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Alla sera di quella giornata, Vinicio, ritornando a casa lungo il Foro, vide all'entrata del Vicus Tuscus, la lettiga dorata di Petronio, portata da otto gagliardi bitinî. La fece fermare col cenno della mano e si avvicinò alle cortine:
– Tu hai avuto, spero, un piacevole e felice sogno! sclamò Vinicio ridendo nel vedere Petronio sonnolento.
– Oh, sei tu? domandò Petronio risvegliandosi. Sì, mi sono addormentato un momento, perchè ho passato la notte al Palatino. Sono uscito per comperarmi qualche cosa da leggere sulla via ad Anzio. Che c'è di nuovo?
– Stai facendo il giro dei libraî? domandò Vinicio.
– Sì, non mi piace mettere sottosopra la mia biblioteca, così sto comperandone per il viaggio.
– È probabile che sia uscito qualche cosa di nuovo di Musonio e di Seneca. Cerco anche Persio e una certa edizione delle egloghe di Virgilio che mi manca. Oh, come sono stanco! e come le mie mani sono indolenzite dal mettere dentro e fuori i libri dalle coperture chiuse ad anelli. Perchè, quando si è in una bottega di libraio, si è presi dalla voglia di vedere tutto. Sono stato dall'Avirno e da Atracte nell'Argileto, e dai Sozî nel Vicus Sandalarius. Per Castore, come sento il bisogno di dormire!
– Eri tu al Palatino? Che cosa vi si dice? Lo sai? Manda a casa la lettiga coi libri e vieni a casa mia. Parleremo di Anzio e di qualche altra cosa.
– Questo va bene, disse Petronio uscendo dalla lettiga. Tu devi sapere inoltre che si parte dopodomani.
– In che parte del mondo vivi? Bene, sono il primo ad annunciartelo, allora. Sì, sii pronto per dopodomani mattina. I piselli nell'olio d'oliva non hanno giovato, il fazzoletto intorno al collo taurino non ha giovato, e Barbadibronzo è rauco. In vista di questo non si parla di differire. Egli maledice Roma, la sua atmosfera e i suoi sette colli; sarebbe lieto di raderla al suolo o distruggerla col fuoco e sogna di correre al mare al più presto. Dice che i miasmi che il vento gli porta dai viottoli lo condurranno alla tomba. Oggi si offrirono sagrifici in tutti i templi per la guarigione della sua voce; e guai a Roma e guai al Senato s'essa non sarà guarita prestamente!
– Allora non vi sarà ragione di andare all'Acaia.
– Credi tu che il nostro divino Cesare abbia semplicemente l'ugola per il canto? Apparirà ai Giuochi Olimpici come poeta col suo «Incendio di Troia», come automedonte, come musico, come atleta, perfino come danzatore, e riceverà in ogni gara tutte le corone destinate ai vincitori. Sai tu perchè la scimia divenne rauca? Ieri gli venne in mente di voler eguagliare nella danza il nostro Paride e ballò dinanzi a noi le avventure di Leda, sudando come in un forno e buscandosi una infreddatura; egli era bagnato e lubrico come un'anguilla appena tirata su dall'acqua. Si cambiava una maschera dopo l’altra, turbinava come un fuso, agitava le mani come un marinaio ubriaco, fino a quando venni preso dal disgusto a guardare il suo petto immenso e le sue gambe sottili. Paride gli ha dato lezione due settimane; ma imaginati Ahenobarbus come Leda o come il cigno divino! Quale cigno! è inutile negarlo. Egli vuole apparire in quella pantomina prima in Anzio e poi in Roma.
– Il popolo è già indignato perchè egli ha cantato in pubblico; ma che un Cesare romano compaia in pubblico come mimo! No, neppure Roma vorrà tollerarlo.
– Mio caro amico, Roma tollererà questo e dell'altro; il Senato passerà un voto di ringraziamento al «Padre della patria», e la plebe sarà orgogliosa che Cesare sia il suo buffone!
– Ma dillo tu stesso, è possibile essere più spregevole?
