Giuseppe Barilli (alias Quirico Filopanti)
Storia di un secolo, dal 1789 ai giorni nostri - Fasc. IV

DAL 1866 AL 1889

ANNO 1866 Guerra di Prussia ed Italia contro Austria. Custoza, Sadowa, Lissa, Bececca.

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DAL 1866 AL 1889

ANNO 1866

Guerra di Prussia ed Italia contro Austria.
Custoza, Sadowa, Lissa, Bececca.

In tutto il periodo di tempo che durò la confederazione Germanica, cioè dal 1815 al 1866, la Prussia era considerata, entro la confederazione e fuori, come una potenza minore di quella dell'Austria; ma la Prussia sentivasi più forte, ed agognava ad assumere anche ufficialmente l'egemonia, o presidenza.

Questo, come dissi, fu il principal motivo della guerra del 1866 fra la Prussia da una parte, e dall'altra l'Austria colla Baviera e con quasi tutto il resto della Confederazione Germanica. Bismark cercò un giusto motivo, od almeno un nobile pretesto, alla guerra: domandò una riforma della confederazione, con partecipazione della rappresentanza nazionale, da eleggersi per suffragio universale di tutti i Tedeschi maggiori di anni venticinque. Ben egli prevedeva che la domanda sarebbe rigettata, e lo fu.

Il gabinetto di Firenze non poteva a meno di profittare delle favorevoli disposizioni della Prussia, al principio del 1866, stringendo con essa, come fece, un trattato di alleanza offensiva e difensiva. La dichiarazione di guerra non fu fatta dall'Italia all'Austria che il 20 giugno, ma i preparativi della guerra si fecero palesemente molto prima, tanto dal lato della Prussia e dell'Italia, come da quello dell'Austria. Questa videsi obbligata a dividere in due parti le sue forze; la maggiore contro la Prussia, la minore contro l'Italia, appoggiandosi al troppo famoso quadrilatero, Verona, Peschiera, Mantova e Legnago.

I generali Italiani commisero il solito errore di dividere indebitamente le loro forze. La politica direttrice di una guerra di carattere necessariamente rivoluzionario come questa, egualmente che le regole generali della strategia, additavano Bologna come base delle operazioni militari terrestri, Ancona qual base delle operazioni militari marittime, e Venezia per diretto obbiettivo. Alla liberazione di essa avrebbero dovuto farsi convergere tutte le nostre forze, cioè le truppe di terra regolari e le volontarie, e la flotta. Tale era il ragionevole piano proposto dal miglior generale che allora avesse l'Italia, Manfredo Fanti; ma non se ne volle far nulla.

L'esercito Austriaco in Italia non era che di novanta mila uomini. L'esercito regolare Italiano, che si accingeva a dar battaglia a quelli, sommava a dugento mila , abbastanza bene armati, abbastanza bene disciplinati, e pienissimi di buona volontà. Vi erano inoltre quarantaquattro mila volontarii, meno disciplinati che i soldati regolari, ma ardenti di amor patrio, e comandati da un uomo di cui il nome stesso era una forza. La flotta Italiana, per numero di navi e per forza di vapore e di armamento, era superiore all'Austriaca. Si aveva dunque sotto la mano una forza materiale e morale di gran lunga maggiore del bisogno, se fosse stata bene adoperata, per render sicura la vittoria.

Faceva di mestieri passar il Po nelle vicinanze di Ferrara, scacciar tosto i nemici da Rovigo, poi da Padova, indi da Venezia, poi da Trieste; poscia filar dritto sopra Vienna, e fare a gara tra noi ed i nostri alleati Prussiani, chi primiero arrivasse a quella meta. Il quadrilatero rimasto alla sinistra e indietro, come un vano spauracchio, sarebbe caduto da , come poi realmente cadde, al conchiudersi della pace. Per farlo divenire non vanamente formidabile, il nostro infelice Stato Maggiore andò a cozzare il capo contro di esso con una porzione insufficiente, ed inoltre mal adoperata, delle grandi forze che teneva nelle inette sue mani.

Al principio della campagna del 1866 le truppe Italiane erano disposte nel seguente modo: il corpo d'armata di Lamarmora, effettivo comandante in capo, benchè il comando nominale appartenesse al re, era a Parma, a Piacenza, a Lodi ed a Cremona. Il corpo di Cialdini a Bologna ed a Ferrara: ventiduemila volontarii attorno Como, presso l'estremità settentrionale della penisola, o, diremo, nel ginocchio dell'imaginario stivale a cui si paragona la forma dell'Italia; altri ventiduemila attorno a Bari, all'estremità meridionale, ossia nel tallone; e la flotta a Taranto, cioè più lontana ancora dal futuro teatro della guerra. Distanza fra i due estremi dell'esercito italiano, da Como sino a Gioja del Colle nella Terra di Bari, 860, dico ottocentosessanta chilometri!

