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L'ordine cronologico mi conduce ora a dover tessere la storia del memorabile anno 1848. Era il ventesimo sesto anno secolare della fondazione di Roma. L'anno centenario della più illustre città dell'Europa e del Mondo fu così pieno di grandi avvenimenti per tutta l'Europa, e specialmente per l'Italia, per la Francia, per la Germania, e per l'impero Austriaco, che a voler far di tutti un particolareggiato racconto, sarei costretto ad oltrepassare di troppo il numero di pagine conveniente ad un semplice compendio sintetico di Storia Universale. Perciò, spiegando con qualche diffusione alcuni dei principali eventi di quell'anno, mi limiterò di accennarne più altri col loro titolo, e colla loro rispettiva data.
Nel giorno 12 gennajo 1848, insurrezione di Palermo contro il re di Napoli.
28 gennajo promessa di una costituzione liberale, pubblicata da Federico re di Danimarca.
29 gennajo promessa pubblica di una costituzione da Ferdinando re di Napoli.
8 febbrajo 1848 simile promessa di Carlo Alberto re di Sardegna.
11 febbrajo altrettanto da Leopoldo Granduca di Toscana.
24 febbrajo, il re di Napoli giura la costituzione.
Nell'identico giorno, 24 febbrajo 1848, ebbe luogo in Francia un avvenimento assai più importante. Dopo tre, giorni di insurrezione, 22, 23 e 24 febbrajo, il re Luigi Filippo fuggì da Parigi, e fu proclamata la Repubblica francese.
La notizia della nuova rivoluzione francese mise sossopra l'Europa. Pio IX, il quale l'aveva precorsa, e dato ad essa un involontario impulso colle sue piccole riforme, ne accordò una seria e grande, benchè in breve divenne insufficiente ancor essa. Nel giorno 14 di marzo 1848, firmò una costituzione della solita forma inglese, e più prossimamente calcata su quella del già caduto Luigi Filippo. Tali erano pure le costituzioni precedentemente accordate dal re di Napoli, dal re di Sardegna, e dal Granduca di Toscana.
I grandi avvenimenti della Francia e dell'Italia svegliarono uno straordinario fermento politico anche in altre parti dell'Europa. L'indomani della costituzione di Pio IX, cioè il 15 marzo, scoppiò la rivoluzione a Vienna, capitale dell'impero Austriaco. Gli Ungheresi pure insorsero, e si dichiararono indipendenti. Il 18 marzo scoppiò la rivoluzione a Berlino, capitale del regno di Prussia. Altre rivoluzioni vi furono nei piccoli stati Germanici, e specialmente un'insurrezione repubblicana nel Granducato di Baden. Al 20 aprile avvenne uno scontro fra i repubblicani e le truppe ducali, che costò la vita al comandante di queste, generale Gagern. Adunatasi l'assemblea costituente Germanica in Francoforte il 18 maggio 1848, offerse la corona imperiale di Germania al re di Prussia, Federico Guglielmo IV, il quale la ricusò, essendo avverso alla rivoluzione. Ancora più nemico alla rivoluzione era il suo fratello Guglielmo, poscia imperatore di Germania. In seguito del rifiuto di Prussia, la presidenza della nazione Germanica fu conferita dall'assemblea costituente all'arciduca Giovanni d'Austria. Una costituzione germanica fu poscia proclamata dall'assemblea stessa nel giorno 9 di febbrajo 1849, cioè nell'identico giorno nel quale, come vedremo, fu proclamata la Repubblica dalla Costituente Romana; ma l'una e l'altra istituzione ebbero breve vita.
Avendo la rivoluzione francese del 1848 creata una forte agitazione anche nel Belgio, per la proclamazione della Repubblica ed in favore di un'annessione alla Francia, il re Leopoldo primo si dichiarò pronto di offrire al popolo la propria abdicazione, se era desiderata; ma questo nobile atto di moderazione gli rese vieppiù affezionati gli animi della grande pluralità de' suoi sudditi. Fu pregato di rimanere, e rimase.