– Tu vivi a casa solo, meditando ora su Licia, ora sui cristiani, così che tu non sai, forse, che cosa è avvenuto due giorni sono. Nerone ha sposato pubblicamente Pitagora, il quale è apparso come fidanzata. La volgarità è andata un po' troppo oltre, pare, non è vero? Che dirai? I sacerdoti invitati per la cerimonia hanno adempiuto alla loro funzione in un modo solenne! Io ero presente. Posso resistere a più di questo; nondimeno pensavo, lo confesso, che gli dèi, se ve ne sono, avrebbero dovuto farsi vivi. Ma Cesare non crede negli dèi, e ha ragione.
– Così egli, in una sola persona, è il sommo sacerdote, un dio e un ateo, disse Vinicio.
– Come tu dici, rispose Petronio incominciando a ridere. Ciò non era entrato nella mia testa, ma dell'unione dei tre personaggi il mondo non aveva sentore prima.
– Si dovrebbe aggiungere che questo sommo sacerdote che non crede negli dèi e questo dio che insulta gli dèi, li teme nel suo carattere di ateo.
– La prova di questo è ciò che è avvenuto nel tempio di Vesta.
– Quale mondo!
– Tale è il mondo, tale è Cesare. Ma ciò non può durare a lungo.
Conversando, entrarono in casa di Vinicio, il quale ordinò allegramente da cena; indi, rivoltosi a Petronio, disse:
– No, mio caro, il mondo deve essere rinnovato.
– Non lo rinnoveremo, rispose Petronio, anche per la ragione che al tempo di Nerone l'uomo è come una farfalla, vive nel sole dei favori e ai primi venti freddi muore, pur non volendolo. Per il figlio di Maia!3 mi sono domandato più di una volta: per quale miracolo un uomo come Lucio Saturnino è riuscito a raggiungere i novantatrè anni, sopravvivendo a Tiberio, a Caligola e a Claudio? Ma non importa. Mi permetti di mandare la tua lettiga a prendere Eunice? Il mio desiderio di dormire se n'è andato, e mi piacerebbe stare allegro; ordina ai suonatori di cetera di venire e poi parleremo di Anzio. È necessario parlarne, specialmente per te.
Vinicio inviò la lettiga per Eunice, ma disse che non voleva rompersi la testa sulla vita da farsi ad Anzio.
– Se la rompino coloro che non possono vivere che nei raggi dei favori di Cesare. Il mondo non finisce al Palatino, specialmente per coloro che hanno qualche cos'altro nel cuore e nel cervello.
Egli disse, tutto ciò con tanta disinvoltura, vivacità e contentezza, che Petronio ne fu colpito. Lo guardò a lungo e disse:
– Che cosa avviene in te? Tu sei oggi come quando portavi la bulla d'oro al collo.
– Io sono felice, rispose Vinicio. Ti ho invitato appunto per dirtelo.
– Qualche cosa che non darei per l'impero romano.
Sedette, appoggiando il braccio alla sedia, e adagiando la guancia sulla mano.
– Ti ricordi quando eravamo alla casa di Aulo Plauzio, dove tu vedesti per la prima volta la divina fanciulla chiamata da te: «l'Aurora e la Primavera?» Ti ricordi di quella Psiche incomparabile, più bella delle nostre fanciulle e delle nostre dee?
Petronio lo guardava intontito, come se avesse voluto essere sicuro che Vinicio non era impazzito.
– Di chi parli? domandò egli alla fine. Senza dubbio mi ricordo di Licia.
– Io sono il suo fidanzato.
– Che cosa?
Vinicio balzò in piedi e chiamò il suo dispensatore:
– Fa venire qui tutti gli schiavi, nessuno eccettuato. Presto.
– Tu sei il suo fidanzato? ridomandò Pretonio.
Ma prima ch'egli si riavesse dallo stupore, l'atrio immenso formicolava di schiavi. Giungevano vecchî ansanti, uomini nel vigore della vita, donne, ragazzi e fanciulle. A ogni momento la folla ingrossava. Nei corridoî, chiamati fauces, si udivano le voci che chiamavano in varie lingue. Presero il loro posto in fila, lungo la muraglia e tra le colonne. Vinicio, vicino all'impluvio, volto a Demade il liberto, disse:
– Coloro che sono al mio servizio da vent'anni compariranno domani dinanzi al pretore, ove verranno dichiarati liberi; coloro che non hanno raggiunto questo tempo riceveranno tre monete d'oro e la doppia razione per una settimana. Manda un ordine alle prigioni rurali di graziare tutti, di togliere loro i ferri ai piedi e di nutrirli sufficientemente. Sappi che è giorno di felicità per me e che voglio che tutta la casa senta della mia allegrezza.