L'Austria teneva concentrata, fra Padova, Vicenza e Verona, la massima parte del suo corpo di operazione, comandato dall'arciduca Alberto, con una distanza di sessantasette chilometri fra le due estremità, ma pronta a concentrarsi di più, appena vedrebbe qual indirizzo prendessero i nostri. La parte più debole della fronte Austriaca era da Mantova a Venezia: quella che i nostri generali avrebbero dovuto sfondare per andare al loro essenziale obbiettivo, che era Venezia. La parte più forte della fronte Austriaca era una diagonale del quadrilatero, cioè Mantova, Verona; proprio quella che la sapienza a rovescio del generale Lamarmora prescelse di andar ad attaccare.

Nella sera del 23 giugno, il general Lamarmora spedì ai varii corpi l'ordine che tutte le divisioni avessero a porsi in moto la mattina seguente dalle tre alle quattro, ed andar ad occupare certe posizioni in mezzo al quadrilatero, incominciando dalle vicinanze di Pastrengo fra Peschiera e Verona, ma al di fuori del quadrilatero, sino a Curtatone e Montanara sotto Mantova. La distanza in linea retta fra quei due estremi era più di quaranta chilometri. Pianell rimaneva alla destra del Mincio. Le tre divisioni comandate da Durando, formanti la sinistra, e stese dal Mincio sino all'Adige, potevano esser sorprese ed attaccate dalle sortite dei nemici dai tre fortilizi di Peschiera, Legnago, e Verona. Similmente la destra, formata dal terzo corpo sotto il comando di Morozzo della Rocca, poteva di leggieri esser tagliata o sbaragliata per una sortita da Mantova. Ma Lamarmora, ingannato da falsi rapporti di spie e di sbagliate ricognizioni, ovvero in preda per quel giorno ad una misteriosa offuscazione di mente, erasi fitto in capo che non incontrerebbe il nemico dentro al quadrilatero, ma solamente al di dell'Adige; ed aveva fatto partecipare ai suoi generali subalterni quella fallace e rovinosa fiducia. Cialdini era ancora alla destra del Po.

Al grave errore di Lamarmora aveva contribuito senza dubbio l'astuzia del comandante Austriaco, di tenere sgombra la maggior parte dello spazio fra il Mincio e l'Adige, per adescare il comandante Italiano ad entrare, come in una vasta trappola, in mezzo al quadrilatero. L'arciduca aveva già concentrato ottantadue mila uomini attorno a Verona, lasciandone sei o settemila sul Po per tener a bada Cialdini. Ogni soldato Austriaco portava indosso la razione per due giorni, dopo aver anche avuto una razione straordinaria di carne nella sera del 23. La mattina per tempo presero il caffè e l'acquavite. Non solo la scienza moderna, ma il più volgare senso comune, moderno ed antico, basta a far comprendere che non è solo un sacro dovere di umanità, ma un interesse strategico di primo ordine, per un generale, il nutrir bene i suoi soldati, specialmente nel giorno nel quale hanno il massimo bisogno di forza fisica e morale. Questi semplicissimi principii non balenarono alla mente dei generali italiani nei giorni 23 e 24 di giugno 1866. Nella terribile giornata del 24 i poveri soldati italiani combatterono quasi tutti a digiuno. Senza fallo Lamarmora, alcun altro generale italiano commise l'atroce delitto di privarli apposta di cibo in quel giorno: si lusingavano di aver tempo di fare il rancio nel mattino. La colpa stava non solamente nella irragionevole idea che il nemico fosse lontano in quel giorno, ma principalmente nel disordinato, pedantesco, arrogante, pessimo sistema generale.

Ciò nondimeno le prime avvisaglie della battaglia di Custoza furono a noi favorevoli. Vero è che i nemici invece di essere lontani, come si supponeva, erano vicini e pronti. L'estrema destra Italiana, formata dalle truppe comandate dal principe Umberto e dal generale Bixio, venne alle prese coll'estrema sinistra Austriaca. Vera chiave di tutta la posizione erano il villaggio di Custoza, colle sue alture, e Somma Campagna. Il principe Umberto aveva perciò collocato la sua divisione un chilometro di da Villa Franca ed in prossimità di Custoza. La sinistra austriaca era formata da una brigata di cavalleria, più otto altri squadroni di cavalleria. Tutto questo corpo si mise in marcia, di corsa, contro la divisione del principe Umberto.

Il giovane ed intrepido comandante, appena avuto avviso dai cavalleggieri di Alessandria dell'accostarsi che faceva il nemico, diede l'ordine che è di regola, ed urgentemente necessario, quando la fanteria è attaccata dalla cavalleria, cioè la formazione del quadrato. Comandò alla brigata Parma, che era la più avanzata delle due formanti la sua divisione, di formar i quadrati per battaglioni, coll'artiglieria negl'intervalli fra battaglione e battaglione. Quando si è fatto il quadrato, vuoto nel mezzo, con quattro lati eguali costituiti da quattro o più ranghi di soldati, questi son pronti a fucilare o bajonettare la cavalleria nemica, da qualunque parte venga. Questa certezza di poter far fronte al nemico, davanti, ai lati, e di dietro, e la stessa difficoltà materiale di fuggire, tien fermi i soldati al loro posto. Dal canto loro i cavalli e cavalieri nemici, spaventati dal tiro e dalla vista della fanteria del quadrato, non arrivano sino al cozzo fatale, ma deviano a destra od a sinistra, perchè gli animali per istinto, e gli uomini per ragione, sanno che venendo all'urto effettivo capitombolerebbero in orrida e micidiale confusione gli assalitori insieme e gli assaliti. Però, nel rasentar il quadrato e nel retrocedere, lo squadrone aggressore riceve di fianco e di dietro le scariche di fucile dei difensori.

