IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Petronio andò a casa scuotendo le spalle e molto scontento. Era evidente per lui che egli e Vinicio avevan cessato d'intendersi, che le loro anime si erano interamente separate. Una volta Petronio esercitava una grandissima influenza sull'animo del giovine soldato. Era stato per lui un modello in ogni cosa, e spesso poche sue parole ironiche bastavano a frenare Vinicio o a spingerlo a qualche cosa. Ora nulla rimaneva di ciò; il mutamento era tale che Petronio non esperimentò i suoi antichi metodi, sentendo che il suo spirito e la sua ironia sarebbero rimasti senza effetto contro i nuovi principî che l'amore e il contatto con l'incompresa società dei cristiani avevano posti nell'anima di Vinicio. Lo scettico inveterato capiva di aver perso la chiave di quell'anima. Questa nozione lo riempiva di scontento e anche di paura che gli avvenimenti di quella notte accrescevano.
– Se da parte dell'Augusta non è un capriccio passeggiero, ma un desiderio più duraturo, pensava Petronio, una di queste due cose accadrà: o Vinicio non le resisterà e potrà esser rovinato per qualche accidente, o, ciò che oggi è più probabile per lui, resisterà, ed in tal caso sarà rovinato di certo, e forse io con lui, anche perchè sono suo parente e perchè l'Augusta, avendo incluso nel suo odio un'intera famiglia, getterà il peso della sua influenza dalla parte di Tigellino. Comunque vada, è una brutta cosa.
Petronio era un uomo coraggioso e non aveva paura della morte, ma poichè niente sperava da essa, non aveva alcun desiderio di invitarla. Dopo una lunga meditazione stabilì che sarebbe stato meglio e più prudente di mandar via da Roma Vinicio a viaggiare. Ah! se gli avesse potuto dare anche Licia in compagnia, come lo avrebbe fatto volentieri! Ma sperava che non sarebbe stato troppo difficile d'indurlo ad un viaggio senza di lei. Egli avrebbe poi diffuso al Palatino la voce di una malattia di Vinicio per stornare il pericolo tanto da suo nipote che da sè medesimo. L'Augusta ignorava se Vinicio l'avesse riconosciuta; poteva supporre di no; e quindi la sua vanità non ne avrebbe tanto sofferto. Ma la cosa poteva andar diversamente in avvenire ed era necessario di evitare il pericolo.
Petronio desiderava sopratutto di guadagnar tempo, poichè capiva che una volta partito Cesare per l'Acaia, Tigellino che nulla comprendeva nel regno dell'arte, sarebbe disceso al secondo posto e avrebbe perduto la sua influenza.
Petronio, in Grecia, era sicuro di signoreggiare ogni oppositore.
Intanto egli era risoluto di tener d'occhio Vinicio e di incitarlo al viaggio. Da parecchî giorni egli pensava che se avesse ottenuto un editto di espulsione contro i cristiani in Roma, Licia se ne sarebbe andata cogli altri della fede e Vinicio pure. Con questo strattagemma non ci sarebbe stato bisogno di persuaderlo. La cosa era possibile. Non era molto che gli ebrei, in odio ai cristiani, avevano suscitato disordini, e che Claudio, impotente a discernere l'uno dall'altro, li aveva banditi in massa. Se Claudio aveva espulso gli ebrei, perchè Nerone non avrebbe espulso i cristiani? Senza di loro vi sarebbe stato più posto in Roma. Dopo il «banchetto galleggiante», Petronio vedeva Nerone ogni giorno al Palatino o in altri siti. Era facile fargli entrare un'idea come questa, perchè Nerone si lasciava suggestionare volentieri quando si trattava di fare del male e rovinare qualcuno. Dopo matura riflessione egli si fece un piano. Avrebbe dato un banchetto a casa sua e al banchetto avrebbe indotto Cesare a pubblicare l'editto. Aveva perfino la speranza che Cesare gliene avrebbe affidata l'esecuzione.