Eravi da molti anni in Inghilterra un partito democratico fortemente organizzato, e con un grandissimo numero di aderenti, specialmente fra i proletarii. Si chiamavano i Cartisti, perchè domandavano una carta o statuto del Popolo. I loro capi più celebri furono Hume, Owen, O' Connor. Quest'ultimo era Irlandese, come lo era l'ancor più celebre O' Connell, il quale si limitava a domandare giustizia all'Irlanda, e la separazione amministrativa di quell'isola dall'Inghilterra. O' Connell morì nel 1847. I diritti invocati dai Cartisti in favore del popolo erano il suffragio universale, Parlamenti annui, voto segreto, retribuzione ai deputati, abolizione del censo come requisito elettorale, ed equiponderanza dei distretti elettorali.
Nel giorno 10 d'aprile 1848, i Cartisti tennero una grande adunanza popolare all'aria aperta, nel prato di Kensigton, a Londra, per andar in frotte a presentare una petizione al Parlamento. Speravano un concorso di duecentomila persone: non ne ebbero che ventimila in circa. Il governo Inglese oppose alla dimostrazione cartista la chiamata sotto le armi e radunamento di centocinquantamila cittadini, precedentemente arruolati come guardie speciali (special constables) con giuramento di tutelare l'ordine pubblico. La petizione cartista, munita di innumerevoli firme precedentemente ottenute in rotoli separati, fu di fatto portata al Parlamento con un gran numero di veicoli. Le imperfezioni dell'umana società sono tante, e si danno cosiffattamente la mano le une colle altre, che per ottenere una cosa anche giustissima è rado che basti la buona ragione, ove questa non sia fiancheggiata da qualche forza. Se i cartisti fossero andati in duecentomila, avrebbero forse ottenuto subito, non tutto ciò che domandavano, ma quasi tutto: non tanto pel timore che avrebbero ispirato, ma perchè avrebbero rivolto il pensiero altrui ad esaminar seriamente la ragionevolezza od irragionevolezza delle lor domande; e ben pensandoci anche gli altri Inglesi avrebber trovato che le richieste dei cartisti, al postutto, erano in gran parte giuste. Infatti col tempo le han riconosciute così poco dementi ed abbominevoli, come dapprima le chiamavano, che a quest'ora sono in non piccola parte già soddisfatte. Il Parlamento nulla concesse in quel giorno; ma in seguito fu allargato il suffragio elettorale, diminuita l'ineguaglianza dei distretti elettorali, e adottato il voto per ischede segrete. Uno dei constabili speciali del 10 aprile fu Luigi Napoleone Bonaparte, il quale allora viveva come esule in Londra, ma poco dopo tornò in Francia, e divenne presidente della Repubblica, indi Imperatore.
I grandi eventi si incalzavano cosiffattamente in quel memorabile anno 1848, che ne sorgeva più d'uno in un medesimo giorno, ed in diversi luoghi. Il giorno della rivoluzione di Prussia, 18 marzo 1848, fu la prima delle cinque gloriose giornate di Milano. Radetzky aveva ventiquattro grossi battaglioni di fanteria, sessanta cannoni da campo, e sei squadroni di cavalleria. Il popolo inaugurò la sua insurrezione coi sassi, e con pochi fucili da caccia, ma altri ne prese a forza dalla bottega dell'armajuolo Sassi, ed alzò alcune barricate. Gli Austriaci occuparono i terrazzi del Duomo, per poter tirare da quell'altezza, contro gl'insorti nelle sottoposte piazze, e nella grande strada del Corso.
