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Nel giorno 21 gennajo si fecero, per suffragio universale di tutti i maschi di non minore età che 21 anni compiti, ed a scrutinio di lista per provincie, le elezioni per un'Assemblea Costituente in tutto lo Stato romano. Erano eleggibili tutti i cittadini di venticinque anni compiuti. La mia nativa provincia di Bologna, la quale era la prima per popolazione in tutto lo Stato, nominò 24 rappresentanti del popolo, ossia deputati: dei quali, per numero di voti ottenuti, Carlo Rusconi, che divenne poi ministro della Repubblica, fu il primo, io il secondo, Carlo Berti Pichat il terzo, Rodolfo Audinot il quarto.
Ci adunammo per la prima volta pubblicamente nella grande aula del palazzo della Cancelleria, in Roma, nel giorno 5 di febbrajo. Eravamo nel numero di 140, fra i quali eravi Giuseppe Garibaldi; ma il numero totale degli eletti era 200. Il seggio presidenziale, per voto dell'Assemblea, fu costituito di un presidente, un vicepresidente, quattro segretarii e due questori. Giuseppe Galletti fu nominato presidente, Carlo Bonaparte vicepresidente: io fui uno dei segretarii.
In una seduta secreta, e perciò di semplice discussione senza deliberazione, si studiò il grave quesito della forma da doversi dare al nuovo Stato. Tre diverse proposte furono ventilate: governo provvisorio, regno costituzionale, repubblica. Prima ancora di ricever le notizie di che or ora dirò, la maggioranza dei deputati era già inclinata a ritenere come la peggiore delle tre proposte, la prima, cioè la provvisorietà del governo; migliore di tutte la terza, cioè la repubblica. Io dissi che la repubblica, in teoria, è la forma di governo maggiormente conforme alla ragione ed alla giustizia, ma che praticamente, nel caso nostro, l'indipendenza e l'unità nazionale dell'Italia, erano cose di una importanza superiore ancora a quella di una od altra forma di politico reggimento. Carlo Alberto, per isventura, era divenuto così impopolare a cagione dell'avere abbandonato Milano ed accettato l'armistizio Salasco, che era assolutamente impossibile il proporlo per re d'Italia. Peggio ancora il papa, il re di Napoli e i duchi di Modena e di Parma. Rimaneva il granduca di Toscana; doversi pensare se la fusione dello Stato Romano e della Toscana in un sol regno costituzionale potesse per avventura divenire un nucleo prezioso dell'unità politica di tutta l'Italia. Tal fu, nella sostanza, il mio discorso. Ma mentre si discuteva, giunse la notizia che Leopoldo II era partito per andare a raggiungere il papa a Gaeta. Troppo chiaramente adunque diveniva impossibile ancor egli qual re d'Italia. Altra grave notizia sopraggiunse per via segreta. L'intervento delle potenze cattoliche contro di Roma, per restaurarvi il governo temporale del papa, senza opposizione per parte delle potenze non cattoliche, era cosa stabilita e decisa, checchè noi facessimo, repubblica o non repubblica.
Allora divenne palese a me, come alla maggior parte de' miei colleghi, la logica necessità di proclamare la repubblica. Bisogna dunque, io dissi a me stesso e agli altri, respingere i timidi e mezzani temperamenti. L'audacia è per noi l'unica via di possibile scampo. Che se perir si deve, si perisca almeno con una bandiera pura da ogni sembianza di compromesso o di paura; si finisca in un modo degno dei nostri antenati Romani. Apparecchiamoci ad una difesa disperata ma gloriosa, la quale lasci al popolo italiano il desiderio e la speranza, quindi ancora la forza, di una risurrezione.
Per la qual cosa, nella notte dal 7 all'8 di febbrajo, mi diedi a studiare la miglior forma che trovar potessi per una concisa legge da chiamarsi il «Decreto fondamentale della Repubblica Romana.» Altri senza di me non avrebber mancato di propor la Repubblica; mi stava a cuore di prevenirli per risparmiare il tempo che di leggieri poteva esser gettato via nel discutere uno dei soliti disegni lunghi e complicati, che dicono in parte più del bisogno, e per altra parte amettono cose necessarie. Accordatomi pertanto con alcuni colleghi per averne appoggio, la mattina del giorno 8 di febbrajo proposi all'Assemblea Costituente il seguente decreto in cinque articoli:
I. Il papato è decaduto di diritto e di fatto dal governo temporale dello Stato Romano.
II. Saranno date al Romano Pontefice le necessarie guarentigie per l'indipendente esercizio del suo potere spirituale.
III. La forma di governo dello Stato Romano sarà la Democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana.
IV. Le relazioni della Romana Repubblica colle altre provincie italiane saranno decise dalla Costituente Italiana.
V. Gli sforzi della Repubblica Romana mireranno principalmente a promuovere il benessere morale e materiale di tutte le classi della popolazione.
Fuvvi una lunga ed animata discussione, alla quale presero parte molti oratori: Garibaldi con pochissime e laconiche parole: più a lungo Savino Savini, Agostini, Masi, Bonaparte, Filopanti, Rusconi, Sterbini, Vinciguerra, Gabussi, Armellini, Saffi, Montecchi: tutti in favore della Repubblica; Mamiani, Audinot, Ercolani, in contrario. I due più eloquenti furono Terenzio Mamiani ed Aurelio Saffi. Il discorso di Mamiani fu lo sviluppo di questo dilemma; qui non è possibile che Cola di Rienzi, od il papa. Non potete nè dovete prender Cola di Rienzi: rassegnatevi dunque a chiamare il papa. Il discorso di Saffi, il mio e quelli degli altri che parlarono in favore della Repubblica, riassumevansi nel rovesciare il dilemma di Mamiani, conchiudendo, all'opposto di lui: Papa no; dunque Rienzi. Bonaparte, impallidendo, terminò il suo discorso con queste parole:
«Sento sotterra le ombre dei vostri antenati che vi domandano la Repubblica.»
A me premeva di far notare la legittima e logica discendenza della nostra rivoluzione Romana dalla repubblica Romana antica e dalla moderna rivoluzione Francese; per la qual cosa, avendo già accennato all'antica e gloriosa Repubblica colle parole del terzo articolo del proposto decreto, ricordai la rivoluzione francese ripetendo la notissima esclamazione di Danton: Audacia, audacia, audacia!
Il primo articolo, cioè la caduta del poter temporale, fu approvato quasi unanimemente, con soli cinque voti contrarii, fra centoquarantatrè deputati presenti. Il secondo articolo, relativo alle guarentigie dell'indipendenza del capo della Chiesa Cattolica nell'esercizio della sua potestà religiosa, era dettato da sana politica egualmente che dalla giustizia, non essendo che un corollario del principio dell'universale libertà di coscienza e di culto. Ancor esso perciò fu quasi concordemente approvato, eccettuata una lieve modificazione nella forma. Dal terzo articolo dissentirono ventidue deputati. La sua approvazione riuscì quindi a forte pluralità, e fu fragorosamente applaudita dalle pubbliche tribune.
Nel quarto articolo si volle soppressa la menzione della Costituente Italiana, superiore, nel mio concetto, alla locale Assemblea Romana. Fu sostituita la seguente forma troppo vaga:
«La Repubblica Romana avrà col resto d'Italia le relazioni che esige la nazionalità comune.»
Il quinto ed ultimo degli articoli da me proposti, il quale mirava ad una specie di blando e generico, ma giusto, necessario e doveroso socialismo, fu respinto. Non ebbe a suo favore che due voti: il mio e quello di Carlo Bonaparte.
Il complesso del decreto fondamentale, ridotto così a quattro soli e concisi articoli, fu approvato da centoventi rappresentanti. Undici altri votarono pel no; dodici dichiararono di astenersi.
Erano le due del mattino del giorno 9 febbrajo 1849, quando fu compiuta, per appello nominale, la votazione. Dalle stipate tribune pubbliche, e dalla folla che estendevasi anche fuori dell'aula legislativa, proruppero con entusiasmo gli applausi e le grida: viva la Repubblica; le quali si ripeterono per le vie della città anche nella notte stessa. Tuonò per segno di pubblica gioia il cannone della mole Adriana, suonò la campana dal Campidoglio: i corpi di guardia furono illuminati. A mezzogiorno Giuseppe Galletti, presidente dell'Assemblea, lesse alla folla del popolo plaudente il decreto fondamentale della Repubblica Romana dal verone del Campidoglio. Quel semplice decreto tenne luogo di costituzione della repubblica, per tutto il tempo che essa durò. Un più sviluppato Statuto nominale, con sessantanove articoli, fu più tardi, e lungamente elaborato da una commissione, con Cesare Agostini per relatore, e sommariamente votato dall'Assemblea, quasi a guisa di un'indiretta protesta, negli estremi istanti della repubblica, cioè il giorno 3 di luglio, quando i Francesi erano già padroni di tre porte della città.