Nel nostro caso ai tiri della fanteria si aggiungevano i tiri a mitraglia dell'artiglieria negli intervalli tra un battaglione ed un altro. I comandanti sogliono stare dentro al quadrato, animando i loro soldati colla voce e colla spada in alto brandita. Il principe Umberto si pose in mezzo al quadrato del quarto battaglione del reggimento 49. I nostri bravi, benchè per lo più novizii soldati, accolsero di fatti i cavalieri austriaci con un vivo fuoco di fucileria e di artiglieria, e li obbligarono a retrocedere. Cessato il fuoco dei battaglioni e dell'artiglieria, i cavalleggeri di Alessandria incalzavano la ritirata, sciabolando i fuggitivi.

Pur tuttavia la tenacità austriaca tornava ancora alla carica. Bixio, al suono del cannone e delle fucilate, accorse colla sua divisione in sostegno a quella di Umberto. Il generale Paltz, comandante della cavalleria austriaca, osò pure di attaccare ripetutamente il Bixio, come aveva attaccato Umberto; e fu respinto in simile modo. Alla fine fu costretto di ritirarsi sotto Verona, lasciando il terreno seminato dai corpi, caduti in grandissimo numero, de' suoi uomini e cavalli. Un reggimento di Ulani lasciò sul campo seicento uomini.

Mentre ferveva quella ostinata pugna dalle cinque e mezza alle sei e mezza antimeridiane, fra la sinistra austriaca e la destra nostra, il resto dell'esercito italiano, e quello dell'esercito austriaco, continuavano ad inoltrarsi l'uno contro dell'altro. Non ostante che quasi la metà delle forze militari d'Italia, sotto Cialdini, fossero sempre alla destra del Po, Lamarmora aveva sotto la mano da cento mila soldati, tutti animati da una straordinaria speranza e volontà di vincere. Ma che valgono i grandi eserciti sotto comandanti incapaci? Per le improvvide disposizioni di marcia adottate dal quartier generale italiano, le tre sole divisioni Cerale, Sirtori e Brignone, e la riserva comandata da Durando, poco più d'un trenta mila uomini in tutto, andavano ad urtarsi contro ottanta mila austriaci. Il corpo di Pianell rimaneva sulla destra del Mincio; le quattro divisioni La Rocca marciavano contro il vuoto, cioè a dire andavano alla ventura in una direzione da non potere incontrare il nemico. Cerale eseguiva una marcia sbagliata. Il generale Villa Hermosa, che comandava l'avanguardia di Sirtori, errava egli pure la strada, per un curioso equivoco di nomi, e si separava dal corpo di Sirtori.

Tanto è il disordine che suol regnare in tutte le battaglie, e tale era quello in particolare del nostro esercito in quel giorno, che Sirtori stavasi tutto soletto e lontano non solo dalla sua fuorviata avanguardia, ma ancora dal principal corpo della Divisione posta sotto i suoi ordini. Un semplice sergente, visto da lungi un ufficiale in quella posizione, benchè non lo distinguesse ancora per un generale, andò a lui, e ne ebbe comando di gridare con istentorea voce: d'ordine del generale Sirtori tutti i suoi soldati vengano qua. Venuti di fatto molti in pochi minuti, Sirtori potè onorevolmente sostenere la posizione minacciata da grosse forze nemiche.

Brignone occupò Monte Torre e Monte Croce, ma ne fu discacciato. Cugia riprese Monte Croce, Govone riprese Monte Torre; ma il principe Amedeo fu ferito nel petto non lungi da Monte Croce. Continuavano tuttavia i soldati a battersi animosamente; ma Durando, sopraffatto da forze preponderanti e dalla sua propria mancanza di energia, piegò indietro col suo corpo di riserva; lo che costrinse Sirtori pure a ritirarsi.

Pianell, che aveva, forse per sua spontanea ispirazione passato il Mincio, ed aveva fatto bene, si tenne troppo lungamente fra Monte Vento e Monzanbano; poi, di sua testa ancora, cred'io, passò il Mincio. La confusione cominciava a diventar generale ed insanabile; laonde Vittorio Emanuele ordinò la generale ritirata. Ciò nondimeno Govone, rimasto solo presso Custoza, fece una gloriosa difesa, ma alla fine dovè pur egli ritirarsi. Bixio e la cavalleria furono ultimi a dare indietro, e protessero la ritirata degli altri.

Così terminò la seconda battaglia di Custoza nella sera del 24 giugno 1866, tutt'altro che gloriosa per l'abilità dei generali italiani, ma onorevole pel valore dei loro soldati, poichè dalle cinque del mattino sino alle sei del vespro, contro ottantamila austriaci essi tennero il campo in numero di soli sessanta mila uomini incirca. Tra feriti e morti, gli Italiani perdettero in quella giornata 3854 uomini; gli austriaci ne perdettero un maggior numero ancora, cioè 4931.