In tal caso si sarebbe dato la cura di mandar Licia, con tutti i riguardi dovuti all'amante di Vinicio, a Baia, per esempio, ove avrebbero potuto amarsi e divertirsi col cristianesimo fin quando loro piacesse.
Intanto egli faceva frequenti visite a Vinicio, prima perchè non poteva, ad onta del suo egoismo romano, far senza di volergli bene, poi perchè voleva persuaderlo a intraprendere il viaggio. Vinicio, fingendosi ammalato, non si faceva vivo al Palatino, dove ogni giorno escogitavansi nuovi progetti. Finalmente Petronio udì dalla bocca di Cesare che fra due giorni si sarebbe andati ad Anzio. La mattina dopo egli andò direttamente a informare Vinicio e a fargli vedere la lista degli invitati che gli aveva mandato un liberto di Cesare.
– C'è il mio ed il tuo nome, diss'egli. Ritornando a casa troverai anche tu una lista simile.
– Se non fossi stato tra gli invitati, disse Petronio, avrebbe voluto dire che dovevo morire. Non mi aspetto tale cosa prima del viaggio all'Acaia, dove sarò ancora utilissimo a Nerone.
– Raramente, diss'egli scorrendo la lista, si viene a Roma per essere obbligati a riprendere la strada di Anzio. Non c'è che dire, bisogna andarvi perchè per noi è un invito e un ordine.
– E se qualcuno non volesse ubbidire?
– Sarebbe invitato a intraprendere un viaggio assai più lungo, un viaggio senza ritorno. Che peccato che tu non abbia ascoltato il mio consiglio di lasciare Roma in tempo! Ora tu devi andare ad Anzio.
– Devo andare ad Anzio! Vedi in che tempi viviamo e che schiavi abbietti siamo noi!
– No. Tu mi hai spiegato che la dottrina cristiana è nemica della vita perchè la incatena. Ma noi non siamo legati mani e piedi? Tu mi dicesti che la Grecia creò la sapienza e la bellezza e Roma la forza.
– Chiama Chilone e discorri con lui. Oggi non mi sento disposto a filosofare. Per Ercole! Non sono l'autore di questi tempi e non ne sono responsabile. Ne parleremo ad Anzio. Sappi che laggiù tu corri un grande pericolo e che sarebbe meglio per te di misurarti coll'Ursus che ha strangolato Crotone, che andare ad Anzio; ma tu non puoi rifiutarti.
Vinicio agitò la mano con noncuranza e disse.
– Pericolo! Noi tutti brancoliamo nelle tenebre della morte, e ogni momento si sommerge qualche testa in quelle tenebre.
– Vuoi tu che io enumeri tutti coloro che ebbero un po' di senno e che ad onta dei tempi di Tiberio, di Caligola, di Claudio e di Nerone, vissero ottanta o novant'anni? Ti serva d'esempio un uomo come Domizio Afro. Egli è divenuto tranquillamente vecchio, benchè sia stato per tutta la vita uno scellerato e un delinquente.
– Appunto per quello, forse! rispose Vinicio. Si mise a scorrere la lista e a leggere.
– Tigellino, Vatinio, Sesto Africano, Aquilino Regolo, Suilio Nerulino, Eprio Marcello e così via. Che mucchio di miserabili e di banditi! E dire che questa gente domina il mondo! Non sarebbero più adatti a girellare per i villaggi con una divinità egiziana o siriaca, suonando il sistro e guadagnandosi il pane coi lazzi e col predire il futuro?
– O a far vedere delle scimie sapienti, dei cani meditabondi o un asino che suoni il flauto? aggiunse Petronio. Tutto ciò è vero, ma parliamo di qualche cosa più importante. Raccogli la tua attenzione e ascolta. Ho diffusa la voce al Palatino che tu sei ammalato e che non puoi uscire; tuttavia il tuo nome è sulla lista, il che prova che qualcuno non crede alla mia storia e si è messo di proposito a farti invitare. Nerone non ne è interessato, perchè tu non sei per lui che un soldato che non ha idea della poesia e della musica e col quale non potrebbe discorrere a dir molto che delle corse al Circo. Ci deve essere dunque la mano di Poppea, il che vuol dire che il suo capriccio non era passeggiero e che essa ti vuole.