Nei giorni che immediatamente precedettero la proclamazione della repubblica, lo stato era retto da un ministero nominato dalla rivoluzione, prima della convocazione dell'Assemblea, ed erano presidente un dotto e liberale prelato: Carlo Muzzarelli. Il più abile e stimato ministro era l'avvocato Carlo Armellini. Dopo lo stabilimento della Repubblica, l'Assemblea Costituente e sovrana creò un magistrato supremo della repubblica, composto di tre membri, i quali perciò si chiamarono i triumviri, nelle persone di Armellini, Saliceti e Montecchi, e nominò otto ministri colle ordinarie attribuzioni ministeriali. Il ministro dell'interno fu Aurelio Saffi.
Parve a me che la novella repubblica, avendo tanti nemici vicini e lontani, non dovesse por tempo in mezzo per distruggere il più vicino, ed uno dei più pericolosi, che era il re di Napoli. Bisognava mettergli sossopra il reame, ciò che l'avrebbe indotto a pronta fuga, chiamare a libertà e ad unione italica il suo popolo, e trarne un possente e prossimo avviamento e mezzo alla formazione dell'intero fascio nazionale. Io voleva insomma eseguito sin d'allora l'ardimentoso concetto che Garibaldi recò ad effetto undici anni più tardi. L'impresa dell'invasione e liberazione del regno di Napoli, colla Repubblica Romana per base, sarebbe stata di un riuscimento molto più facile ancora che nol fu la spedizione dei mille nel 1860.
Ma era necessario prepararla in segreto. Ne parlai ai triumviri, ed ebbi la fortuna di persuaderli; ma per un sentimento di delicatezza che più tardi conobbi essere stata intempestiva, mi trassi in disparte. Montecchi, in nome suo e dei suoi due colleghi triumviri, disse all'Assemblea, in seduta segreta, che abbisognavano di una somma di trentamila scudi (centocinquantamila franchi) per un uso che eglino stimavan buono, ma tale da non potersi convenientemente palesare a tutta l'Assemblea. Nominasse ella una commissione la quale riceverebbe la comunicazione col vincolo del segreto, ma darebbe il proprio parere all'Assemblea, se la somma doveva accordarsi o no. Furon nominati a tal uopo Galletti, Gabussi e Serpieri; i quali, ritrattisi in luogo appartato, appresero trattarsi di una spedizione armata nel regno di Napoli dal lato degli Abbruzzi, onde sollevare in quelle provincie la rivoluzione. Dietro il favorevole parere di questa commissione, l'Assemblea, con lodevole atto di fiducia, votò la chiesta somma, senza sapere a che servir dovesse.
Ma il triumvirato si valse dell'ottenuta facoltà con somma inettitudine. In abili mani la somma domandata e concessa, benchè piccola, avrebbe bastato all'uopo. Invece però di affidar il carico dell'impresa all'uomo più capace di condurla a prospero fine, cioè a Garibaldi, i triumviri perdettero il tempo ad arruolare, di là dall'Adriatico, tremila Albanesi, dei quali niun bisogno vi era, e che fortunatamente mai non vennero, perchè avrebbero nociuto più che giovato. Giunto Mazzini al potere, pensò di dare, a quanto restava della somma, un'altra destinazione secreta, ed egualmente sbagliata, cioè a promuovere un'insurrezione a Parigi, la quale abortì un po' più tardi, il 13 di giugno.
Nel primo mese della Repubblica Romana, era potente l'influenza indiretta di Mazzini, ma il grande agitatore non era personalmente presente; egli trovavasi a Firenze, dove con poco frutto consigliava la proclamazione d'una Repubblica Toscana, od una fusione colla Repubblica Romana. Fu attraversato nell'uno e nell'altro intento, e non favorito come avrebbe dovuto esserlo, dal dittatore Guerrazzi. Giunto a Roma Mazzini, benchè non ancora deputato, fu, per un atto straordinario di stima verso di lui, ricevuto dall'Assemblea nel giorno 6 di marzo, ed invitato dal vice presidente Bonaparte, il quale in quel giorno presiedeva l'adunanza, ad assidersi al suo fianco. Mazzini parlò all'Assemblea, e disse che il nome di Roma consigliava ed imponeva cose grandi. Dopo la Roma dei Cesari, e dei Papi, dovervi essere la Roma del Popolo. Forse per non avervi abbastanza pensato, omise la Roma repubblicana, non solo più virtuosa, ma più potente che la Roma dei Cesari. Pochi giorni dopo, Mazzini fu dagli elettori della provincia Romana nominato rappresentante del popolo, ossia deputato.
Per potergli conferire quel più alto ufficio che tutti comprendevano convenirglisi, i triumviri abdicarono, e l'Assemblea nominò un novello triumvirato composto di Mazzini, Armellini e Saffi, nel giorno 20 di marzo.
La nuova scelta dei triumviri Romani era la migliore che allora potesse farsi: ma il giorno fu per un'altra parte infausto all'Italia, perchè in quel medesimo giorno cominciarono in Piemonte, contro l'Austria, le ostilità che condussero alla battaglia di Novara. Il ministero di Rattazzi a Torino cedette troppo sollecitamente alle impazienze del partito democratico, nel denunciare la fine della tregua di Milano prima d'essere abbastanza preparato a rinnovare la guerra; e troppo poco diè ascolto ai più savii consigli, della Democrazia stessa e dell'Italia, di prender innanzi tratto i necessari concerti colla Toscana e colla Repubblica Romana. Gli stessi errori e le stesse colpe che partorirono i disastri del 1848 trascinarono ad una fine egualmente luttuosa, e più sollecita ancora, la riscossa del 1849: diffidenza contro l'elemento popolare, avversione a domandar un ajuto francese, e dimenticanza, presso i generali, delle più elementari regole della strategia.
Chiodo, ministro della guerra per Carlo Alberto, allestì un esercito di novantasette mila uomini, compresi tredici nuovi reggimenti di Lombardi, Parmigiani, e Modenesi. Ben condotta, questa accolta di quasi centomila uomini poteva bastare all'uopo, perocchè l'Austria era al medesimo tempo impegnata nella guerra contro l'Ungheria e contro Venezia. Però una gran parte dell'esercito raccolto dal general Chiodo consisteva in vecchi soldati, stanchi e disanimati dalla precedente campagna, e malvolontieri distaccati dalle loro mogli e figli. Improvvida pure fu la scelta del comandante supremo Czarnowsky. Era stato offerto il comando a diversi generali francesi, ma l'avevano ricusato. Czarnowsky erasi acquistata una qualche rinomanza, ma non molto incoraggiante, nella guerra della rivoluzione di Polonia, dove era stato sfortunato, ed aveva persino eccitato qualche sospetto di tradimento, come sogliono eccitarlo, per lo più ingiustamente, i condottieri sfortunati. Meglio sarebbe stato affidar il comando al Bava, o ad alcun altro dei generali Piemontesi, dei quali nessuno eravi di grande abilità, ma almeno avevano patriotismo, coraggio, e cognizione dei luoghi e delle persone. A Ramorino, altro generale sfortunato e sospetto nella guerra Polacca del 1831, sfortunato pure nel tentativo Mazziniano in Savoja nel 1834, fu affidato il comando della legione lombarda.
Il campo Piemontese fu inondato da bollettini a stampa, alcuni dei quali dicevano: «Soldati, voi fate la guerra pei Lombardi che vi tradiscono;» altri dicevano: «mentre voi combattete, la Repubblica si proclama in Torino;» ed altri ancora: «il Re è tradito dai demagoghi.» Questi detestabili e vili artifizii, per isparger lo scoraggiamento nelle fila dell'esercito, furono comunemente, ma ingiustamente a parer mio, attribuiti alle mene delle sagrestie, o dei dorati saloni dell'aristocrazia; od anche delle anticamere della reggia. L'intrinseca probabilità delle cose, e la cognizione storica del fatto, generale e non eccezionale, che le guerre si vincono non solo per mezzo del ferro e del piombo ma ancora per mezzo dell'oro, adoperato in palese ed in segreto, mi fan credere che quegli infami bullettini siano stati pagati dall'oro austriaco.
Czarnowsky, dal canto suo, rinnovò il solito error capitale dei generali italiani del nostro tempo, di dividere le proprie forze in guisa che non siano in posizione di soccorrersi le une le altre con una sola marcia.
Infatti Lamarmora era alla destra del Po; Ramorino, coi Lombardi, fu mandato alla Cava, dove il Ticino si unisce col Po; Giovanni Durando, ed il duca di Savoja, il futuro re Vittorio Emanuele, schierarono le loro truppe vicino a Mortara; Czarnowsky, col re Carlo Alberto e col corpo principale dell'esercito, si pose nelle vicinanze di Novara.
Radetzky seguì le regole elementari, ma buone, della strategia. Manovrando abilmente alla sinistra del gran fiume, andò prima con tutte le sue soldatesche a schiacciare la legione Lombarda alla Cava, nel giorno ventuno; passò nel seguente giorno a disfare presso Mortara, il corpo capitanato da Durando e da Vittorio Emanuele; ed infine, nel giorno 23, si accinse a combattere il principal corpo Piemontese presso Novara.