Narrano che nelle ultime ore della battaglia, Lamarmora, come uomo tormentato da fiera angoscia, sia per lo spettacolo della incalzante sciagura, sia pel senso di essere vittima di ordini ripugnanti alla sua lealtà, stavasi colle mani nei capelli. Vista compiuta la sua sconfitta, e paventandone dei guai che senza dubbio potevano venirne, ma che fortunatamente non vennero, scrisse a Cialdini: «disastro immenso; coprite la capitale;» ed a Garibaldi: «coprite la patriotica BresciaOrdinava una ritirata divergente, quando invece doveva ordinarne una convergente. Le regole militari indicavano qual punto generale di rannodamento, nel caso di disfatta, il gran campo trincerato di Bologna, costruito ad imitazione delle fortificazioni di Parigi, con tre linee concentriche di difesa: cioè le vecchie mura della città, il nuovo recinto continuo a linee bastionate, e di da esso una corona di forti staccati. Si trattava soltanto di poter prolungare la resistenza, per attendere il risultato della lotta fra l'Austria contro i nostri nuovi alleati prussiani, od un ajuto dei nostri vecchi alleati francesi. L'interposizione del solo Cialdini non avrebbe ritardato che di pochi giorni la perdita di Firenze; ma non l'avrebbe impedita se l'Austria non avesse avuto bisogno di richiamare di dalle Alpi a grandi marcie l'esercito vincitore di Custoza per opporsi ai prussiani. La fortuna, propizia a noi ed alla Prussia, fece sì che l'arciduca Alberto mancò, benchè per poco, di arrivare in tempo sul campo di Sadowa. Per la qual cosa non solamente l'opera della Prussia fu utilissima all'Italia; ma l'opera dell'Italia fu pure utile alla Prussia.

Sino dal 15 giugno l'esercito prussiano aveva invaso la Sassonia, alleata dell'Austria. Nel giorno 27 entrò in Boemia; il 28 ed il 29 ottenne contro le armi austriache degl'importanti successi; e nel giorno 3 di luglio venne ad una decisiva battaglia presso Sadowa in Boemia. Gli austriaci ed i loro alleati della Confederazione Germanica, tutti uniti sotto il comando di Benedek, erano in numero di 250,000 uomini, ed affrettavasi in loro rinforzo, a poche marcie di distanza, l'esercito dell'arciduca Carlo, vincitore di Custoza.

L'esercito prussiano era composto di tre armate, le quali avevano, fra tutte e tre, 268,000 uomini; ma a Sadowa, dapprincipio, non ve n'era che una. Il maresciallo de Moltke, capo di Stato maggiore, notò che la posizione dei prussiani era critica se alle tre armate non veniva fatto di riunirsi. Infatti a mezzogiorno i prussiani erano in ritirata e gli austriaci sembravano aver sicura la vittoria. Ma la Prussia ebbe a Sadowa la stessa fortuna che aveva avuto a Waterloo, del suo proprio rinforzo giunto in tempo. Ad un'ora pomeridiana arrivò sul campo di Sadowa la sua seconda armata; quella detta della Slesia. Gli austriaci furono attaccati di fronte dall'armata dell'Elba, di fianco da quella della Slesia. Terribile fu segnatamente lo scontro delle due opposte cavallerie; decisivo l'attacco operato dall'artiglieria Prussiana contro le alture occupate dall'artiglieria austriaca. L'intero esercito austriaco fu sbaragliato. Perdette trentacinque mila uomini fra morti, feriti, ed annegati nel fiume Elba, oltre quaranta mila prigionieri e duecento cannoni.

Il fucile ad ago e a retrocarica, inventato dal farmacista Dreyse, fece buona prova a vantaggio dei prussiani. Non è vero però che la loro vittoria fosse specialmente dovuta al fucile ad ago. Dalla parte dei prussiani il numero degli uccisi per palle di fucile eguagliò quello dei morti per projettili dell'artiglieria austriaca; mentre l'esercito austriaco perdette un maggior numero di soldati pei colpi dell'artiglieria prussiana che per quelli dei fucili ad ago. La vittoria prussiana fu dovuta alla superiorità del valore, alla superiorità dell'istruzione ed alla fortuna.

Dico alla fortuna ancora: perchè se gl'inciampi opposti alla natura e dagli alleati degli austriaci all'armata prussiana della Slesia avessero ritardato la sua marcia di poche ore, o se gli ostacoli opposti dall'Italia all'arciduca Alberto fossero stati minori, e gli avessero permesso di arrivare in tempo utile a Sadowa, quella battaglia sarebbe stata vinta dagli austriaci; l'Italia, sarebbe tornata direttamente od indirettamente in potere dell'Austria, e gli eterni laudatori del successo, non io certamente, avrebbero detto che Moltke era un cattivo strategista, e Benedek un grand'uomo.