Nel seguente giorno gli Austriaci occuparono anche la strada del passeggio sui bastioni, che corona tutto intero il giro della città, onde giovarsi di quell'elevata posizione contro i cittadini, e per impedire che giugnessero rinforzi all'insurrezione dalla campagna. Ma gl'insorti Milanesi si fecero più forti pel loro proprio numero, tanto più facilmente aumentato per essere quello un giorno festivo nel quale erano chiuse le officine; e rapirono agli Austriaci un cannone. Innumerevoli bandiere a tre colori sventolavano dalle finestre; suonavan le campane a stormo. Le barricate eran gremite di uomini e di fanciulli: uomini, donne e fanciulli gridavano: Viva Pio IX, viva l'Italia.
Siamo al terzo giorno dell'insurrezione: gli Austriaci van perdendo terreno, ed abbandonano la centrale e dominante posizione del Duomo. L'occupano tosto gl'insorti, ed issano una bandiera a tre colori sopra l'altissimo pinnacolo di quel maraviglioso tempio. Il vessillo italiano visto dagli abitanti della campagna, anche a grande distanza mercè i telescopii, diffonde la lieta notizia del progresso se non della definitiva vittoria dell'insurrezione, non ostante la continuata chiusura delle porte, ed il prolungato crepitare delle fucilate, e tuonar del cannone.
Nel quarto giorno, cioè il 21 marzo, penetra in città un messaggio di Carlo Alberto re di Piemonte, che offre ajuto al Popolo. Radetzky domanda un armistizio, il Popolo, per consiglio di Carlo Cattaneo, respinge la proposta.
Il 22 marzo è la quinta e decisiva giornata. Scorre altro sangue Italiano, ma scorre in maggior copia il sangue Austriaco. Rimane infine la vittoria all'amor di Patria, all'amore della Libertà, alla fiducia nella protezione del cielo. Radetzky, cogli avanzi del suo esercito, abbandona Milano.
In quel medesimo giorno, 22 marzo 1848, scoppiò e trionfò la rivoluzione a Venezia. Gli operai dell'arsenale liberarono Daniele Manin dalla prigione, e lo portarono in trionfo sulle loro spalle. Abbiam veduto Luigi Manin essere stato l'ultimo doge della Repubblica di San Marco, estinta nel 1797. Daniele Manin fu presidente della democratica Repubblica di Venezia nella lunga e gloriosa difesa del 1848 e 1849. Il cognome di Manin gli veniva non da alcuna consanguineità coll'ultimo Doge, ma dalla circostanza che un suo antenato Israelita, abbracciando la religione cristiana, fu tenuto al fonte battesimale da un membro di quella famiglia patrizia e ducale.
Tanto è vero, come già notai che i grandi avvenimenti si incalzavano senza posa in quel memorabile anno, che mentre si combatteva sulle barricate a Milano, la Dieta Ungarese, nel giorno 19 di marzo consumò un atto di alta importanza, qual si fu l'abolire la servitù della gleba.
Sparsa appena per l'Italia la notizia della partenza degli Austriaci da Milano e da Venezia, nacque un'entusiastica gara di accorrere alla guerra dell'indipendenza nazionale da tutte le parti della penisola, dalla Sicilia e dalla Sardegna, con un'incredibile profusione di grida e di canti, con un mediocre numero di armi e di armati, ma che pur sarebbero stati a sufficienza se fossero stati uniti e ben condotti. Le donne versavano a piene mani i fiori sui volontari, che s'incamminavano al campo, fregiati il petto di una croce a tre colori, perchè dicevano esser questa una crociata liberale, bandita dal vicario di Cristo.