Nondimeno la battaglia di Novara propriamente detta ebbe diverse vicende, le quali avrebber potuto dar la vittoria agl'Italiani, se fosser stati meglio comandati.
Il general d'Aspre, francese d'origine, ma Austriaco di servizio e d'animo, cominciò l'attacco alle undici del mattino. La posizione della Bicocca, difesa dapprima dal general Perrone, poi dal duca di Genova, fu presa e ripresa sino a quattro volte. Ad un certo momento l'Aspre era sconfitto sopra tutta la linea, e circondato. Inevitabile era la sua perdita, e ne sarebbe forse seguita quella di tutto l'esercito imperiale, se il duca di Genova avesse seguito il suo proprio impulso di continuare la marcia innanzi, ed il generale in capo l'avesse secondato. Ma Czarnowsky, pel chimerico timore o preteso pericolo di esser avviluppato a destra, diede al duca di Genova il fatale ordine di tornarsene indietro.
Gli Austriaci, preso animo da quell'inaspettato movimento retrogrado dei Piemontesi, tornarono all'attacco. I valorosi generali Passalacqua e Perrone furono uccisi in persona. Il non men prode duca di Genova ebbe più d'un cavallo ucciso sotto di lui; ma i suoi soldati cominciarono a vacillare, indi a sbandarsi. A grado a grado il disordine si propagò, e la maggior parte dei soldati piemontesi si ritrassero entro Novara. Affamati, pel solito errore o delitto di tardiva distribuzione dei viveri, invece di prepararsi alla difesa della città si diedero a saccheggiar le case. Tale si fu il turpe e luttuoso esito della battaglia di Novara. Carlo Alberto aveva cercato invano la morte nella mischia. L'indomani, 24 marzo 1849, egli abdicò in favore di suo figlio Vittorio Emanuele, e recossi, col cuore affranto, a finire i suoi giorni ad Oporto in Portogallo. A Czarnowsky furono fatti dei semplici rimproveri, in luogo della punizione che meritava. Ramorino ebbe un processo che lo condusse alla fucilazione.
Brescia, una delle più illustri città italiane per patriotismo nazionale, insorse, e sostenne per cinque giorni il bombardamento; ma infine fa costretta a piegar di nuovo il collo all'odiato giogo straniero. La notizia di tutte queste sventure sparse la costernazione per tutta l'Italia, ed anche in seno all'Assemblea Romana. In una seduta secreta si presentarono a noi il Castellani, legato della Repubblica di Venezia, e Lorenzo Valerio mandato dal Parlamento subalpino. Il Valerio raccontò piangendo il disastro di Novara, ma ne dipinse meno gravi del vero le conseguenze militari. Tanto egli quanto l'inviato Veneto, domandarono all'Assemblea Romana alleanza ed ajuto.
L'Assemblea non diede risposta sfavorevole; se non che la nostra piccola Repubblica, con tre soli milioni d'abitanti, era ornai costretta a pensare alla sua propria difesa. Si rumoreggiava già di una coalizione retrograda a nostro danno, e d'una preparata invasione dei nostri confini da più parti contemporaneamente. Ma l'attitudine del popolo, delle milizie, dell'Assemblea costituente e del triumvirato, era quale esser doveva. La mente direttrice era quella di Mazzini. Egli però non ebbe campo di spiegare alcuna straordinaria abilità governativa, perchè non ve n'era il bisogno. La macchina amministrativa camminava mirabilmente da sè, tanto nella capitale che nelle provincie. Quasi tutti i comuni fecero degl'indirizzi patriotici ed affettuosi alla Repubblica, e si dichiararono pronti a sostenerla contro la minacciata estera prepotenza. Solamente vi furono alcune mosse di contadini reazionarii nella provincia di Ascoli, e dei disordini alquanto più gravi di cattivi repubblicani ad Ancona. Pretendevano di correggere i retrogradi col coltello. A reprimerli fu mandato dapprima inutilmente Bernabei, indi con pieno successo l'energico Felice Orsini.
Altro quasi non rimaneva a fare ai triumviri, ed altro veramente non fecero, che secondare, più ancora che dirigere, le buone disposizioni che già vi erano, nell'Assemblea, nella milizia e nel popolo, di difender la Repubblica contro l'invasione straniera. Mazzini meritò lode ancora per una moderazione e temperanza che altri non si sarebbe di leggieri attesa dal celebre cospiratore. Io fui presente una volta ad una udienza ch'egli diede a taluni i quali venivano da una città di provincia a domandargli di far imprigionare certi retrogradi che cospiravano ai danni della Repubblica. Raccogliete, lor disse Mazzini, le prove della lor reità, ed i tribunali li giudicheranno. Ma, ripigliavano gl'inviati, allorchè i retrogradi governavano non avevano siffatti scrupoli a favor nostro. — Ed appunto perchè non avevan tali riguardi per la giustizia, conchiudeva Mazzini, i passati governi meritavano di cadere, e son caduti. Non vogliamo, noi, camminare sulle loro traccie.
Per verità le cospirazioni all'interno contro la sicurezza della Repubblica, pur ammesso che ve ne fossero, erano di una evidente impotenza. Ben più formidabili erano gli apparecchiamenti ostili all'estero. Il fuggitivo pontefice promosse ed affrettò l'invasione del territorio della Repubblica Romana dagli eserciti di quattro potenze: Francia, Austria, Spagna e Napoli.
Primi si mossero i Francesi. Imbarcatisi a Tolone, in numero di nove o dieci mila, e condotti dal generale Oudinot, vennero a Civitavecchia, e l'occuparono senza incontrar resistenza, per la fallace lusinga che venissero quali amici in nostro ajuto. Cadde la benda dagli occhi degl'Italiani quando i Francesi fecero prigioniero il battaglione Mellara. Ma il valoroso colonnello Mellara, con italiana astuzia deluse la vigilanza de' suoi custodi, e se ne venne a Roma con alcuni de' suoi soldati; inermi bensì, ma qui trovarono armi. Allora la popolare credulità creò un'altra leggenda, opposta alla prima che sperava in Oudinot un nostro amico. Si pretese che fossero usciti dal suo labbro questi accenti di sprezzo: gl'Italiani non si battono. Appena uno dei più ignoranti fra' suoi caporali avrebbe potuto parlar così; non il figlio di un maresciallo di Napoleone, il quale aveva avuto sott'occhio le prove di valore fatte dagl'Italiani nella Spagna ed in Russia.
Per altro le leggende, antiche o moderne, han sempre qualche lato di verità. Avevano dato falsamente a credere ad Oudinot che i Romani aspettassero con bramose braccia il ritorno del Papa. La precisa verità è questa: la difesa di Roma fu sostenuta principalmente da Italiani non Romani, ma con qualche cooperazione reale e spontanea, benchè non generale nè entusiastica, dei Romani. All'accostarsi dei Francesi, alla fine di aprile, persino le donne dei rioni più popolari, e specialmente del Trastevere, si chiarivano avverse agli stranieri. La stanchezza poi di due mesi di lotta prolungata, cangiarono alquanto le disposizioni degli animi. L'ingresso dei Francesi, ed il rialzamento degli stemmi pontifici, furon veduti con indifferenza o con poco rammarico dagli uomini, con favore dalle donne; non però con giubilo neppure da parte loro.
Prima di accingermi alla narrazione dei combattimenti che nacquero all'arrivo dei francesi nella giornata del 30 aprile, e di quelli che si rinnovarono più sanguinosi ancora nel susseguente giugno, ne descriverò brevemente il teatro. Sussistono tuttora alcuni imponenti avanzi delle mura erette, sotto Servio Tullio sesto re di Roma; e dall'ampiezza dello spazio abbracciato si scorge che i costruttori avevano più in vista la grandezza della Roma futura che quella della Roma loro contemporanea. Tuttavia il recinto della città fu più volte ampliato. Le presenti mura merlate e turrite, alla sinistra del Tevere, sono opera dell'imperatore Aureliano; quelle a destra, tutte disposte in regolar forma di bastioni ad angoli salienti e rientranti, sono più recenti, ed opera dei papi.
Il dotto antiquario Nibby, calcolò che il circuito moderno di Roma, compresi i risalti delle torri, ma non curando le minori anfrattuosità dei bastioni, eguaglia sedici miglia romane, e mezzo: ma misurando col compasso sulla mappa la frastagliata linea delle mura di Roma, comprese tutte le parti sporgenti e rientranti, si trova in totale la notabil lunghezza di 22 miglia romane da 75 al grado, o circa 33 chilometri. Questo sarebbe il contorno d'un circolo con sette miglia di diametro. Quantunque l'area di Roma sia lungi dall'adeguare un circolo di tal diametro, a cagione della forma irregolare e degli angoli sporgenti e rientranti, ma specialmente per le grandi appendici spinte infuori, del Vaticano a destra e del castro Pretorio a sinistra, Roma ha tuttavia un'estensione molto grande entro le mura: della quale la minor parte è occupata dalle abitazioni. Il resto è vigne, orti e giardini. La presente popolazione oltrepassa di poco le trecentomila persone; nel 1849 ne aveva 180,000, non compresi i forestieri.