La vittoria ottenuta dai nostri alleati a Sadowa, ossia a Kœnigsgratz, come amano meglio dire i tedeschi, rassicurò gl'Italiani sulle loro proprie sorti; ma si sentiva tuttavia fieramente l'umiliazione sofferta a Custoza. Rimaneva una speranza di risarcire, in qualche guisa, l'onore delle armi italiane con una battaglia navale. Vedrete, dicevano, che cosa sapran fare i nostri bravi marinai; vedrete che cosa farà l'eroico vincitore di Ancona! I marinai erano bravi di fatto, ma il preteso vincitore di Ancona, liberata per merito de' suoi subalterni e non di lui, era un codardo.

Egli venne tardivamente colla flotta, da lui comandata, da Taranto ad Ancona. Ma, provocato dall'ammiraglio austriaco Tegethoff, ricusò la sfida, riparandosi sotto i cannoni delle opere esterne di Ancona. Ai suoi ufficiali che ne fremevano di sdegno addusse, per iscusa, dei pretesi ordini secreti di tenersi sulla difensiva. I marinai austriaci, che erano triestini, istriani e dalmati, quindi in parte italiani di nascita, e tutti italiani di linguaggio, perchè nella marina austriaca da guerra e di commercio, si parla il dialetto veneziano, pure affezionati alla loro bandiera come lo sono tutti i soldati, si ritirarono orgogliosi dell'onta da essi cagionata a buon mercato ad un'altra bandiera.

Era il dovere dei ministri italiani mandare per telegrafo la destituzione a Persano. Gl'inetti si limitarono a minacciargliela, se non andava in traccia del nemico; ma egli invece di recarsi a Malamocco ed al Lido, porti di Venezia, dove avrebbe dovuto andare tanto prima, diresse le sue prore dalla parte opposta, cioè a Lissa. È Lissa una piccola isola sulle coste della Dalmazia, distante ben quattrocento chilometri da Venezia, e così ben fortificata che fu detta la Gibilterra dell'Adriatico. L'acquisto di essa, ove fosse riuscito, avrebbe costato molto e fruttato nulla. Quando già da due giorni la flotta italiana oppugnava con poco effetto i baluardi di Lissa, l'ardimentoso ed abile Tegethoff venne a presentarle battaglia, questa volta inevitabile, il 20 luglio 1866.

L'armata navale italiana componevasi di trentasette bastimenti a vapore da guerra, undici de' quali erano corazzati, ed otto fra essi erano di ferro. L'equipaggio numerava in tutto dodici mila uomini. La flotta austriaca era composta di ventisette navi di legno, sette sole delle quali erano rivestite di corazze di ferro. Per numero d'uomini e di cannoni, come per tonnellaggio e forza di vapore, l'armata austriaca non era in tutto che due terzi incirca della flotta italiana. L'unica superiorità della flotta austriaca, ma tale da compensare la sua inferiorità sotto gli altri rapporti, stava nel comandante. Il Tegethoff non solo era un abile e coraggioso comandante nella battaglia, ma preparava ad essa con amore e con senno i suoi marinai, ispirando loro fiducia nelle loro navi e nelle loro armi; esercitandoli a ben valersene, e specialmente addestrandoli a dar di cozzo colle loro prore contro i fianchi delle navi nemiche, ed a cansare l'urto di quelle. Il Persano era uomo d'una così sciocca vanità personale, che pochi giorni prima di lasciare Ancona disse al fotografo che gli aveva fatto il ritratto: tenete il vetro negativo, perchè fra pochi giorni ve ne saranno domandate migliaja di copie. Questo sarebbe un indizio che ei si lusingava di vincere, e quindi che il disastro di Lissa fu effetto di incapacità sua, non di tradimento.

Al principio della battaglia di Lissa, Persano fece perdere un tempo prezioso alle due più importanti navi della sua squadra, che erano la nave ammiraglia Re d'Italia e l'ariete Affondatore, per passare dal Re d'Italia all'Affondatore. Erano bastimenti corazzati ambidue; il primo della portata di 4700 tonnellate, con 600 uomini d'equipaggio e 36 cannoni, l'altro era alquanto inferiore di portata e di equipaggio, ed aveva due soli cannoni, ma grossissimi. L'Affondatore era solo alquanto superiore di velocità. Questa biasimevole perdita di tempo fu occasione della perdita della battaglia.

Imperocchè, essendo la nave il Re d'Italia, per colpa di questi insensati e codardi cambiamenti fatti dall'ammiraglio, rimasta alquanto indietro dalle navi compagne che si avanzavano contro il nemico, essa trovossi isolata, ed attorniata da quattro corazzate Austriache. Faà di Bruno, che ora comandava il Re d'Italia, ed i suoi seicento uomini, si difendevano valorosamente, ma una fiancata colpì e mutilò il loro timone. Di ciò avvedutosi Tegethoff, e comprendendo che la gran nave Italiana non potendosi più governare rimaneva pressochè immobile, intimò al macchinista della sua nave ammiraglia il Max, o Massimiliano, di retrocedere, indi correre a tutta forza di vapore collo sperone della sua prua contro il fianco della nave Italiana. La terribile manovra ebbe pieno effetto: il fianco della nave il Re d'Italia si squarciò. In due minuti quella vasta mole fu inghiottita dagli abissi del mare, e con essa seicento prodi marinai Italiani. Prima però di andare a fondo, eglino eseguirono varie scariche di moschetto contro i nemici, e sollevarono in coro un ultimo grido: Viva l'Italia. Quattrocento di essi perirono; dugento soli si salvarono a nuoto. Fra i sommersi vi fu il deputato Boggio.

