercavo lontano ciò che mi era vicino. Una bella donna vale sempre l'oro che pesa; ma se poi ama per giunta, non ha più prezzo. Una tale donna non puoi comperarla neppure colla ricchezza di Verre. Ora io dico a me stesso queste cose: Empirò la mia vita di felicità come una coppa del vino più squisito che la terra abbia prodotto e berrò fino a che la mia mano diverrà impotente e le mie labbra diventeranno pallide. Di quello che può accadere non mi curo. Questa è la mia nuovissima filosofia.
– Tu l'hai sempre proclamata; non v'è nulla di nuovo.
– Vi è qualcosa che prima non c'era.
Detto questo, chiamò Eunice, la quale entrò vestita di panno bianco – non più schiava, ma come una dea dell'amore e della felicità.
Petronio le aperse le braccia dicendole:
– Vieni!
Eunice corse a lui, sedette sulle sue ginocchia, gli cinse il collo colle braccia e adagiò la sua testa sul suo petto. Vinicio vide le sue guance che a poco a poco si imporporavano e i suoi occhî si velavano.
L'uno e l'altra erano uno splendido gruppo d'amore e di gioia ineffabile. Petronio allungò la sua mano al vasetto piatto sul tavolino a fianco, ne prese una manata di violette e con esse coperse la testa, il petto e l'abito di Eunice. Poi, gettata indietro la tunica dal suo braccio, disse:
– Felice colui che ha trovato come me l'amore chiuso in tale forma! In certi momenti mi pare che noi siamo una coppia di dèi. Guarda tu stesso! Ha mai Prassitele, o Mirone, o Scopa, o anche Lisia, creato linee più superbe? O esiste forse a Paro o in Pentelico marmo come questo, caldo, roseo e saturo d'amore? Vi sono persone che consumano l'orlo dei vasi a furia di baci; io preferisco cercare il piacere dove esso esiste realmente.
Egli incominciò a passare le sue labbra lungo le spalle e per il collo della fanciulla. Ella era dotata di una sensibilità che le dava i tremiti; i suoi occhî ora si chiudevano e ora si aprivano con una espressione di inenarrabile ebrezza.
Poco dopo Petronio le alzò la testa squisita, e volto a Vinicio disse:
– Pensa che cosa sono i tuoi tetri cristiani in confronto di questo. E se tu non ne capisci la differenza, va per la tua via con loro. Ma questo spettacolo ti guarirà.
Vinicio allargò le nari, aspirando il profumo delle violette di cui era impregnata l'atmosfera della camera, e divenne pallidissimo; perchè egli pensava che se avesse potuto passare in quel modo le sue labbra lungo le spalle di Licia, sarebbe stata una specie di voluttà sacrilega così grande, che poi il mondo poteva anche perire!
Ma abituato ora alla subitanea percezione di ciò che avveniva in lui, s'accorse che in quel momento pensava a Licia e a lei sola.
– Eunice, disse Petronio, ordina, divina, che ci apprestino ghirlande per le nostre teste e la colazione.
– Volevo farne una liberta, e sai tu che cosa mi ha risposto? «Preferisco essere tua schiava che la moglie di Cesare!»
E non volle acconsentire.
La dichiarai libera senza farglielo sapere. Il pretore fu tanto gentile da redigere l'atto senza la sua presenza. Ella lo ignora ancora, come ella ignora che questa casa e tutti i miei oggetti preziosi, eccetto le gemme, le apparterranno alla mia morte.
S'alzò e si mise a percorrere la camera.
– L'amore, disse, cambia chi più e chi meno; ha cambiato anche me. Una volta amavo l'odore delle verbene; ma siccome Eunice preferisce le violette, amo desse sopra ogni altro fiore e dalla primavera non aspiriamo che la fragranza delle violette.
Egli fece pausa, indi domandò a Vinicio:
– E tu ci tieni ancora al nardo?
– Lasciami in pace! rispose il giovine.
– Io volevo che tu guardassi bene a Eunice, e ti parlavo di lei, perchè tu pure stai forse cercando lontano quello che ti è vicino. Può darsi che anche per te palpiti in qualche cubicolo delle tue schiave un cuore semplice e appassionato. Applica tale balsamo alle tue ferite. Hai tu detto che Licia ti ama? Forse ti ama. Ma che razza d'amore è cotesto che rinuncia all'amore? Non vuol forse dire che c'è una forza più forte del suo amore? No, mio caro, Licia non è Eunice.
– Per me, disse Vinicio, è tutto un tormento. Io ti vedevo baciare le spalle di Eunice, e pensavo che se Licia avesse voluto snudarmi le sue, non mi sarebbe importato nulla che un momento dopo ci si fosse spalancato l'abisso sotto i piedi. Ma nello stesso momento venni preso dalla paura, come se avessi assalito una vestale o avessi voluto prostituire una divinità. Licia non è Eunice, e ne capisco la differenza non a modo tuo. L'amore ti ha alterato il fiuto e preferisci le violette alle verbene; ma desso ha cambiato l'anima mia, perciò, a dispetto delle mie tribolazioni e delle mie sventure, io preferisco Licia come è, a tutte le altre come sono.
– In tal caso non ti si è fatto torto alcuno. Ma io proprio non ti capisco.
– È vero, è vero, proruppe Vinicio febbrilmente, non ci intendiamo più.
– Che Pluto inghiottisca i tuoi cristiani! sclamò Petronio. Ti hanno infuso il malessere e distrutto il senso della vita. Che Pluto li divori! Tu ti sbagli se credi che la loro religione sia buona; perchè è buono ciò che dà alla gente la felicità, cioè la bellezza, l'amore, la forza; queste cose sono invece considerate da loro vane. Tu ti sbagli credendole giuste; perchè se noi facciamo il bene per il male, che cosa faremo per il bene? Inoltre, se il bene equivale al male, per qual ragione si dovrebbe essere buoni?