Roma ebbe già un maggior numero di porte di quelle che ora ha: oggi ne ha dodici, cioè otto alla sinistra del fiume, e quattro alla destra. Queste quattro meritano di essere qui nominate, perchè sono in ispecial modo legate alla storia della guerra del 1849. Incominciando dalla più vicina alla parte superiore del Tevere, e terminando colla più vicina al mare, i 1or nomi son questi: porta Angelica, porta Cavalleggieri, porta San Pancrazio, e porta Portese, antica porta Portuensis. Essendo tutto a colli il terreno entro Roma e attorno ad essa, le mura furon poste giudiziosamente presso le creste; le porte nei divallamenti fra colle e colle; ma esse rimangono tuttavia alte per lo più di molti metri sulle ripe del fiume, eccettuate le quattro più vicine al fiume stesso, che sono porta Angelica e porta Portese a destra, porta del Popolo e porta San Paolo a sinistra. Nel 1849 i Francesi attaccarono in modo diretto le mura a destra del Tevere, e principalmente la porta San Pancrazio, essendo quella che conduce a Civitavecchia; la quale città, col suo porto, formava la lor base.
La campagna Romana è generalmente squallida, per colpa della mala coltivazione: ma la zona aderente alle mura, dentro e fuori, contiene le ville dei numerosi principi romani, eredi delle private fortune dei papi. Le ville romane sono giardini vasti, eleganti, e superbi per copia di alberi e di fiori, principalmente rose, e per gli adornamenti architettonici e scultorii. Vastità, magnificenza e bellezza si ammirano in particolar modo nella villa Panfilia, fuori di porta San Pancrazio, e nel giardino pontificio del Vaticano entro le mura e dietro alla basilica ed al palazzo, fra le porte Angelica e Cavalleggieri. Il terreno attorno al giardino, fuori delle mura, porta il singolar nome di Valle dell'Inferno. Ora il terreno dai Francesi occupato nella giornata del 30 aprile, di che or ora dirò, fu la Valle dell'Inferno, ed il fronte d'attacco furono le mura, molto sporgenti in fuori, che circondano i giardini vaticani; ma durante l'assedio più regolare sostenuto da Roma nel mese di giugno, di che parlerò poi, la lotta fervette particolarmente nello spazio interposto fra la villa Panfili e la porta di San Pancrazio. Ivi erano pure le belle benchè più piccole ville dei Quattro venti e del Vascello. Io che presi qualche parte a quei combattimenti, negl'intervalli fra le sedute dell'Assemblea, feci più volte la melanconica riflessione che quello era forse il più bel campo di battaglia che mai sia stato al mondo, e che conseguentemente, pur troppo, il terreno non rosseggiava soltanto pei fiori, ma ancora per le stille di sangue umano.
La soldatesca di Oudinot, sbarcata a Civitavecchia, componevasi, come già dissi, di circa novemila uomini. Lasciatane una piccola porzione a guardare quella città alle sue spalle, egli arrivò col resto sotto Roma nel mattino del 30 aprile. Le forze nostre, numericamente, erano press'a poco eguali alle sue. Le comandava il generale Avezzana, ministro della guerra. Garibaldi aveva l'immediato comando della sua legione composta di un duemila e settecento uomini. Altrettanti ne comandava il dottor Luigi Masi, giovine buono e simpatico, ed anche valente poeta improvvisatore per occasione. Può dirsi in qualche guisa che la rivoluzione lo improvvisò generale, poichè, capitano della Guardia nazionale alla creazione di essa nel 1847, divenne generale nel 1849. La legione Romana, ed un avanzo della linea pontificia, in tutto quasi duemila uomini, erano sotto gli ordini del colonnello Bartolomeo Galletti, altro giovine simpatico ed avvenente. Avevamo anche un minuscolo corpo di cavalleria, trecentoquattro uomini ed altrettanti cavalli, sotto il comando del colonnello Savini. A questi debbonsi aggiungere cinquecento carabinieri o gendarmi, a piedi ed a cavallo, comandati dal generale Galletti, presidente dell'Assemblea; altrettanti artiglieri comandati dal Calandrelli, e quattro centocinquanta zappatori del Genio. Secondo il computo del Gabussi eranvi in tutto novemila e trenta uomini sotto le armi. I seicento bersaglieri lombardi di Luciano Manara trovavansi bensì in Roma, ma non preser parte al combattimento del 30 aprile, essendo legati dalla data parola di non combattere prima del 5 maggio. Il biondo poeta Masi, e i due Galletti, non avevano che uno scarsissimo patrimonio di scienza e pratica militare; nondimeno fecero in quel giorno tutti e tre eccellente prova.
Sin dal principio del mattino, Garibaldi e Masi eransi postati fuori porta San Pancrazio, aspettando l'arrivo dei francesi, per attaccarli di fianco, mentre venivano per la via Aurelia che estendesi da Civitavecchia sino alla porta Cavalleggieri. Il colonnello Galletti col suo reggimento stava dentro le mura presso la porta San Pancrazio, come riserva. Un altro avanzo di vecchia linea pontificia, i carabinieri, la guardia nazionale, e i volontarii occasionali della giornata, presero posto pure entro la città, ma sulle mura che circondano l'ampio giardino del Vaticano.
Da quella parte cominciarono i francesi il loro attacco, coll'artiglieria postata sopra un'eminenza esterna, e coi tiratori di Vincennes imboscati fra i cespugli. Dopo queste avvisaglie si accostò la fanteria di linea, e temerariamente tentò la scalata delle mura, ma fu obbligata a retrocedere con sua perdita.
Infrattanto uscì dalla porta San Pancrazio la riserva del colonnello Galletti, e unitamente alla legione Masi percosse nel lor fianco destro i francesi. Con maggior impeto sopra di essi piombò Garibaldi. I francesi vacillarono, indi si diedero a ritirarsi con qualche confusione. Un mezzo battaglione, o circa trecento uomini, sotto il comando del maggiore Picard, trovandosi circondati in un casino da Garibaldi, furon costretti ad arrendersi prigionieri. La vittoria dei romani era completa. Nè gravi furono le nostre perdite; un duecento fra morti e feriti. Si calcolò che ai francesi, fra prigionieri, feriti e morti, mancassero in quel giorno quasi mille uomini.
Garibaldi, Avezzana, ed il colonnello Galletti avrebbero voluto inseguire i francesi. Mazzini si oppose, non per considerazioni di ordine tattico, ma politiche. Certa cosa era infatti che, ove anche si fosse distrutto sino all'ultimo fante il piccolo esercito di Oudinot, la Francia aveva una forza dieci volte oltre il bisogno per farne le vendette. La repubblica francese commise il delitto di distruggere la minor sua sorella, malgrado la nostra moderazione e generosità, e ne pagò il fio meritato, perchè i reazionarii francesi, essendo riusciti nella loro spedizione di Roma all'estero, preser baldanza di intraprendere ciò che essi chiamarono la spedizione di Roma all'interno. Mazzini però sagacemente prevedeva che un qualche giorno la Francia diventerebbe la nostra alleata. Tardò quel giorno per ben dieci anni, e venne in un modo non preveduto nè desiderato dal grande agitatore, ma venne.
Fu accettata dall'Assemblea una proposta alquanto strana ma generosa, di Mazzini e di Ercolani, di restituire alla Francia senza condizioni i trecento prigionieri. Nel giorno 7 maggio fu dato un banchetto agli uffiziali francesi liberati, i quali serbarono un prudente e dignitoso silenzio. Dopo il banchetto partirono in compagnia dei loro commilitoni liberati, ma senza armi, e raggiunsero il lor reggimento ed il resto del corpo di Oudinot, che era attendato a Palo, luogo a metà distanza fra Roma e Civitavecchia.
Gli altri storici della Repubblica Romana, Farini, Gabussi, Rusconi, Beghelli, raccontano un incidente di quella marcia dei francesi liberati, nel quale è mescolato il mio nome: lo racconterò ancor io, perchè sebbene sia cosa di piccolissima importanza individuale, è un saggio di alcune generali e perciò importanti disposizioni degli animi umani.
Una gran folla di popolo accompagnava il mezzo battaglione francese liberato, nella sua marcia dalla piazza Colonna alla porta Cavalleggieri, gridando a squarciagola: viva la Repubblica. I francesi continuavano a serbar il silenzio, come a buoni soldati prigionieri si addiceva. Traversavano la piazza Vaticana, la quale, col magnifico peristilio del Bernino a quattro fila di colonne, coll'obelisco egiziano nel centro, colle due grandi fontane che sembran lanciare due perenni torrenti di argento verso il cielo, e col più gran tempio del mondo in fronte, è dal canto suo la più bella e maestosa piazza del mondo. Taluno ebbe la buona e cortese idea di condurre i nostri già prigionieri ora ospiti, a veder l'immensa basilica. Entrammo alla rinfusa, italiani e francesi.