La squadra comandata dal vice ammiraglio Albini, formava la sinistra di tutta la flotta, ma conteneva ben venti navi, cioè più della metà del numero totale di trentasette navi di cui l'intera armata si componeva. Ciò non ostante l'Albini si tenne in disparte dalla lotta. In uno scritto da lui pubblicato dipoi, addusse due discolpe che sono più presto una sua condanna. Disse che il segnale di chiamata mandatogli da Persano a bordo dell'Affondatore non gli parve un ordine superiore, perchè non veniva dalla nave ammiraglia. Il vero è che avrebbe dovuto muoversi anche senza un ordine espresso. L'altra scusa fu che aveva navi di legno. Non rifletteva che quelle dei nemici eran pure di legno.

Persano, come se tutto ad un tratto fosse divenuto valoroso, si avvicinò al centro della mischia, e comandò la manovra necessaria per dar di cozzo, colla formidabile prora rostrata del suo Affondatore, contro il fianco della nave ammiraglia nemica, il Max. Stava il Max per ricevere quella morte che aveva inflitta al Re d'Italia; ma di repente il Persano mutò pensiero, o per la puerile e vil paura di soffrir egli stesso nello scontro, o per deferenza ad istruzioni secrete di non recar troppo danno all'armata nemica. Per colpire il fianco del Max faceva d'uopo continuar a correre con velocità accelerata a destra; ma Persano gridò al timoniere: a sinistra. — A destra, ammiraglio, dissero i marinai, credendo che si fosse sbagliato. Ma egli replicò: qui comando io: A sinistra. Così fu evitato il cozzo, in luogo del quale non fuvvi che un reciproco scambio di bordate d'artiglieria.

Ribotti e Vacca, sotto ammiragli, mostrarono qualità tutto opposte alla inerzia di Albini, ed alla dappocaggine o mala volontà di Persano. Ma alla fregata Palestro toccò un disastro eguale a quello del Re d'Italia. Essa aveva dugento uomini d'equipaggio, comandati dal capitano Alfredo Capellini, nome che rimarrà nella storia, per la morte gloriosa di lui e della maggior parte de' suoi compagni. Mentre era ancora a galla il Re d'Italia, ma attorniato da quattro navi nemiche, Capellini volle correre in ajuto di esso colla sua Palestro; ma tre altre navi Austriache sbarrarono alla Palestro la via. Una granata lanciata nell'interno di essa, attraverso ad una parte non corazzata della sua parete, appiccò il fuoco ad un mucchio di carbon fossile. L'equipaggio dovette allontanarsi dal centro del conflitto per dar opera a soffocare l'incendio.

Rimanevano a pugnare effettivamente sette sole navi nostre corazzate, contro ventisette navi nemiche, le quali d'ogni intorno le avvolgevano. I marinai di quelle nostre sette navi, tremila e cinquecento uomini in tutto, fecero mirabili prove di intrepidezza e di abilità contro ottomila nemici. Ma alla fine dovettero cedere. Allorchè il bravo capitano Capellini conobbe inutili tutti gli sforzi per domare l'incendio della sua nave, ordinò che si trasportassero sul Governolo prima i feriti e gli infermi, indi l'intero equipaggio, ma egli non voleva abbandonare il suo legno. Gli uomini dal canto loro ricusavano di separarsi dal lor capitano. Mentre si dibatteva questa generosa, ma intempestiva gara, le due flotte udirono un'orrenda detonazione. Fu lo scoppio della Santa Barbara della Palestro. Fra i trecento uomini del suo equipaggio, venti soli furon salvi. Non eran passate che due ore dal principio della battaglia di Lissa. Lo scoppio della Palestro ne segnò la fine.

Tale è la gravità, e tanto grande il numero degli errori commessi dai comandanti Italiani di terra e di mare in questa guerra, che alcuni sospettarono, ed ancor sospettano, esservi stato un accordo secreto fra Napoleone terzo, l'Austria ed il Ministero italiano, per fare che gl'Italiani si lasciassero battere, onde contentar l'amor proprio degli Austriaci, i quali in compenso avrebbero ceduto la Venezia a Napoleone, ed egli all'Italia, come poscia di fatto avvenne. Io non credo che esistesse un così tenebroso disegno; e ciò per diverse ragioni, ma principalmente per questa, che nessun uomo onesto poteva aderirvi, e tanto Vittorio come Lamarmora erano onesti.

L'amor proprio nazionale degl'Italiani ebbe un'insufficiente ma pure apprezzata consolazione dalle piccole vittorie di Cialdini a Borgoforte sul Po, di Medici a sinistra del lago di Garda; ma più dalle vittorie di Garibaldi alla destra del medesimo lago. Furon vittorie piccole ancor esse, ma interessanti, ed io mi accingo a raccontarle con proporzionata larghezza.