Per un po' rimasero pensierosi, come se non avessero voluto credere alle loro orecchie; e poi alzarono le mani e gridarono in coro:
Vinicio li licenziò con un cenno della mano. Avrebbero voluto ringraziarlo e gettarsi ai suoi piedi, ma se ne andarono via in fretta, colmando la casa di gioia dalla cantina al tetto.
– Domani, disse Vinicio, ordinerò loro di radunarsi in giardino e di tracciare sulla terra quel segno che più piace loro. Licia farà liberi tutti quelli che riprodurranno un pesce.
Petronio, che non si meravigliava mai a lungo di qualsiasi cosa, aveva già ripresa la sua calma geniale:
– Un pesce? Ah, ah! Secondo Chilone è il simbolo di un cristiano, me lo ricordo.
Poi stese la mano a Vinicio e disse:
– La felicità è sempre dove l'uomo la vede. Che la Flora sparga fiori sui tuoi passi per molti anni. Ti auguro ogni cosa che tu desideri.
– Ti ringrazio, perchè credevo che tu volessi dissuadermi, e ciò, come vedi, sarebbe stato del tempo perduto.
– Io, dissuaderti? Neanche per sogno. Al contrario, ti dirò che fai bene.
– Ah, traditore, disse Vinicio con voce gioconda, ti sei dimenticato che cosa mi dicevi quando lasciavamo la casa di Pomponia Grecina?
– No, rispose Petronio senza arrossire, ma ho cambiato idea. Mio caro, aggiunse dopo una pausa, in Roma tutto cambia. I mariti cambiano le mogli, e le mogli cambiano i mariti; perchè io non dovrei cambiare opinione? È mancato poco che Nerone sposasse Atte, che per amor suo facevano discendere da una famiglia reale. Sì, egli avrebbe avuta una moglie onesta e noi un'onesta Augusta. Per Proteo e i suoi antri nel mare! Cambierò opinione tutte le volte che la troverò conveniente o vantaggiosa. Riguardo a Licia, la sua discendenza è più certa di quella di Atte. Ad Anzio sta in guardia contro Poppea; essa è vendicativa.
– Non ho paura. Ad Anzio non cadrà un capello dal mio capo.
– Se tu credi di meravigliarmi una seconda volta, ti sbagli; chi te lo ha detto?
– Me lo disse l'apostolo Pietro.
– Ah, te lo ha detto l'apostolo Pietro! Allora non c'è nulla da dire; comunque, permettimi di prender certe misure di precauzione anche perchè l'apostolo Pietro non appaia un falso profeta; perchè se l'apostolo, per avventura, sbagliasse, perderebbe certo la tua fiducia, la quale, indubbiamente, gli sarà utile in avvenire.
– Fa quello che ti pare, ma io credo in lui. E se tu supponi di mettermi contro lui col ripetere il suo nome ironicamente, t'avverto che sei in errore.
– Un'altra domanda. Ti sei tu fatto cristiano?
– Non ancora; ma Paolo di Tarso verrà con me ad Anzio e mi spiegherà la dottrina di Cristo e dopo mi farò battezzare, perchè la storia che siano nemici della vita e dei piaceri non è vera.
– Tanto meglio per te e per Licia, rispose Petronio; poi, con una scrollata di spalle, disse a sè stesso:
– È meraviglioso come questa gente sia abile nel conquistare aderenti e come la setta si estenda.
– Sì, rispose Vinicio, con tanto calore come se fosse già stato battezzato. Ve ne sono delle migliaia e delle migliaia in Roma, nelle città d'Italia, in Grecia e in Asia. Vi sono cristiani nelle legioni e tra i pretoriani; ve ne sono perfino nel palazzo di Cesare. Professano la stessa fede schiavi e cittadini, ricchi e poveri, patrizî e plebei. Sai tu che i Cornelî sono cristiani, che Pomponia Grecina è cristiana, che lo era, probabilmente, Ottavia e che lo è Atte? Sì, è una religione che abbraccerà il mondo ed essa sola lo rinnoverà. Non crollare le spalle, perchè chi sa se fra un mese o un anno tu non sarai del numero.