Lo straniero che per la prima volta pone il piede in San Pietro, si accorge tosto che quella è una chiesa più grande e più bella di qualsivoglia altra chiesa da lui prima veduta; ma non gli sembra ancora tanto grande quanto di fatto ella si è. Questo fenomeno avviene generalmente di tutte le cose grandissime: persino al Sole. Ci sembran grandi sin dal principio, ma non al grado in cui veramente lo sono. In San Pietro però, di mano in mano che il novello visitatore si avanza, camminando e pur camminando ancora, avviene che il tempio sembra andar sempre più grandeggiando attorno a lui. Allorchè poi egli arriva sotto la cupola di Michelangelo, ne riceve un'impressione come se al di sopra del suo capo si espandesse all'improvviso la volta dell'Empireo.
Io attesi che tutti fossero fermi e quasi assorti in estatica contemplazione; indi con alta e robusta voce, ed in lingua francese, abbastanza intesa anche dalla maggior parte degl'italiani, dissi così: Cittadini italiani e francesi, in questo luogo sacro e sublime, preghiamo l'Onnipossente per la salute e la libertà di tutti i popoli dell'Universo. Detto ciò, posi un ginocchio a terra, ma mi rialzai prima degli altri, e volsi gli occhi in giro. Vidi che erano tutti inginocchiati. Duolmi di dover pensare che il naturale esito di una tale esperienza oggi sarebbe diverso.
In ricambio del mezzo battaglione da noi restituito, Oudinot ci restituì, ma egualmente disarmato, il battaglione Mellara, fatto prigioniero per sorpresa a Civitavecchia, ed il cappellano di Garibaldi, Ugo Bassi. Lo avevano preso mentre nell'esuberanza della sua bella ma poco riflessiva anima si era inoltrato in mezzo alle schiere francesi per esortarle a non combattere contro la Repubblica Romana.
Poco dopo la giornata del 30 aprile, onorevole e fortunata per Roma, gli austriaci giunsero sotto Bologna. Dieder principio alle ostilità assalendo la porta di Galliera, e furon respinti; ma per adescare i bolognesi ad una sortita, gli austriaci lasciarono sulla strada un cannone, e si appiattarono nelle case del sobborgo. I popolani inesperti domandarono al colonnello Boldrini di condurli alla cattura del pezzo abbandonato. La vecchia esperienza del Boldrini subodorò l'insidia, e ne avvertì i popolani; ma, rampognato ingiustamente di timidezza, uscì e fu ucciso insieme con Marliani, e con altri valorosi imprudenti. Nella sera di quello stesso giorno, come in quella dell'8 agosto 1848, chiamati dal rombo del cannone, accorsero in ajuto dei bolognesi alcuni valorosi delle vicine terre, specialmente da Budrio e da Medicina.
Altri animosi bolognesi, ed in gran numero, stavan lungi dalla loro città, essendo corsi in difesa di Venezia o di Roma. L'indomani dell'assalto a porta Galliera, la commissione di difesa, composta d'uomini inetti o codardi, disse al municipio non potersi più oltre difendere la città; abbastanza essersi fatto per salvarne l'onore. Ma non così la pensavano i più generosi popolani, i quali costrinsero la municipalità a consegnar il potere al professor Antonio Alessandrini, insigne scienziato, ed uomo saggio e virtuoso. Sotto la direzione di lui la città continuò a difendersi onorevolmente per altri sette giorni. Intanto gli austriaci, non solo dalla pianura, a ponente, settentrione e levante, ma ancora dai colli di San Michele in Bosco, dell'Osservanza e della Villa Baruzzi, che dominano la città a mezzogiorno, piovevano sopra di essa d'ogn'intorno, coi cannoni e coi mortari, una fiera grandine di projettili pieni ed esplosivi. La resa avvenne, con patti abbastanza decorosi, nel giorno 16.
Simile fu la sorte di Ancona, ma con una difesa più lunga, cioè di ventisette giorni. Zambeccari comandava il piccolo ma valoroso presidio; Mattioli era preside, o prefetto; Chierici commissario di guerra: tutti e tre bolognesi. Cominciato l'attacco il 24 maggio, terminò il 20 giugno.
Gli spagnuoli occuparono due punti marittimi del territorio della Repubblica: Fiumicino e Terracina; ma i francesi non permisero ad essi di inoltrarsi fino a Roma volendo riservato a sè stessi l'onore di espugnarla.
Intanto il triumvirato trattava col governo francese, colla lusinga di renderselo amico. Le trattative eran condotte lealmente, e con volontà a noi favorevole, per parte dell'inviato francese Lesseps, futuro autore del taglio di Suez, ma non dal suo governo; laonde a nulla approdarono. Oudinot promise di non attaccare la piazza di Roma prima del 3 giugno.
Il triumvirato, il quale aveva commesso l'errore, come vedemmo, di non portare la rivoluzione e la guerra entro i confini del regno di Napoli prima che scendessero contro di noi le tre altre potenze più formidabili, ebbe almeno il merito di valersi della tregua di qualche giorno lasciataci dai francesi, per mandar il nostro piccolo esercito contro il re di Napoli, quando costui aveva già varcato il confine, ed erasi impadronito della città di Palestrina.
Il comando dell'esercito romano avrebbe dovuto affidarsi al generale Garibaldi; ma anche nelle repubbliche allignano le invidie, e persino qualche cosa che corrisponde alle adulazioni ed agl'intrighi delle corti monarchiche. I più fanatici ammiratori di Mazzini erano gelosi della crescente popolarità di Garibaldi, per timore che non potesse eclissare quella di Mazzini. Il comitato militare consigliò ai triunviri di conferire la carica di generale in capo al colonnello Rosselli, uffiziale rispettabile per la sua virtuosa condotta privata, e per militare dottrina, ma troppo lungi dall'esser paragonabile a Garibaldi. Per altro il comando effettivo, in tutti i successivi fatti d'arme, contro i napoletani e contro i francesi, fu sempre esercitato da Garibaldi.
Dapprima Garibaldi scacciò il distaccamento regio da Palestrina, nel giorno 9 maggio, e prese varii prigionieri, i quali furon condotti a Roma. Garibaldi fece ritorno alla capitale, per unirsi al resto dell'esercito romano sotto Rosselli, e marciare a Velletri, ove il re di Napoli aveva concentrato sedicimila uomini, con cinquanta pezzi di artiglieria.
Non sommavano a tanto le forze di tutto l'esercito di Rosselli, compresi un mille e cinquecento volontarii comandati da Garibaldi. Fra questi merita una menzione affatto speciale una compagnia di fanciulli. Nel 1848 si formò in Bologna un battaglione di fanciulli appartenenti per lo più a civili famiglie, i quali nelle ore lasciate libere dalla scuola, e specialmente nelle domeniche, si esercitavano al maneggio delle armi con piccoli fucili fatti apposta per la loro età. Siccome si suol dire, per ischerzo ed in serio, che gli adolescenti sono la speranza della Patria, così quella diminutiva coorte fu chiamata il battaglione della Speranza. Nell'aprile del 1849, una sessantina in circa di poveri ragazzi bolognesi, volendo emulare e superare i lor coetanei del battaglione della Speranza, si misero in capo di venir a combattere per l'Italia sotto Garibaldi, e lo raggiunsero a Rieti, pochi giorni prima del 30 aprile. Erano laceri anzichenò nel vestito e nella calzatura, e non so se mangiassero per istrada limosinando, o con qualche poco di cibo o di denaro rubacchiato in casa. Presentaronsi al comitato di arruolamento in Rieti, e furono respinti per la lor tenera età. Andarono da Pietro Ripari, medico della colonna Garibaldi, e gli domandarono gravemente di essere ingaggiati. Era tutta gente di dodici in quattordici anni incirca. Ripari, malgrado la sua burbera bontà d'animo, li accolse colle risa; ma essi opposero al riso il pianto, e se ne richiamarono a Garibaldi. Il generale ordinò che fossero ricevuti. Diede quell'ordine per sentimento di umanità, ed anche qualche poco per la sua fede istintiva nei misteri dell'avvenire. Pochi giorni appresso, quei poveri fanciulli dovevano salvargli la vita.
Furono armati di picche, abbigliati di camiciuole operaje, o blouses, e dati ad istruire ad un uomo, il quale per verità non meritava quella carica, più importante che non si credeva. Arrivati col resto della colonna Garibaldi a Roma il 27 aprile, quasi alla vigilia del primo attacco dei francesi, i biricchinelli bolognesi non furori reputati abbastanza istruiti, e molto meno abbastanza adulti per esporli al fuoco nel giorno 30. Pur nondimeno, nei susseguenti giorni, resi più arditi, e non contentandosi più di aver le picche, domandarono dei fucili. — Non ne abbiamo che di quelli della Guardia nazionale: sono più alti di voi, fu loro risposto. — Dateceli ugualmente, dicevano i monelli. — Ma, piccoli sciagurati, come farete voi a caricare e scaricare? — Di questo lasciate a noi il pensiero, replicava quella piccola ed eroica marmaglia. — Ebbero i bramati fucili, ed alteramente marciarono, con quelli sulle spalle, verso Velletri, colla colonna Garibaldi.