Il governo non voleva concedere che si arruolassero per Garibaldi più di venti mila volontari, ma in pochi giorni ne accorsero a farsi inscrivere, presso i comitati arruolatori, ben quarantaquattro mila. Ne sarebbero venuti assai di più ancora se non si chiudevano per ordine superiore i ruoli. Queste quarantaquattro migliaja d'uomini si componevano in parte di anziani, i quali avevano oltrepassato l'età richiesta per servire nell'esercito regolare, ma comprendevano un maggior numero di giovanetti dai diciassette ai venti anni. La separazione dei volontarii in due lontani corpi, uno a settentrione e l'altro a mezzogiorno, era stata ordinata dal ministero col pretesto di minacciar l'Austria nella sua estrema punta di Dalmazia, ma più veramente, credo io, per una ingiuriosa diffidenza contro la lealtà ed il senno dei volontarii. Si temeva che invece di andar a combattere gli Austriaci, volessimo proclamar la Repubblica.

Tutto il corpo d'armata garibaldino fu spartito in dieci grossi reggimenti, contenenti in media quattro mila e quattrocento uomini, e suddivisi ciascheduno di essi, in ventiquattro compagnie. Eravi una compagnia di cavalleggeri, chiamati le guide di Garibaldi, generalmente giovani di agiate famiglie, ciascuno dei quali aveva il cavallo del proprio. Malgrado la piccolezza del numero prestarono degli utili servigi, per le ricognizioni, e per recare con celerità i dispacci. Dei servigi molto più utili ancora furon prestati da un piccol parco di artiglieria, somministrato al corpo di Garibaldi dall'esercito regolare. Consisteva in una batteria da montagna, e sei batterie di campo, da sei pezzi l'una; tutto sotto il comando del prode ed abilissimo maggiore Dogliotti.

Finalmente i cinque reggimenti garibaldini che erano nella Terra di Bari furon chiamati a riunirsi agli altri cinque che erano già presso Garibaldi nell'Alta Italia. Giunsero troppo tardi per prender parte diretta od indiretta alla battaglia di Custoza. Serbo la personale rimembranza che il sesto reggimento, nel quale io militava sotto il colonnello Nicotera, giunse a Brescia nella sera del 24 giugno, e che vedemmo con dolore passare davanti a noi il principe Amedeo ferito, il quale veniva a farsi curare a Brescia. Chi non vede che quarantaquattro mila uomini comandati da Garibaldi, alla sinistra del bravo esercito regolare, avrebbero potuto e dovuto dar un esito, diverso da quello che s'ebbe, alla battaglia di Custoza?

Benchè per le improvvide disposizioni ministeriali, il corpo Garibaldino non sia giunto in tempo per prestare un efficace ajuto all'esercito regolare nella principal sua battaglia contro l'esercito Austriaco, pure era importante non meno che arduo l'uffizio che Garibaldi aspirava a compiere: liberare l'Italiana provincia di Trento, detta il Tirolo Italiano, dal dominio Austriaco; togliere alle truppe imperiali quella comunicazione fra Vienna e Verona, ed effettuare questo disegno attraverso alle irte cime ed alle strette gole delle Alpi Retiche. Sua base immediata era la città di Brescia; il suo immediato obbiettivo era Trento. I quarantaquattro mila volontarii di Garibaldi, giovani per la maggior parte inesperti della milizia, erano tutti vestiti della pittoresca camicia rossa, con berretto rosso e calzoni turchini, ed una coperta di lana, rotolata ad armacollo. L'arma era un fucile a canna liscia, ed a percussione, con bajonetta.

Contro di noi stavano sedici mila Austriaci dell'esercito regolare ottimamente armati con fucili rigati da lungo tiro e con abbondante artiglieria. Loro comandante era il generale Kouhn. Ai militi regolari si aggiungevano i volontarii di Vienna, e molti volontarii pure del Tirolo Tedesco, sventuratamente ancora alcuni del Tirolo Italiano: tutti valenti tiratori di carabina.

Gli Austriaci avevano inoltre una flottiglia di sei vapori di guerra sul lago di Garda. Queste piccole navi da guerra recarono molestie e qualche piccolo danno all'esercito Garibaldino, mentre marciavamo sulla sponda destra del lago, e mentre per pochi giorni stanziammo a Salò e nei contorni. Ma la campagna Garibaldina attiva fu aperta da un combattimento relativamente importante di avanguardia nel giorno 3 di luglio, nel quale pure avvenne, al di delle Alpi, una battaglia assai più grande, cioè la battaglia decisiva di tutta quella guerra, a Sadowa, della quale abbiam già veduto una succinta descrizione. Il combattimento Garibaldino di quel giorno fu sostenuto da due reggimenti nostri, condotti dal colonnello Corte, e da una batteria da montagna, colla presenza del general Garibaldi, a Monte Suello sulla destra del lago d'Idro. Abbastanza gravi furon le perdite da ambo i lati. Garibaldi stesso vi fu ferito in una gamba. L'esito parve dapprima indeciso, perchè ambedue le parti contendenti riposarono sul campo di battaglia: ma l'indomani 4 luglio la vittoria si chiarì per noi, avendo gli Austriaci abbandonato la posizione. In quel giorno appunto Garibaldi compiva l'anno suo cinquantesimo nono. Non era una ben grave età; ma la ferita di Monte Suello, aggiunta alle vestigia di quella di Aspromonte e di altre, ed a' suoi vecchi reumatismi, gl'impedì d'allora in poi di montare a cavallo. Non per questo voll'egli andare all'ospedale. Fasciata alla meglio la gamba, continuò a prender parte personale ai combattimenti in quella campagna, come in quella di Francia nel 1870, e 1871, andando in carrozza. Nella campagna del 1867 attraverso all'agro romano, mal fornito di strade, lo mettevamo colle nostre braccia a cavallo, ove stava ancora abbastanza bene.