– Io? domandò Petronio. No, per il figlio di Leto. Non lo sarò di sicuro, anche se contenesse la verità e la sapienza degli dèi e degli uomini. Per divenire cristiano ci vorrebbe del lavoro, e io non ne sono appassionato. Il lavoro esige sacrifici e io non voglio privarmi di nulla. Col tuo temperamento che è come l'acqua bollente e il fuoco, una cosa simile può avvenire a ogni momento. Ma io? Io ho le mie gemme, i miei cammei, i miei vasi, la mia Eunice. Non credo nell'Olimpo. Così che me lo creo a mio modo in terra; e fiorirò fino a quando le frecce del divino arciere verranno a colpirmi, o fino a quando Cesare mi ordinerà di aprirmi le vene. Io amo troppo l'odore delle violette e un superbo triclinio. Amo anche i nostri dèi, come figure rettoriche, e Acaia, dove mi preparo ad andare col nostro grosso, impareggiabile, divino Cesare, Ercole, Nerone dalle gambe sottili.
Ciò detto si mise a ridere all'idea ch'egli potesse accettare gli insegnamenti dei pescatori di Galilea e incominciò a cantare sottovoce
Voglio intrecciare di mirti la spada lucente e vittrice,
Seguendo Armodio ed Aristogitone.
Si fermò all'annuncio dell'arrivo di Eunice. Subito dopo il suo arrivo si servì la cena, durante la quale si udirono i canti accompagnati dai citaredi. Vinicio gli disse della visita di Chilone e come quella visita gli avesse suggerito l'idea di andare direttamente dagli apostoli, un'idea che gli venne mentre lo percuotevano colle verghe.
Petronio, il quale incominciava ad aver sonno, si mise la mano sulla fronte e disse:
– Il pensiero era buono, dal momento che lo scopo era buono. A Chilone avrei dato cinque monete d'oro; ma siccome la tua volontà era di flagellarlo, è stato meglio flagellarlo, perchè chi sa se un giorno i senatori non gli si inchineranno come si inchinano oggi al nostro cavaliere-ciabattino, Vatinio. Buona notte.
E deposti i serti egli ed Eunice si prepararono per ritornare a casa. Quando se ne furono andati, Vinicio andò nella sua biblioteca a scrivere a Licia le seguenti parole:
«Io voglio che questa lettera ti dia il buon giorno quando tu aprirai i tuoi begli occhî. Perciò ti scrivo ora, benchè io ti vedrò domani. Cesare andrà ad Anzio dopodomani, e io, ahimè! dovrò andare con lui. Ti ho già detto che la disobbedienza vorrebbe dire di mettere in pericolo la vita, e io ora non ho il coraggio di morire. Ma se tu vuoi che io non vi vada, scrivimi una parola e rimarrò a casa. Petronio mi salverà dal pericolo con un discorso. Oggi, nell'ora della mia gioia, ho ricompensato tutti i miei schiavi; tutti coloro che sono al mio servizio da venti anni saranno dichiarati liberi domani dal pretore. Tu, mia cara, dovresti lodarmi, perchè questo credo sia d'accordo con la tua dolce religione, e perchè l’ho fatto per amor tuo. Essi devono ringraziare te per la loro libertà. Lo dirò loro domani, perchè te ne siano grati e venerino il tuo nome. Io mi faccio invece schiavo della felicità e di te. Dio voglia che io non veda mai la mia liberazione. Sia Anzio maledetto e sia maledetto il viaggio di Ahenobarbus! Sono tre volte e quattro volte felice di non avere l'ingegno di Petronio, perchè se lo avessi mi toccherebbe forse andare in Grecia. Il momento della separazione mi sarà addolcito dal ricordo di te. Non appena potrò scappar via, mi metterò sul dorso di un cavallo e mi precipiterò indietro verso Roma a letificare i miei occhî della tua presenza e le mie orecchie della tua voce. Quando non potrò venire, manderò uno schiavo a informarsi di te. Ti saluto, divina, e ti abbraccio i piedi. Non andare in collera se ti chiamo divina. Se tu lo proibisci, ubbidirò, ma oggi non posso chiamarti altrimenti. Mi congratulo con te, con tutta l'anima, sul futuro della tua casa.»