L'intero esercito Romano marciava a quella volta per la via Appia. La vanguardia, comandata da Garibaldi, precedeva di un tratto non piccolo, anzi veramente troppo grande, il centro, posto sotto il diretto comando del generale in capo Rosselli. La fortuna, quando è avversa, od anche solo imparziale, difficilmente lascia impuniti gli errori; quando essa ha il capriccio di esserci favorevole a qualunque costo, si può errare impunemente; se non che, potendo essa cangiarsi da un momento all'altro, non è mai da farsi a fidanza con lei, neppur dove ella ci volge il suo più lusinghiero sorriso. Insomma, per parlare in forma più seria, come è serio nella sostanza anche ciò che precede, dico che noi dobbiamo star sempre all'erta, e cercare di non isbagliare giammai, se si può; o di errare il meno che sia possibile.
In quel giorno la sorte favorì la bandiera repubblicana, non ostante la biasimevole imprudenza di Garibaldi, del marciare coll'antiguardo a mezza giornata davanti al centro, in prossimità al nemico.
Giunto ch'ei fu a due o tre miglia da Velletri, Garibaldi fe' sosta. Dispose a scaglioni la sua fanteria a destra della strada maestra, sulle pendici dei colli latini che la dominano, e mandò innanzi come esploratrice, per la strada, la sua piccola cavalleria composta di cento uomini a cavallo. Subito dietro a lui aveva la sua piccola artiglieria, di due pezzi in tutto, e dietro quella il piccolo bagaglio, tirato o portato da muli. Quell'esiguo corpo di cavalleria era comandato da un giovine bolognese, Angelo Masini. Prima del 1848 era il Masini un giovine elegante e dissipato; ma dal giorno nel quale prese le armi sotto Zambeccari, egli cangiò tenore di vita; rimase buono e simpatico, ma rinunziò alle frivolezze; altro pensiero non ebbe che quello della Patria, e mostrò in tutti gli scontri un coraggio ed un'abnegazione cavalleresca, degna degli eroi dell'Ariosto. I suoi cento soldati però erano uomini del comune stampo; non vili nè cattivi, ma non fiore di valorosi al pari di lui.
La battaglia di Velletri, che di lì a pochi momenti cominciò, non fu una al certo delle più micidiali, nè delle più importanti registrate nella Storia, ma ebbe tuttavia una reale e considerevole importanza, in quanto che liberò il territorio Romano dalla presenza delle truppe Borboniche, e dal pericolo di vedervele mai più comparire. Quella battaglia è altresì uno dei fatti più singolari, non solo perchè un drappello di due o tre mila uomini mise in fuga un re alla testa di sedici mila, ma principalmente per questa circostanza, unica nella Storia, che la sconfitta di un così numeroso esercito nemico fu ottenuta in non piccola parte per merito ed opera di una compagnia di fanciulli.
Erano le 8 antimeridiane del giorno 19 maggio 1849. Angelo Masini mandò ratto avviso a Garibaldi che la cavalleria regia era uscita da Velletri, ed avanzavasi di piccolo passo. Non era dunque una semplice escursione di esploratori; la lentezza dei cavalieri borbonici era indizio che eran seguiti dall'infanteria. Di fatto la fanteria napoletana sfilava dalla porta di Velletri, in coda alla cavalleria. Era tutto l'esercito regio il quale veniva a presentar battaglia ai Romani. Garibaldi, dal canto suo, ne spedì sollecito avviso al generai Rosselli, ed egli avanzossi a cavallo verso il luogo donde veniva il nemico.
Masini, il quale forse conosceva appena il nome di Orazio Coclite, aveva però la bravura dell'antico campione Romano; laonde egli fece osservare a' suoi cento uomini che la strada era stretta, e che occupandola serrati gli uni contro degli altri, diventavano pari ai nemici: pochi contro pochi. Ignorava però il principio di meccanica pel quale un corpo fermo non può rimaner tale ricevendo l'urto di un altro corpo: fa d'uopo opporre velocità a velocità; il qual principio è ancora più necessario ad aversi in mente per la cavalleria che per la fanteria. Angelo Masini infilò colla propria spada il maggiore che comandava il primo squadrone di cavalleria regia; ma gli altri cento cavalleggieri Garibaldini voltaron le briglie, e fuggirono indietro. Masini fu costretto a seguirli.
Nel ritirarsi precipitosamente, venivano contro al general Garibaldi, il quale stava fermo a cavallo sulla strada, e faceva lor segno colla mano di fermarsi. Indarno: perocchè l'impeto dei cavalli fuggenti non potè attutirsi in tempo. Arrivarono addosso a Garibaldi, rovesciando lui ed il suo cavallo, ed insieme il suo fedel moro Andrea Aghiar, ed il capitano Bueno, che gli tenevan compagnia.
Garibaldi ne riportò una grave contusione, ma stava per succedere un disastro assai maggiore; conciossiachè, essendo già passata oltre la cavalleria Garibaldina, sopraggiungeva di trotto quella dei napoletani; e se un provvedimento inaspettato non interveniva, l'eroico campione della nazionalità italiana sarebbe stato schiacciato, e trapassato da molte punte nemiche, ovvero fatto prigioniero e fucilato. Ma una fortunata combinazione aveva collocato, proprio a pochi passi davanti al luogo dove il duce fu rovesciato dai cavalli di Masini, la compagnia dei fanciulli della Speranza. Appena essi adocchiarono la caduta ed il pericolo del loro idolatrato generale, non attesero il comando del lor capitano, ma corsero rapidamente giù per la china del colle ove erano schierati. Una parte di essi si posero di traverso sulla strada, fra Garibaldi ed i nemici che arrivavano: voltarono contro di questi i fucili, e fecero una scarica. Gli altri ragazzi che eran rimasti sul pendio del colle, non essendo in tempo ad occupar la strada, fecero fuoco ancor essi, ma dall'alto, colpendo un maggior numero di uomini, nel fitto della cavalleria regia.
Imbattendosi a questo inatteso e grave ostacolo, i cavalleggeri napolitani si fermarono, titubarono alquanto, indi volsero prestamente i cavalli, e corsero indietro a precipizio, andando addosso alla fanteria. Questa pure si fermò, ed invece di spiegarsi a destra e sinistra per combattere, si mise in disordine. Successe uno di quei momenti di parapiglia e di terror panico che alle volte invade anche delle truppe migliori di quella, e vi fu una general fuga per rientrar in Velletri. Molti persino gettaron via gli zaini per potere correre più speditamente.
I fanti Garibaldini adulti, dal canto loro, si fecero innanzi, e dalla strada e dai colli si diedero a fulminare la fanteria e cavalleria Borbonica, le quali, per la ristrettezza della strada, e per la moltitudine e confusione dei fuggiaschi, non potevano correre quanto bramavano.
Garibaldi, senza por mente alle sue contusioni, fece inoltrare tutta la sua colonna, tentando di entrare, se possibile era, nella città, insiem coi borbonici fuggitivi: ma appena entrati, essi furori solleciti a chiuder le porte e guernirono il ciglio delle mura. D'altra parte, gli Svizzeri al soldo borbonico occuparono colle artiglierie la forte ed elevata posizione dei Cappuccini. I Garibaldini, stendendosi per la campagna attorno alle mura, si diedero a tirare contro i regii coi fucili e coi loro due piccoli pezzi di artiglieria, mentre i Napoletani e gli Svizzeri facevan fuoco dall'alto, non solo coi fucili, e coll'artiglieria da campagna, ma ancora coi cannoni da posizione, che avevan preparati per l'assedio di Roma.
Più arditi degli altri soldati di Garibaldi erano i fanciulli bolognesi. Acculando il fucile alla spalla, e piegandosi indietro per far equilibrio al peso della canna, prendevan la mira e sparavano, indi coricavano a terra sè stessi ed il fucile. Appena l'avevano ricaricato, si alzavano, miravano e facevan fuoco di nuovo; poi tornavano a stendersi sul suolo, caricar il fucile, rialzarsi e tirare ancora. Alcuni dei Velletrani, che stavan di dietro in osservazione, riferirono poi che i soldati del Borbone, superstiziosi come esser sogliono i meridionali, nel veder dall'alto e da lontano i movimenti di quei bellicosi fanciulli, esclamavano: mamma mia! che iettatura! (qual sorte avversa!) Noi li ammazziamo; essi cascan per terra, ed il demonio li rialza! Oggi non solo gli uffiziali napoletani sono colti, come lo era già sin d'allora il fiore della popolazione meridionale, ma anche i soldati gregarii di quella parte d'Italia, arruolati nell'esercito italiano, si fanno stimare per la buona disciplina e per l'istruzione.