– Davvero che lo è, perchè potrebbe perdersi irremissibilmente. Che Venere le ispiri più presto che può un altro amore, ma fino a che sospira per te, non devi trascurare tutte le precauzioni. Ella ha già incominciato a infastidire Bardadibronzo; egli ora preferisce Rubria o Pitagora, e per una soddisfazione personale sarebbe capace della più atroce vendetta su noi.
– Nel boschetto io non sapevo di parlare con lei; ma tu ascoltavi. Io dissi che non la volevo perchè ne amavo un'altra. Tu lo sai.
– Ti imploro, in nome di tutti gli dei infernali, a non perdere quel resto di ragione che ti hanno lasciato i cristiani. Come è possibile esitare tra una rovina probabile e una rovina certa? Non ti ho già detto che se ferisci la vanità di Augusta non c'è più salvezza per te? Per l'inferno! Se la vita ti è diventata odiosa, apriti subito le vene, o gettati sulla spada, perchè se tu offendi Poppea ti aspetta una morte assai più crudele. Si discorreva meglio con te una volta. Che cos'è che ti interessa in modo speciale? Questa cosa ti produrrebbe forse una perdita o ti impedirebbe di amare Licia? Non dimenticare ch'ella l'ha veduta al Palatino. Non le sarà difficile indovinare perchè tu respingi un così alto onore; ed ella andrà a scovarla, fosse pure sotto terra. Rovineresti non solo te, ma anche Licia. Capisci?
Vinicio ascoltava come se stesse pensando a qualunque altra cosa. Alla fine, disse
– Chi? Licia?
– Licia.
– No.
– Allora ricomincerai a cercare di lei nei vecchî cimiteri e in Trastevere?
– Non lo so, so che devo vederla.
– Bene, quantunque sia cristiana, può darsi che abbia più giudizio di te, e ne avrà, se non vuole la tua rovina.
– Ella mi ha salvato dalle mani di Ursus.
– Allora fa presto, perchè Barbadibronzo non vorrà rimandare la sua partenza. Le sentenze di morte si possono decretare anche ad Anzio.
Vinicio non sentiva. Un solo pensiero lo occupava: rivedere Licia. E si mise a escogitare i mezzi per ritrovarla.
Intanto avveniva qualche cosa che sopprimeva ogni difficoltà. Comparve inaspettatamente Chilone.
Egli era triste, logoro, coi segni della fame sulla faccia; i servi che avevano l'ordine di prima, di lasciarlo passare a qualunque ora del giorno e della notte, non osarono trattenerlo, così che egli andò difilato all'atrio, e dinanzi Vinicio disse:
– Che gli dèi ti concedano l'immortalità e dividano con te il dominio del mondo.
Vinicio al primo momento voleva dare ordine di metterlo alla porta, ma gli venne il pensiero che il greco poteva sapere qualche cosa di Licia e la curiosità vinse il disgusto.
– Sei tu? domandò egli. Che cosa t'accadde?
– Del male, o figlio di Giove, rispose Chilone. La vera virtù è una merce che nessuno domanda ora, e un filosofo genuino deve essere lieto se una volta ogni cinque giorni ha la possibilità di comperare dal macellaio una testa di montone da rosicchiare in una soffitta e trangugiare inaffiata dalle sue lagrime. Ah, signore! Spesi tutto ciò che mi hai dato da Atracto in libri e poi venni svaligiato e lasciato nella completa miseria. Lo schiavo che doveva copiare i miei pensieri se n'è scappato col resto della tua munificenza. Sono stracciato, ma dissi a me stesso: dove andrò io, se non da te, o Serapide, che io amo e deifico e per cui ho messo a repentaglio la mia vita?
– Perchè sei venuto e che porti?