Il così detto vicario di Cristo, dal canto suo, non intendeva di aver bandita alcuna crociata affatto; anzi versò acqua sul fuoco di quel grande entusiasmo, pubblicando l'allocuzione del 29 aprile, nella quale dichiarava di non voler la guerra coll'Austria. Contuttociò le milizie regolari pontificie, comandate dal general Giovanni Durando, le truppe regolari Toscane ed i volontarii toscani, comandati dal general Laugier, ed altri volontarii dello stato Romano e dei piccoli ducati, in due corpi separati, dei quali uno era comandato dal general Ferrari, e l'altro dal colonnello Zambeccari, avevano già passato o passarono il Po. Carlo Alberto aveva varcato il Ticino, coll'esercito regolare Piemontese, sino dai primi giorni dopo le cinque giornate di Milano; e non uno si avvisò di tornarsene indietro per la enciclica pontificia. Molti altri volontari, specialmente Lombardi, si unirono all'esercito Piemontese. Era in cammino verso la Lombardia anche un ragguardevole corpo di quattordici mila soldati Napoletani, sotto la guida del general Guglielmo Pepe.
Se non che il 15 maggio vi fu contemporaneamente una sommossa in tre delle più grandi città di Europa, cioè una a Parigi, un'altra a Vienna, ed una terza a Napoli. A Parigi ed a Vienna la parte popolare ebbe il vantaggio, ma fu schiacciata a Napoli. Cadde il ministero liberale presieduto da Carlo Troja. Il re di Napoli affrettossi a mandar l'ordine a' suoi soldati, giunti a Bologna, di retrocedere. I più obbedirono; ma il general Pepe con pochi altri uffiziali e soldati, passò il Po, e andò a dirigere la difesa della città di Venezia.
Anche dopo la defezione del Papa e del Re di Napoli, rimanevano tante forze materiali e morali in Italia, che sarebbero state bastevoli a vincere, come già notai, se fossero state unite, e se il comandante supremo avesse conosciuto e seguito i principii elementari della Strategia. I volontari tutti erano abbastanza disposti a seguir gli ordini di Carlo Alberto. Per isventura, quantunque egli fosse sinceramente devoto al principio della nazionalità italiana, sul campo di battaglia non era che un valoroso soldato e non punto un buon generale.
L'esercito regolare Piemontese era all'assedio di Peschiera; l'esercito regolare Romano, o pontificio, era a Vicenza; i Toscani erano a Curtatone presso Mantova; altri volontarii erano sotto Ferrari sulla Piave, ed altri sotto Zambeccari a Treviso; altri in maggior numero sotto il general Pepe a Venezia. Il maresciallo Radetzky: dopo aver lasciato alquanto di tempo a' suoi soldati per ripigliare il loro ardire attutito dalle batoste Milanesi, ed avendo ricevuto dei rinforzi condottigli dal general D'Aspre, si accinse a prendere l'offensiva, ed a schiacciare successivamente le separate forze italiane. Dapprima egli piombò con tutto il pondo del suo esercito sui Toscani, accampati alle Grazie, a Curtatone ed a Montanara, nel giorno 29 di maggio. Cinque mila giovani Toscani, con sei piccoli pezzi di cannone, resistettero per sei ore a trentamila Austriaci, sostenuti da un formidabile parco di artiglieria. Fu notato fra gli altri un cannoniere toscano, il quale, avendogli un razzo alla Congrève abbruciato il vestito, continuò in istato di nudità il servizio del suo pezzo. Nella sera, Radetzky ebbe a dire: non avrei giammai pensato che quei ragazzi mi opponessero tanta resistenza. In mezzo a quei ragazzi eranvi ancora dei professori di Pisa, di Firenze e di Siena; e fra i primi l'illustre matematico Mossotti. Eravi pure il virtuoso e simpatico Montanelli, che fu poscia collega di Domenico Guerrazzi, e di Giuseppe Mazzoni, nel triumvirato toscano.