Infrattanto il re Ferdinando II, dal centro della città di Velletri, pensava a' casi suoi, e non gli sorrideva l'idea di esser fatto prigioniero dei Repubblicani. Li supponeva capaci, benchè nol fossero, di fucilarlo se lo avesser preso, com'egli senza dubbio avrebbe fucilato Garibaldi, e Mazzini, e molti altri ancora, se avesse potuto. Laonde si rinnovò qui il caso che fu visto più in grande nei tempi antichi dopo la battaglia di Salamina e dopo quella di Arbela: la viltà personale del monarca determinò la sua fuga, e quella si trasse dietro per necessità la ritirata dell'intero suo esercito, davanti a forze nemiche numericamente deboli.
Alle 4 del pomeriggio il generale in capo Rosselli, precorrendo a cavallo la marcia del centro, raggiunse Garibaldi; il quale da un'altura esterna che domina la città di Velletri ed i contorni, stava esplorando l'orizzonte col suo occhio perspicace applicato al binocolo da campagna. Disse Garibaldi a Rosselli: generale, vedete voi quella lunga linea nera che si estende laggiù dalla porta orientale di Velletri andando verso Napoli? Veggo, disse Rosselli. — Bene, soggiunse Garibaldi: quello è il re di Napoli che si ritira colle sue truppe, anzi fugge.
Ed era così. Garibaldi pertanto propose al Rosselli di marciare diagonalmente per la campagna, onde tagliar la ritirata ai Napolitani, o convertirla in fuga disordinata. Rosselli ricusò, perchè il grosso delle sue truppe non era ancora giunto. Arrivarono un po' più tardi coi loro soldati il Masi ed i due Galletti, e scambiarono dei colpi di fucile e di cannone contro gli Svizzeri ed altri soldati regii, i quali mantennero il fuoco sino a sera dall'alto degli spaldi per favorire la ritirata o fuga del re; ma nella sera anche la loro ritirata fu completa. La mattina seguente, 20 maggio, Garibaldi prima, indi Rosselli, con tutte le loro milizie, entrarono solennemente in Velletri, fra gli applausi dei cittadini. Garibaldi inseguì i regii sino ad Arco, dentro i confini del regno; ma fu richiamato dai Triumviri, perchè si appressava il rinnovarsi dell'assalto di Roma dai Francesi.
Il generale Oudinot, avendo portato il numero dei suoi soldati a quarantamila, o poco più, intraprese l'assedio di Roma secondo il regolare sistema di Vauban, colle tre trincee parallele e concentriche, per aprir la breccia nelle mura e per essa entrare. Il fronte d'attacco aveva per centro la porta San Pancrazio, e stendevasi dalla porta Portese a porta Cavalleggieri: ma egli aveva inoltre in poter suo due ponti sul Tevere: uno era lo storico ponte Milvio, nella via Flaminia, superiormente a Roma, ed un altro era un ponte di chiatte da lui fatto costruire al disotto di Roma, presso la basilica di San Paolo. Diede principio alle operazioni nella sera del 2 giugno, impadronendosi per sorpresa della villa Panfili, che era difesa dal battaglione Mellara; poi del casino de' Quattro Venti, e di quello del Vascello, che stavano alla distanza di poco più che un trar di fucile dalla porta San Pancrazio. I nostri che custodivano il casino o palazzo dei Quattro Venti ed il Vascello, importantissimi posti per la difesa come per l'offesa, furono, secondo i barbari usi della guerra, gettati giù dalle finestre. A quelli che poscia mossero ad Oudinot un giusto rimprovero di aver mancato alla parola data di non assalir la piazza prima del giorno 3, rispose con un bisticcio: non appartenere quei tre posti alla piazza perchè eran fuori delle mura.
Nel mattino, svegliato al rombo del cannone, io corsi fuori di porta San Pancrazio. Garibaldi aveva presso di sè i migliori suoi ufficiali: Manara, Medici, Mellara, Masini, e direi quasi più che una schiera una turba, stimabile ma confusa, di giovani poco addestrati a serbar le distanze a compasso e squadra, pieni però di coraggio e di slancio. Precedeva gli altri il Masina a cavallo. Si fece impeto contro il Vascello; i francesi che lo occupavano furori sopraffatti, e, pur secondo le necessità della guerra, furono messi in fuga e trucidati. Non eravi sfortunatamente il tempo di condurli prigionieri in città; bisognava correre senza indugio ad assalire il prossimo palazzo dei Quattro Venti. Garibaldi lasciò Medici alla custodia del Vascello; e si volse contro i Quattro Venti. Fuggirono i Francesi ed il casino fu da noi ripreso.
Per qualche tempo i Francesi ci bersagliarono da lontano, di fronte, a destra ed a sinistra, colle artiglierie e colle lor armi di precisione. S'incrociavano i lor projettili fischiando per le due aperte gallerie al pian terreno che davano il nome al casino o palazzo dei Quattro Venti; ma i nostri tenevan fermo. Andai a visitare altre posizioni, e così mi fu risparmiata la vista mortificante della scena che ivi un po' più tardi ebbe luogo. Tornarono i Francesi all'assalto con maggior impeto di prima, ed in assai maggior numero. Non eran presenti, come dianzi, nè Garibaldi, nè Masini; ed i nostri fuggirono. Un tentativo di ricuperare i Quattro Venti fu fatto da Angelo Masini. A piedi, questa volta, egli camminava davanti agli altri salendo l'erto viale di fronte al casino, ma una palla mortale lo colpì nel petto. Egli cadde per non più rialzarsi, ed i suoi compagni fuggirono indietro verso la porta della città. L'esanime salma di quel valoroso giacque insepolta nel viale dov'egli era caduto, per tutto il tempo dell'assedio, perchè la posizione era spazzata dai projettili nostri e dei nemici per siffatto modo che nessuno più osava di avventurarvisi.
Continuarono i Francesi per diciotto giorni i lor lavori d'approccio stringendosi a mano a mano sempre più davvicino alle mura, e tirando contro di noi coi fucili e colle grosse artiglierie. I nostri rispondevano con simili armi non solo dalle mura della città, ma ancora da due esterne posizioni: quella del Vascello, tenuta dal Medici coi suoi Lombardi davanti a Porta San Pancrazio, di fianco ai Quattro Venti; e l'altra dei Monti Parioli, tenuta dal Berti Pichat co' suoi Bolognesi, fuori di Porta del Popolo, contro l'estrema sinistra dei Francesi, che occupava Ponte Molle. Se non che, noi pativam penuria di cannoni, e proporzionatamente più ancora di palle, onde gli artiglieri nostri, comandati dal bravo Calandrelli, erano spesso costretti a servirsi di quelle dei francesi cadute in città e raccolte, ancorchè per lo più malamente si attagliassero al calibro.
Tuttavia la difesa non languiva mai. Nè ultimi in essa erano i monelli Bolognesi che si illustrarono a Velletri. Un giorno Garibaldi li additò ad un forestiere che con lui visitava le nostre posizioni, e disse: ho là una compagnia di ragazzi che si battono meglio degli uomini. Furonvi pure diverse sortite, diurne e notturne, una anche colle camicie ad imitazione di quella dei Fiorentini nell'assedio del 1530, ma con frutto egualmente piccolo. Meritò special menzione il valore e la nobile morte d'un giovine tenente che fu mio amico, in una delle sortite diurne. I sortiti osarono di andar ad attaccare di fronte colla bajonetta una delle trincee nemiche. Camminava davanti agli altri il tenente Giovanni Giordani. Colpito in una gamba cadde. Rialzatosi sopra un ginocchio, brandiva in alto la sua spada, e gridava ai suoi: avanti, avanti sempre: ma un'altra palla troncò a quel prode le parole e la vita. I francesi ebbero il barbaro gusto di caricare colla sua rossa tunica, come stoppaccio, un obizzo, e di lanciarla dietro ai suoi compagni che rientravano in città.
Garibaldi era contento della difesa fatta dai soldati regolarmente arruolati, ed ancora della cooperazione di Ciceruacchio, e di altri popolani di Roma. Nel mattino del 21 giugno egli scriveva alla sua diletta moglie Annita, la quale era a Nizza presso la signora Rosa Raimondi Garibaldi madre di lui: «bacia la mamma, e dille ch'ella è fortunata di avermi partorito per un tempo in cui l'Italia ha tanti valorosi!»
Ma intanto le artiglierie francesi avevano terminato di aprire due grandi squarci, o breccie, una a destra e l'altra a sinistra di Porta San Pancrazio, per tener divise le nostre forze e la nostra attenzione, ignorando noi per quale delle due tenterebbero l'assalto. Lo tentarono e compierono di sorpresa nella notte fra quel giorno stesso ventuno ed il seguente ventidue, per la breccia a sinistra, fra le porte San Pancrazio e Portese. Salirono pel piano inclinato, formato dalla terra franata in giù al di fuori; ed avendo trucidati i pochi difensori trovati vigilanti in quel punto mentre gli altri dormivano, corsero ad impadronirsi d'un vicino casino, dentro alle mura, e vane furono le nostre prove di scacciarneli. Un drappello di Guardia Nazionale, comandato dal capitano Regnoli, deputato all'Assemblea Costituente, mantenne bravamente la sua esposta e pericolosa posizione presso Porta Portese, di fianco ai Francesi entrati per la breccia.