– Sono venuto a domandare aiuto, o Baal, e ho portato la mia miseria, le mie lacrime, il mio amore e un'informazione che ho raccolto per il bene che ti voglio. Ti ricorderai, signore, che io dissi una volta di aver dato a una schiava del divino Petronio un filo della cintura della Venere di Pafo. So come essa le sia stato di giovamento, e tu, o discendente del Sole, che sai che cosa avviene in quella casa, sai pure il posto che vi occupa Eunice. Ho serbato per te, o signore, un altro filo di quella cintura.
Fece pausa, vedendo come si andava rannuvolando il viso di Vinicio e prontamente, per prevenire lo scoppio di collera, disse:
– So dove abita la divina Licia; te ne mostrerò la via e la casa.
Vinicio compresse l'emozione che gli produceva la notizia, e disse:
– Con Lino, il vecchio sacerdote dei cristiani. Ella è là con Ursus, il quale va come prima al molino del mugnaio che ha il nome del tuo dispensiere Demade. Sì, Demade! Ursus vi lavora di notte. Così, se tu circondi la casa di notte, egli sarà assente. Lino è vecchio, e le altre due donne della casa sono vecchissime.
– Dove hai saputo tutto questo?
– Ti rammenterai, signore, che i cristiani che mi avevano nelle loro mani mi risparmiarono. È vero, Glauco sbagliava nel credermi causa delle sue sventure; ma lui, povero diavolo, lo credeva e lo crede ancora; nondimeno io sono stato risparmiato. Non maravigliarti dunque, o signore, se il mio cuore rigurgita di gratitudine per loro. Io sono un uomo di altri tempi, di tempi migliori. Questo fu il mio pensiero; devo abbandonare amici e benefattori? Non sarei stato di cuore veramente duro se non mi fossi interessato di loro, e non avessi domandato che cosa facevano e come stavano e dove abitavano? Per Cibele Pessinunzia, non sono capace di queste cose! In sulle prime mi trattenne la paura che avessero a interpretare male le mie ottime intenzioni. Ma l'amore che ho per loro fu più forte della mia paura, e la facilità con cui dimenticavo ogni offesa mi diede animo. Sopratutto pensavo a te, o signore. Il nostro ultimo tentativo è terminato con una sconfitta; ma puoi tu, figlio della Fortuna, adattarti alla sconfitta? Perciò io ti ho preparato la vittoria. La casa è isolata. Tu devi ordinare ai tuoi schiavi di circondarla in un modo che non sfugga neppure un topo. Mio signore, dipende da te solo di avere quella superba figlia di un re, in casa tua, questa stessa notte. Se ciò avviene, ricordati che il principale attore dell'avvenimento è stato quello stesso povero affamato di figlio di mio padre.
Il sangue andò alla testa di Vinicio. La tentazione lo riprese e gli scosse tutta la persona.
Sì, quello era il mezzo e questa volta sicuro. Una volta ch'egli ha Licia in casa sua, chi può andare a prendergliela? Una volta che Licia è sua amante, che cosa le rimane se non di acconciarvisi per sempre? Periscano tutte le religioni! Che cosa vorranno dirgli poi i cristiani colla loro misericordia o colla loro rigida fede? Non è tempo di liberarsi di tutto questo? Non è tempo di vivere come vivono tutti? Che cosa potrà fare Licia se non riconciliare la sua sorte colla sua religione? È una questione di poco conto. Sono tutte cose senza importanza. Quel che è certo è che ella sarà sua e oggi stesso. È dubbio poi se la sua religione la terrà ferma contro il mondo nuovo, contro la lussuria, contro le estasi che devono travolgerla. E tutto questo può accadere oggi. Non ha che da trattenere Chilone e dare un ordine a sera. E poi, la felicità senza fine.
– Che vita è mai stata la mia? pensò Vinicio. Una vita di torture, di desiderî insoddisfatti e una infinita serie di problemi senza soluzione. In questo modo tutto sarà abbreviato e risolto.
Si ricordava, è vero, della promessa di non levare le mani su di lei. Ma su che cosa aveva egli giurato? Non sugli dèi, nei quali non credeva; non su Cristo, perchè non credeva neppure in Lui. Se poi ella si credesse oltraggiata, egli la sposerebbe e riparerebbe all'offesa.