L'indomani Radetzky procedette contro i Piemontesi, ed ingaggiò contro di essi battaglia a Goito. Aspra fu la tenzone: ma questa volta le sorti arrisero al buon dritto, cioè a Carlo Alberto ed ai Piemontesi; se non che Carlo Alberto non seppe profittare della vittoria. Il suo ministro della guerra, Franzini, nella sera del 30 gli disse: Sire, perchè non inseguiam noi il nemico che si ritira? Il re gli rispose: non vedete che la pioggia ha sconciate le strade? Come potrebbero passarvi i nostri cannoni? Il ministro avrebbe dovuto rispondere: i nostri possono ben passare in quello stesso modo con cui passano quelli dei Tedeschi. D'altronde, Sire, un esercito che si ritira deve inseguirsi colla cavalleria, coll'artiglieria, colla fanteria, in qualunque modo si può. Se i nostri soldati sono stanchi, lo saranno vieppiù quegli altri. Una ritirata vigorosamente incalzata si cambia quasi sempre in fuga precipitosa.
In quella medesima sera della battaglia di Goito, il presidio austriaco di Peschiera, una delle quattro fortezze del famoso quadrilatero, si arrese agl'Italiani. Giovanni Durando non amava nè stimava i volontari italiani. Grave è la sua colpa di esser rimasto per lungo tempo inerte, e di non aver dato il chiesto e promesso soccorso a Ferrari. Il quale dopo buona ed onorata resistenza fu battuto da Nugent a Cornuda, e si ritirò a Montebelluna. Nugent si avanzò e prese Treviso, dopo non breve difesa oppostagli dai volontarii di Zambeccari.
Radetzky, non molestato da Carlo Alberto, andò sopra Durando, che si era chiuso in Vicenza, tenendo soltanto all'esterno la forte posizione del Monte Berico, ove è il santuario della Madonna. Nonostante la coraggiosa difesa delle truppe Romane, regolari e volontarie, sulle mura della città, ed il valore spiegato dal reggimento svizzero per difendere il Monte Berico, dove pure fu ferito Massimo d'Azeglio, Durando stimò necessario dopo due soli giorni di combattimento il venire a capitolazione. I patti della resa furono i medesimi di quelli estorti a Zambeccari in Treviso, vale a dire che le milizie italiane le quali uscivano da quelle due città non avessero a riprender le armi contro l'impero austriaco per tre mesi. Non dirò vergognosa la condotta di Durando a Vicenza; ma per fermo la sua difesa di quella città fu meno onorevole e meno lunga di quella che i volontari da lui disprezzati avevano fatta a Treviso, e di quella che fecero dipoi a Bologna, ad Ancona a Roma ed a Venezia.
Così prostrati separatamente i volontarii, Radetzky potè volger di nuovo, ma con miglior esito per lui, tutte le sue forze contro l'esercito regolare piemontese. Ne seguì la finale e decisiva battaglia di Custoza, numero uno, il 25 luglio 1848. I Piemontesi, pochi, trafelati, scoraggiati, affamati, furono vinti dagli Austriaci numerosissimi, vigorosi, imbaldanziti, vettovagliati. Vedremo più avanti, che vi fu un'altra battaglia di Custoza, nel 1866, egualmente perduta dagl'Italiani per l'imperizia dei loro duci.
Radetzky adunque ebbe per alleato, in quel giorno, anche il digiuno nel campo italiano. Perocchè l'insipienza ed il poco amore dei capi aveva lasciato mancare ai poveri soldati italiani il cibo, nelle grasse pianure lombarde. I barbassori incolpano di mancato patriottismo i contadini perchè non diedero da mangiare all'esercito liberatore; ma le pianure lombarde son grasse pei ricchi proprietari, e non pei miseri coltivatori. L'abitante di un casolare di campagna avrà forse appena la polenta necessaria alla sua famigliuola per uno o due giorni; pretendete voi che sappia e possa improvvisar il pranzo per un reggimento? Carlo Alberto, sfiduciato, si ritirò a Milano, ed ivi patteggiò un armistizio coll'Austria il 9 agosto 1848.