– No, la ricompensa non è la stessa; ma secondo la loro dottrina, dessa incomincia nella vita futura, la quale è eterna.
– Non entro in questa questione, perchè noi ragioneremo dopo se sia possibile vedere senz'occhî. Pel momento essi non sono che dei semplicisti. Ursus ha strangolato Crotone perchè i suoi muscoli sono di bronzo; ma essi sono individui melanconici, e il futuro non può essere dei melanconici.
– Per loro la vita incomincia colla morte.
– La quale è come se uno dicesse che il giorno incomincia colla notte. Hai sempre intenzione di rapire Licia?
– No, non posso renderle il male per il bene, e ho giurato di non farlo.
– Intendi di accettare la religione di Cristo?
– Vorrei, ma la mia natura vi si ribella.
– Potrai dimenticare Licia?
– No.
– Allora viaggia.
Gli schiavi annunciarono che la colazione era pronta; Petronio il quale credeva di avere indovinato il desiderio di Vinicio, disse, avviandosi al triclinio:
– Tu hai viaggiato molto, come soldato che si affretta alla sua destinazione, senza fermarsi mai. Vieni con noi all'Acaia. Cesare non ha abbandonato l'idea di questa gita. Egli si fermerà dovunque a cantare, a ricevere corone, a saccheggiare templi, e ritornerà in Italia trionfatore. Rassomiglierà a un viaggio di Bacco e Apollo nella stessa persona. Ci saranno tutti. Augustiani, maschi e femmine, con migliaia di cetre. Per Castore! sarà uno spettacolo che varrà la pena di vedere, che il mondo non avrà mai veduto!
Qui egli si sdraiò sul divano, a lato di Eunice, e, dopo che gli schiavi gli ebbero posto in testa una corona di anemoni, proseguì:
– Che cosa hai tu veduto al servizio di Corbulone? Nulla. Hai tu visitato con cura i templi greci come ho fatto io, che per due anni non ho fatto altro che passare da una guida all'altra? Sei tu stato sul luogo dove sorgeva il Colosso di Rodi? Hai tu veduto in Panopeo, nella Focide, la creta colla quale Prometeo plasmava l'uomo, o in Sparta le uova partorite da Leda, o in Atene la famosa armatura sarmata fatta di unghie di cavallo, o in Eubea la nave di Agamennone, o la coppa per la quale servì di modello la mammella sinistra di Elena? Hai tu veduto Alessandria, Menfi, le Piramidi, il capello che Isi si strappò per il dolore di avere perduto Osiride? Hai tu udito mai le grida disperate di Memnone? Il mondo è immenso; ogni cosa non finisce al Trastevere. Io accompagnerò Cesare e al suo ritorno io lo lascierò per andarmene a Cipro; perchè è desiderio di questa mia dea dai capelli d'oro, che si offrano insieme colombe alla divinità di Pafo; e tu sai che ogni suo desiderio è per me un dovere.
– Io sono la tua schiava, disse Eunice.
Adagiò la sua testa inghirlandata sul suo seno, e disse con un sorriso:
– Allora io sono schiavo di una schiava. Io ti ammiro, o divina, dalla testa ai piedi.
– Vieni con noi a Cipro. Ma prima ricordati che devi vedere Cesare. È male che tu non sia ancora stato da lui. Tigellino è sempre pronto a giovarsene a tuo svantaggio. Non ha odio personale contro te, ma non può amarti, anche perchè tu sei figlio di mia sorella. Noi diremo che tu eri ammalato. Dobbiamo pensare che cosa devi dire se ti domandasse di Licia. Sarebbe meglio rispondere che te la sei tenuta finchè ti venne a noia. Capirà che cosa vuol dire. Digli pure che la malattia ti ha costretto a startene in casa, che la tua febbre divenne più forte del piacere di andare a Napoli a udirlo a cantare; e che tu sei stato guarito dalla speranza di sentirlo un'altra volta. Esagera. Tigellino promette di imaginare qualche cosa di grande e di straordinario per Cesare. Ho paura che riesca a rovinarmi. Come ho paura della tua disposizione d'animo.
– Sai tu, disse Vinicio, che vi sono persone che non hanno paura di Cesare, e che vivono tranquille come se non esistesse?
– So di chi vuoi parlare, dei cristiani.
– Proprio di loro. La nostra vita non è, dimmi, una vita di terrore continuo?
– Non parlare dei tuoi cristiani. Essi non temono Cesare, perchè egli non sa forse neppure della loro esistenza; o se lo sa, non conosce nulla di loro e gli interessano meno delle foglie avvizzite. Ma io ti assicuro che sono degli incompetenti. Lo senti tu stesso; se la tua natura si ribella contro la loro dottrina, gli è perchè tu senti la loro mancanza di comprendonio. Tu sei fatto di altra creta; così nè l'uno nè l'altro dobbiamo darci pensiero di loro; noi sappiamo che si vive e si muore, e quello che loro sanno fare di più è sconosciuto.
Vinicio rimase impressionato; ritornandosene a casa pensava davvero se la bontà e la carità dei cristiani non era una prova della loro inabilità nel giudicare. Gli sembrava che le persone forti e temprate non potevano perdonare. Gli passò per la mente che questa doveva essere la sola causa della repulsione che la sua anima romana provava per la loro dottrina. «Noi sappiamo che si vive e si muore!» disse Petronio. Mentre loro non sanno che perdonare e non capiscono nè il vero amore, nè il vero odio.