Sì, il matrimonio era un dovere perchè era a lei che doveva la vita. E qui gli passò per la mente il giorno in cui Crotone aveva forzato il suo rifugio, il pugno del licio sospeso su lui e tutto quello che avvenne in seguito.
Se la rivedeva china al suo capezzale, vestita nell'abito di una schiava, bella come una dea, come una benefattrice gentile e adorata.
E i suoi occhî andarono inconsciamente al larario, fissi sulla croce che gli aveva lasciata prima della fuga. Stava egli per ringraziarla con un altro attentato? L'avrebbe egli trascinata davvero per i capelli al cubicolo come una schiava? E come potrebbe farlo se egli non solo la vuole, ma l'ama, e l'ama proprio perchè ella è quella che è? E ad un tratto sentì che non bastava per lui di averla in casa; che non bastava di agguantarla e trattenerla nelle braccia colla forza; il suo amore voleva qualche cosa di più: il suo consenso, il suo cuore. Benedetto quel tetto se vi andrà spontaneamente; benedetto il momento, benedetto il giorno, benedetta la vita. In allora la felicità di entrambi sarebbe sconfinata come l'oceano, sfolgorante come il sole. Impadronirsene colla violenza vorrebbe dire distruggere tutta quella felicità per sempre e al tempo stesso distruggere e contaminare il più prezioso, l'unico essere adorato al mondo. Il solo pensiero lo riempì di terrore.
Diede un'occhiata a Chilone, il quale, spiandolo, si nascose le mani sotto i cenci e si mise a grattarsi con inquietudine. Vinicio venne preso da un disgusto invincibile e da un desiderio acre di andare sopra coi piedi al suo complice, come avrebbe fatto con un verme schifoso o un serpente velenoso.
Subito dopo sapeva che cosa doveva fare. Insofferente di ogni misura, obbedendo all'impulso della sua indole romana, si volse verso Chilone, dicendo:
– Non voglio fare quello che tu mi consigli, ma piuttosto che lasciarti andare senza la giusta ricompensa, darò ordine che ti si diano trecento scudisciate nel carcere domestico.
Chilone divenne pallido. Sul bel viso di Vinicio era diffusa una tale fredda risoluzione, che neppure per un istante potè il greco cullarsi nella speranza che le promesse scudisciate non sarebbero state che una facezia crudele.
E immediatamente si gettò sulle ginocchia, piegato in due, mormorando in una voce rotta dal gemito:
– Come, o re di Persia? Perchè? Oh piramide di gentilezza! Colosso di misericordia! Perchè, che cosa ho fatto? Io sono vecchio, affamato, sfortunato... Io ti ho servito, e tu mi ricambi in questo modo?
– Come tu ricambiasti i cristiani! disse Vinicio.
E chiamò il dispensatore.
Chilone si gettò ai suoi piedi, stringendoglieli colle braccia convulse, parlando colla faccia coperta da un mortale pallore.
– Oh signore, oh signore! Sono vecchio! Cinquanta, non trecento scudisciate. Cinquanta bastano. Cento, non trecento!... Oh pietà, misericordia!
Vinicio lo respinse col piede e diede l'ordine.
In un batter di ciglio due poderosi Quadi seguirono il dispensatore, acciuffarono Chilone per il resto dei capelli, gli legarono al collo gli stracci e lo trascinarono alla prigione.
– In nome di Cristo! gridava il greco alla soglia del corridoio.