Uno degli ultimi arrivati, ma ultimo a depor le armi in quella campagna, fu il general Giuseppe Garibaldi, di cui il nome ci verrà innanzi ben molto altre volte ancora nel seguito di questo volume. Già prima del 1848 il suo nome era circondato da un'aureola di popolarità in Italia per la fama delle prodezze da lui operate in America. Garibaldi nacque a Nizza nel 1807 ai 4 di luglio, anniversario dell'indipendenza Americana. Ascritto alla società secreta della Giovine Italia fondata da Giuseppe Mazzini, fu condannato a morte dal governo Piemontese nel 1834; ma per fortuna egli era allora assente dall'Italia. Visse nei primi anni della sua vita, ora esercitando la paterna professione di marinajo, ora dando lezioni di matematica elementare a Marsiglia.
Recatosi nel 1836 nell'America meridionale, ricevette dalla Repubblica dell'Uruguai, di cui la capitale è Montevideo, il comando del suo naviglio nella guerra contro Rosas, dittatore e tiranno della vicina Repubblica Argentina, detta pure, dal nome della sua capitale, la repubblica di Buenos Ayres. Cose inaudite egli fece colle sue poche e piccole navi armate, ma per meglio ajutare la repubblica dell'Uruguai contro le forze, numericamente assai maggiori, di Rosas, fondò la legione italiana, ed alla testa di essa, sulle sponde del gran fiume della Plata, sostenne e vinse numerosi combattimenti. Insigne sopra gli altri combattimenti da lui sostenuti in America, fu quello di Sant'Antonio del Salto, quando nel giorno 8 di febbraio 1846, con quattro sole compagnie, dopo dodici ore di fuoco sbaragliò mille e dugento uomini.
Ricevuto l'annunzio della prossima rivoluzione del 1848, Garibaldi fece vela da Montevideo in compagnia di cento altri italiani, sopra una nave che aveva nome La Speranza, colla bandiera italiana a tre colori. Forme egli avea bellissime. Lunga e bionda era la sua chioma; i lineamenti del suo volto somigliavan quelli coi quali i pittori rappresentar sogliono il Nazzareno. Lo sguardo de' suoi occhi azzurri era dolce e penetrante; forte, armoniosa e simpatica la voce. Aveva l'anima Greca e Romana; l'anima di un artista e di un eroe.
Benchè freddamente ricevuto dal governo Piemontese a Torino, e dall'inetto governo provvisorio a Milano, Garibaldi radunò attorno al picciol nucleo condotto dall'America una legione principalmente composta di volontari che si erano ritirati in seguito alla battaglia di Custoza, ed all'armistizio stipulato dal Salasco a Milano in nome di Carlo Alberto. Dopo un brillante fatto d'armi a Luino contro gli Austriaci, Garibaldi condusse in salvo i suoi nel cantone Italiano Svizzero del Ticino.
Prima che fosser trascorsi i tre mesi convenuti nelle capitolazioni di Treviso e di Vicenza, Radetzky mandò Welden contro Bologna. Strada facendo il Welden abbruciò Sermide, e pubblicò un bando nel quale, collo stile degno di un piccolo Attila, egli diceva: «le mie truppe sono dirette contro le bande che si chiamano crociati, e contro i faziosi. Guai a coloro che oseranno far resistenza! Volgete lo sguardo ai fumanti avanzi di Sermide. Il paese restò distrutto perchè gli abitanti fecero fuoco su' miei soldati.»
Il conte Bianchetti, il quale governava la legazione di Bologna pel papa, mandò via non solo le truppe comprese nelle capitolazioni di Treviso e di Vicenza, ma ancora le altre, e diè fuori un codardo manifesto, col quale confortava i cittadini ad esser saggi, e a non opporre una inutile resistenza.
Nondimeno, prima dell'arrivo degli Austriaci, la plebe si impadronì dei fucili mal custoditi della guardia nazionale. Nel giorno 7 di agosto Welden, fermato il suo quartier generale al Borgo Panigale presso il ponte del Reno, occupò le tre principali porte della città, San Felice, Galliera e Maggiore. Occupò altresì la pubblica passeggiata della Montagnola, posta sopra una piccola altura artificiale, residuo di un antico forte, dentro il recinto della città, ma all'estremità settentrionale di essa, in prossimità della porta di Galliera. I Bolognesi vedevano, fremevano, ma lasciavan fare.