Continuammo tuttavia per nove giorni ancora a difenderci, sempre sotto l'ispirazione ed il comando di Garibaldi, entro le mura, e fuori ben anche. La battaglia finale, e la più sanguinosa di tutta quella campagna, fu data nel giorno 30 di giugno, sopra lo spazio ben largo, e più lungo ancora, fra le mura già occupate dai Francesi, e le case all'interno della città. L'esterna posizione del Vascello, difesa come dissi dai Lombardi sotto il comando di Medici, si sostenne sino a tutto il giorno 30, abbenchè le mura di quell'edificio, traforate dalle palle dei cannoni nemici, cadessero in pezzi. Eravi ancora nella posizione esterna di San Pancrazio un piccolo rinforzo di Polacchi, ed un secondo nella posizione pur esterna presso la Porta del Popolo. Distinguevasi fra essi il maggiore dei poeti che abbia avuto la Polonia, Adamo Mickiewitz.
Nella sera di quel medesimo giorno 30, dopo una grande strage reciproca, durata per tutta quella infausta giornata, Garibaldi, venne all'Assemblea a dichiararci che era giuocoforza il rinunciare alla riva destra del fiume; e ci propose di far saltare tutti i ponti del Tevere, per continuare la difesa sulla sinistra di esso. Ma l'Assemblea, a proposta di Enrico Cernuschi, decise la cessazione di una resistenza divenuta inutile, e sdegnò di venire ad una capitolazione qualunque.
Tacque pertanto il nostro fuoco difensivo, tacque il fuoco di offesa dall'altra parte. Per oltre tre giorni i Francesi non osarono di inoltrarsi nell'interno della città paghi di prendere ed occupare alcune delle principali porte. Garibaldi uscì quietamente di Roma nel giorno 3 di luglio, per la Porta San Giovanni, con tremila uomini, e, passando con mirabil arte tra Francesi ed Austriaci, andò a deporre le armi presso l'amica Repubblica di San Marino.
Fra i molti caduti nella difesa di Roma, amo di far una speciale ed onorevole menzione di Goffredo Mameli. Egli era un giovine poeta, speciale amico di Mazzini, ed autore di alcuni inni patriotici e popolari, i quali, sposati a belle melodie, si cantano oggi ancora con amore dalla vecchia generazione del 1848 e del 1849. Ferito nella giornata del 30 aprile, egli morì alla Trinità dei Pellegrini, uno degli ospedali pei feriti. Servivano in quegli ospedali molte donne pie e patriotiche, fra le quali voglio ricordare la loro comune direttrice, Cristina principessa di Belgiojoso. Amo altresì di far nominale menzione di un'altra illustre vittima della difesa di Roma, Luciano Manara, lombardo, ucciso nell'ultimo combattimento a Villa Spada entro le mura, il 30 giugno.
I Francesi non occuparono il Campidoglio che nel giorno 4 di luglio, anniversario dell'indipendenza Americana, e della nascita di Garibaldi. Siccome il Campidoglio era divenuto la sede dell'Assemblea costituente, ed essa era tacitamente ma non ufficialmente prorogata, stimai necessario di assumermi, in assenza degli altri, il malinconico uffizio d'una protesta, a nome dell'intera Assemblea, davanti alle bajonette francesi. Il reggimento Lamarre occupò la piazza superiore del Campidoglio, e due compagnie del medesimo salirono ad occupare l'aula delle adunanze. Io intanto scrissi due separate copie d'una protesta, nella quale stimai utile di far menzione anche del quinto articolo della costituzione Francese del 1848, secondo il quale le armi della Repubblica Francese non dovevano mai esser impiegate contro la libertà di alcun popolo. Premisi alla protesta la formola Mazziniana «In nome di Dio e del Popolo» colla quale si solevano intestare i decreti dell'Assemblea e tutti gli atti della Repubblica. Indossata la mia sciarpa tricolore di deputato, ed impresso il suggello dell'Assemblea ad ambedue le copie della protesta, ne diedi lettura ad alta voce nei seguenti termini
«In nome di Dio, e del Popolo degli Stati Romani, che liberamente con suffragio universale ha eletto i suoi rappresentanti, in conformità ancora dell'articolo quinto della Costituzione francese, l'Assemblea costituente Romana protesta in faccia all'Italia, in faccia alla Francia, in faccia al Mondo incivilito, contro la violenta invasione della sua sede, operata dalle armi francesi alle ore sei pomeridiane del giorno 4 di luglio 1849.
«Roma, dal Campidoglio, 4 luglio 1849.
«Per l'Assemblea
«Il rappresentante del Popolo
«Filopanti.»
Fatta la lettura in francese, volli consegnare il documento al colonnello Lamarre. Egli ricusò di riceverlo, dicendo che non aveva tal missione. Sia pure, diss'io ma voi ed i vostri soldati avete udito la nostra protesta. La depongo sopra uno di questi banchi: e così feci. Sopraggiunse il vice presidente Bonaparte con due altri deputati: tutti e tre aggiunsero alla mia la loro firma. Per poter entrare, il Bonaparte aveva avuto bisogno di dire ai soldati ch'egli era il cugino del Presidente della Repubblica Francese. Usciti di là, senza essere molestati, convocammo nella sera stessa gli altri nostri colleghi nel palazzo della Cancelleria, pristina sede delle nostre adunanze; ed ivi l'altra copia, che meco portai, della protesta, fu sottoscritta dalla maggior parte di essi, incominciando dal presidente Galletti. Non si potè pubblicare in Roma, ma fu stampata nei giornali di altri paesi.
«Così, dice Gabussi, ebbe gloriosa e violenta fine la Repubblica Romana, illustrata dal sangue di oltre quattro mila de' suoi difensori, compresi in questo numero i morti e feriti nei fatti di Bologna nel maggio 49; di Ancona, di Terracina, di Velletri, e in quelli che ebbero luogo sotto le mura di Roma, dal 30 aprile sino al 1.° di luglio.»
Non guari dopo la caduta di Roma cadde onoratamente anche Venezia. Il forte di Marghera, dopo d'essere stato per lungo tempo strenuamente difeso, fu non ceduto, ma smantellato e sgombro dai difensori. Essi ritiraronsi colle loro artiglierie sul gran ponte della ferrovia, che passando sopra la laguna congiunge Venezia alla terra ferma. Il ponte contiene 222 archi. Nel mezzo avvi un lungo spazio, e largo a guisa di piazza. Ivi i prodi combattenti usciti da Marghera si fermarono, asserragliandosi con sacchi pieni di terra, disposti in guisa da formar le troniere e lasciar le aperture per le bocche dei cannoni. Le bombe Austriache però, tirate dalla terra ferma coll'opportuno rialzo, e descrivendo per aria la loro alta traiettoria, arrivavano a piombare sulla parte occidentale della città di Venezia, ed anche sino al centro di essa. Il popolo conseguentemente si ritrasse alla parte orientale. Soffriva gli orrori degl'incendi, della fame e del colera morbus, ma non voleva ancora la resa. Le povere donnicciuole incoraggiavano i combattenti, Veneziani o di altre parti d'Italia, gridando loro: benedetti da Dio!
Al medesimo tempo anche la guerra, d'insurrezione dell'Ungheria contro l'Austria, correva al suo termine. La rivoluzione Ungherese, come quella dell'Austria propriamente detta, della Prussia e del Granducato di Baden, fu una conseguenza immediata della rivoluzione francese del 24 febbrajo 1848. Dapprima però non produsse un distacco totale dell'Ungheria dall'Austria, ma soltanto lo stabilimento di una amministrazione separata ed autonoma, della quale Batthiani era presidente, Kossuth uno dei ministri. Jellacich, bano di Croazia, promosse il sollevamento dei Croati e dei Dalmati contro i Magiari, od Ungheresi propriamente detti.
Di che indignato Luigi Kossuth, fece proclamare la Repubblica Ungherese il 14 aprile 1849, e la decadenza perpetua della casa di Absburgo dal trono di Santo Stefano. Gli Ungheresi furono vittoriosi in molti scontri, sotto la condotta dei generali Beni, Klapka, Dembinsky, Gorgey; ma Francesco Giuseppe invocò l'ajuto della Russia. L'imperatore Nicolò, per l'intenso odio che portava alla rivoluzione, e pel timor che essa s'appiccasse alla Polonia, inviò contro gli Ungheresi un esercito di centomila uomini. Gorgey, senza la necessaria autorità capitolò per sè e per l'esercito Ungherese a Villagos, il 13 agosto 1849. Egli fu ed è ancora considerato come traditore.
Allorchè l'infausta notizia giunse a Venezia, si vide svanita l'ultima speranza di poter utilmente prolungare la difesa; e Daniele Manin, debitamente autorizzato dall'Assemblea, pubblicò una grida, colla quale consegnava il potere della spirante Repubblica Veneta nelle mani del municipio di Venezia. Pochi giorni dopo gli austriaci entrarono in Venezia, squallida e muta. La liberazione di Venezia fu ritardata sino all'anno 1866.