Vinicio venne lasciato solo. L'ordine che aveva dato lo aveva animato. Tentò di raccogliere i suoi pensieri. Si sentiva sollevato, e la vittoria riportata sopra sè stesso lo consolava. Pensava di aver fatto un grande passo verso Licia, e che lo aspettava qualche grande premio. In quell'istante non gli passò neppure per la mente di avere commesso una terribile ingiustizia contro Chilone, facendolo scudisciare per le stesse ragioni per cui prima lo aveva rimunerato. Egli era ancora troppo romano per essere addolorato delle sofferenze di un altro o per occuparsi di un miserabile greco. Se pure avesse pensato alla dolorosa flagellazione di Chelone, avrebbe concluso che la punizione contro un simile miserabile era quella che meritava. Ma egli stava pensando a Licia, e le diceva: «Non voglio renderti il male per il bene, e quando tu saprai come ho trattato colui che voleva persuadermi ad alzare le mani su te, me ne sarai grata.» Si fermò su questo pensiero, domandandosi se Licia lo avrebbe poi lodato per il castigo inflitto a Chilone. La religione ch'ella professa comanda il perdono; cioè i cristiani perdonarono al miserabile, malgrado che avessero avute assai più ragioni di lui di vendicarsi. Nella sua anima si fece sentire per la prima volta il grido: «In nome di Cristo!» Si ricordava che Chelone si era riscattato dalle mani di Ursus con questo grido e risolvette di condonargli il resto della pena.
Con questa idea stava per richiamare il dispensatore, quando si trovò a faccia a faccia con lui:
– Signore, disse il liberto, il vecchio è svenuto ed è forse morto, devo ordinare che si continui la punizione?
– Fallo rinvenire e conducilo dinanzi a me.
Il capo dell'atrio scomparve dietro la cortina, ma il farlo ritornare alla vita non deve essere stato tanto facile, perchè Vinicio dovette aspettare molto tempo. Stava per divenire impaziente, quando gli schiavi gli portarono Chilone.
Gli schiavi si allontanarono.
Chilone era bianco come un pannolino e dalle sue gambe gocciolava il sangue sul pavimento di mosaico dell'atrio. Comunque era rinvenuto, e, in ginocchio, incominciò a parlare levando le braccia:
– Grazie a te, signore. Tu sei grande e misericordioso.
– Cane, disse Vinicio, sappi che ti ho perdonato per il Cristo, al quale devo la mia vita.
– O signore, io servirò Lui e te.
– Taci e ascolta. Alzati! Verrai con me e mi mostrerai la casa ove abita Licia.
Chilone s'alzò; ma era appena in piedi che divenne di nuovo terribilmente pallido; in una voce morente disse:
– Signore, io sono veramente affamato. Verrò, signore, verrò! ma non ne ho la forza. Ordina che mi si diano anche gli avanzi del tuo cane, e verrò.
Vinicio ordinò che gli si desse da mangiare e anche una moneta d'oro e un mantello. Chilone indebolito dalle staffilate e dalla fame non poteva neppur andare a prendere il cibo, benchè il terrore gli avesse rizzato i capelli sulla testa per paura che Vinicio scambiasse la sua debolezza per ostinatezza ed ordinasse di staffilarlo di nuovo.
– Permetti solo che il vino mi riscaldi, ripeteva il disgraziato battendo i denti, e mi sentirò capace di andare subito, magari fino alla Magna Grecia.
Dopo un po' di tempo riacquistò le forze e se ne andarono.
La via era lunga, perchè, come quasi tutti i cristiani, Lino abitava in Trastevere, non lontano dalla casa di Miriam.
Alla fine Chilone mostrò a Vinicio una casuccia isolata, circondata da una muraglia interamente coperta di edera, dicendo:
– Eccola, signore.
– Bene, disse Vinicio, ora va per la tua strada; ma senti prima quello che voglio dirti. Dimentica che mi hai servito; dimentica dove abitano Miriam, Pietro e Glauco; dimentica anche questa casa, e tutti i cristiani. Tu verrai a casa mia ogni mese, ove Demade, il mio liberto, ti darà due monete d'oro. Se tu continuassi a pedinare i cristiani, ti farei fustigare o consegnare nelle mani del prefetto della città.
– Dimenticherò.
Ma subito che Vinicio voltò la cantonata, protese le mani verso lui e coi pugni minacciosi, sclamò:
– Per Ate e per le Furie! Non dimenticherò!
E di nuovo si sentì mancare le forze.