Tutto ad un tratto, nel pomeriggio del giorno 8 agosto, quasi da improvvisa ed ignota forza sospinti, dieder di piglio alle armi. Bologna è una città singolare sotto molti rapporti morali ed ideali. È una città singolare anche materialmente per essere quasi tutta a portici, a comodo riparo dei passeggieri contro la pioggia ed il sole. I vecchi che costrussero quei pilastri e quelle colonne non prevedevano che un giorno avrebbero ancora prestato ufficio di serraglie, o barricate, contro i colpi di moschetto.
I cittadini cominciarono di lontano il fuoco coi fucili, nelle strade che conducono alla Piazza d'armi davanti alla Montagnola, ed alla porta di Galliera. Gli Austriaci rispondevano coi fucili, coi cannoni e colle bombe. I bolognesi caricavano il lor fucile tenendosi riparati dietro una colonna, indi si spingevano infuori quanto bastava per mirare e sparare. Si coprivano ancora fra le colonne ricaricando l'arma, poi tiravan di nuovo: ma a poco per volta si andavan facendo innanzi di colonna in colonna, di portico in portico, e stringevano, sempre più dappresso, il nemico.
Durava da più di due ore il combattimento. Eran caduti al suolo non pochi dei nostri, ma un maggior numero degli altri. Alcuni italiani più arditi, e buoni tiratori, e fra essi i carabinieri o gendarmi, assalsero la Montagnola di fianco, dalla parte del giuoco del pallone. Cominciava già a manifestarsi nelle fila austriache, poco riparate dagli alberi del passeggio, una certa esitanza. Alla fine un ben diretto colpo gettò giù da cavallo un maggiore austriaco. Quello fu il segnale ed il principio della fuga generale dei nostri nemici. Discesero dall'altura della Montagnola, dalla parte di dietro, alla vicina porta di Galliera, e per quella uscirono dalla città. Tutto l'esercito di Welden si ritirò, con poco ordine; una parte per la via di Galliera a Ferrara, e l'altra per la via Emilia a Modena.
L'8 agosto 1848 è la data più onorevole e più memorabile della storia moderna di Bologna. Le maravigliose armonie cronologiche che quasi ad ogni piè sospinto si presentano nella mia storia, la renderanno meno attraente ai lettori miei contemporanei; ma preferendo anche in questo caso il mio dovere al mio momentaneo interesse, sono costretto a notare che la data moderna della vittoria dei Bolognesi, cioè il giorno 8 di agosto dell'anno 1848, ventesimo sesto anno secolare della fondazione di Roma, si trova essere l'anniversario preciso dell'unico avvenimento del quale si conosca la data nella storia di Bologna antica. È il preciso anniversario del giorno in cui Bononia, ossia Bologna, già Felsina, divenne una colonia Romana. Questa circostanza era ricordata da un verso latino scolpito in una lapide, ora tolta, sulla porta di Galliera, dai merli della quale i Tedeschi tiravano contro i Bolognesi nell'8 agosto:
«Felsina Romanæ fuit ante colonia gentis.»
La data che ce ne somministra Tito Livio, ridotta dal calendario decemvirale che era in uso al tempo della fondazione della colonia Romana-bolognese al calendario attuale, corrisponde all'8 agosto dell'anno 564 di Roma, ossia 189 A. C., ossia ancora 3812 E. A. Questa corrispondenza è dimostrata in Miranda anche coll'appoggio delle date astronomiche di due eclissi, una avvenuta durante la guerra Siriaca, e l'altra nel giorno della battaglia di Pidna.
Mamiani, capo del ministero costituzionale di Pio IX, erasi già ritirato perchè il pontefice non aveva voluto consentirgli le chieste difese contro l'ingresso delle truppe austriache nello Stato. Successegli Pellegrino Rossi, economista di alto ingegno, ma di carattere orgoglioso ed inamabile. Egli aveva preparato l'arresto e l'espulsione dei più noti agitatori; avea disposto le truppe per effettuare in sicuro il suo colpo, non precisamente colpo di Stato, come oggi si dice, poichè pare che non volesse abolita la costituzione, ma soltanto una sosta nel movimento italiano. Tutto aveva preveduto, fuorchè una cosa sola: che potesse esser tolto di mezzo improvvisamente egli stesso. Non per questo è meno da deplorarsi ed abbominarsi l'assassinio del quale ei fu la vittima.
Era il giorno destinato all'apertura del Parlamento, 15 di novembre; Rossi vi si recava per leggere, secondo gli usi costituzionali, il discorso del trono, in nome del regnante pontefice. Disceso dalla carrozza, mentre traversava gli atrii del palazzo in mezzo ad una folla ostile che profferiva delle imprecazioni contro di lui, uno dei congiurati lo colpì leggermente col puntale di un ombrello, per fargli voltare il capo e porgere più scoperto il collo dall'altra parte; un altro congiurato vibrò un colpo di pugnale, che gli tagliò la carotide. Pellegrino Rossi cadde versando un ruscello di sangue; e poco dopo spirò. Con lui spirò ancora la costituzione pontificia, non nata, a vero dire, per recare assai buoni frutti; non solo a cagione de' suoi intrinseci difetti, ma ancora per la ragione che il pontefice a mal in cuore l'aveva concessa, e malvolontieri pure continuava a sobbarcarvisi.
L'indomani della morte del Rossi il popolo, o più veramente quella parte del popolo che era solita fare le dimostrazioni, ne fece una non amorevole ed ossequiosa, come in addietro, ma minacciosa. Si andò al Quirinale con un cannone a domandare la lega italiana. Alcuno degli Svizzeri di guardia sparò una schioppettata da una finestra del palazzo. Federico Torre si pose col petto davanti alla bocca del cannone per impedire ai cannonieri suoi amici di rispondere con quello alla provocazione; ma molti cittadini andarono a prendere dei fucili, e tornati con quelli alla piazza del Quirinale lanciarono diverse palle contro il palazzo, una delle quali uccise un prelato chiamato monsignor Meglia. Fu una microscopica imitazione della giornata del 10 agosto 1792 a Parigi. Quest'avvisaglia di Roma però ebbe delle conseguenze diverse, pur gravi ancora, anzi gravissime, non tanto sul terreno politico quanto sul terreno religioso, perchè gettò il capo della Chiesa cattolica nel campo dell'estrema reazione; di che venne il Sillabo, e la dichiarazione della infallibilità.
Tuttavia, in quel giorno 16 di novembre, cedendo momentaneamente alla violenza del torrente popolare, Pio IX affidò il ministero a Giuseppe Galletti, nome assai popolare; ma divisò sin d'allora d'allontanarsi da Roma.
Cadevano le foglie autunnali nel giardino del Quirinale; tramontava il sole del 24 novembre 1848, mentre Pio IX, vestito da semplice sacerdote, fuggì per una porta laterale del palazzo Quirinale. Per notar qui uno dei moltissimi rapporti cronologici che legano la storia antica alla moderna, rapporti forse d'origine misteriosa, ma certamente utili alla memoria, dirò che, mediante il calcolo di un'ecclissi di luna mentovata da Plutarco nella vita di Romolo, si rileva che il giorno della fuga di Pio IX fu il ventesimo sesto anniversario del 21 aprile secondo il calendario albano, dell'anno 753 avanti l'Era volgare, il quale, ridotto al calendario attuale, trovasi essere stato il 24 novembre 3248 dell'Era Adamitica o massonica, nel quale il giovine Romolo poscia chiamato Quirino, fondò la città di Roma.