Certo è non pertanto che gli venne meno una qualche parte della sua efficacia personale, non avendo più facoltà di correre rapidamente a cavallo di posizione in posizione, per osservar lo stato delle cose, ed animare coll'aspetto e colla voce i soldati. Tuttavia era sempre mirabile il suo colpo d'occhio militare. In modo pronto e magistrale additava sul terreno o sulla carta topografica le posizioni, ed indicava, con poche parole chiare e precise, il da farsi. I suoi uffiziali di stato maggiore, nulla avrebbero potuto far di meglio che eseguire puntualmente i suoi ordini; ma spesso avevano la presunzione di variarli in peggio, imaginandosi di correggerli.

Dopo il buon successo di Monte Suello, la vanguardia garibaldina fece un passo innanzi, ed occupò Lodrone. Gli Austriaci tentarono di scacciarnela, ma furono respinti essi medesimi dall'artiglieria, nel giorno sette. Così Garibaldi potè inoltrarsi di più sulla destra sponda del Chiese nella parte del fiume superiore al lago d'Idro, sino a Storo, ove stabilì il suo quartier generale. Imperocchè quello è un buon punto strategico, confluendo colà due lunghe e strette valli fra irti monti. Una delle quali valli, chiamata la valle Giudicaria, salendo lungo il Chiese conduce, per Condino, Pieve di Buono e Tione, a Sarche: e l'altra, chiamata la valle d'Ampola, conduce per Bececca, Pieve di Ledro, e Riva allo stesso punto di Sarche. Da Sarche la via riunita conduce, per breve e comodo tratto, a Trento. Senonchè la prima di quelle due strade, alla sinistra di Garibaldi, era sbarrata dal forte Lardaro; e l'altra, a destra, era sbarrata prima dal piccolo forte d'Ampola, e più lungi dai forti di Riva, presso la punta superiore del lago di Garda.

Garibaldi pertanto andava tastando il terreno a destra e a sinistra per tener divisa l'attenzione del nemico, e vedere qual delle due vie potesse più facilmente a noi aprirsi, verso l'agognata meta di Trento. Dapprima fece occupare alla sua sinistra, sul Chiese, cinque chilometri sopra Storo, il piccolo paese di Condino dal sesto reggimento, che era, come già dissi, comandato dal Nicotera.

Nel mattino del 16 luglio, gli Austriaci, avendo occupato alla nostra sinistra il paese di Cimego, posto sopra un'altura a poca distanza dal Chiese, ed alla nostra destra la cresta di una lunga montagna, o contrafforte come si dice in linguaggio geografico, fra il fiume Chiese e la valle d'Ampola, attaccarono con furia il nostro reggimento da tre parti. Noi femmo non breve resistenza dalla ripa destra del fiume, e benchè questo sia troppo rapido e profondo per essere comodamente guadato, pur ne tentammo il guado, di fronte al posto chiamato la Casa del Diavolo, un poco al disotto del ponte di Cimego, per andare a scacciar gli Austriaci dalle loro vantaggiose posizioni. Alcuni furon travolti dalle onde, o per la rapidità di esse o pei colpi delle palle nemiche. Altri, in maggior numero, ed io fra quelli, fermaronsi in una isoletta in mezzo al fiume. Di tiravamo contro i nemici, ma per la poca portata dei nostri fucili e per la distanza e buona posizione dei nemici, pochi di questi erano colpiti, mentre i colpi delle lor carabine di precisione, tirati dall'alto, uccisero o ferirono parecchi dei nostri. Ne ebbi io stesso una forte contusione o ferita priva di gravità, avendomi un grosso bottone nel mezzo del petto servito da usbergo. Quasi contemporaneamente alla mia lieve ferita, ne ebbe una mortale il prode maggiore Lombardi, il quale cadde e spirò sul ponte di Cimego.

Si credette necessario il ritirarci sulla riva destra del fiume. Intanto gli Austriaci inoltrandosi su per la cresta del montuoso contrafforte da me dianzi indicato, giunsero sin sopra Storo, e cominciarono a tempestare dall'alto una grandine di palle sul quartiere di Garibaldi. Il generale li fece respingere per mezzo del nono reggimento comandato dal suo figlio Menotti. Il bravo maggiore Dogliotti, puntati acconciamente i suoi cannoni, presso la Chiesa di San Lorenzo a sinistra del Chiese, e presso il ponte del Giuli a destra del Chiese, danneggiò gravemente i nemici, e li determinò ad una generale ritirata. L'indomani ci avanzammo ad occupare Cimego ed il ponte del Chiese vicino a Cimego. In quel giorno stesso Dogliotti attaccò il forte di Ampola che si arrese dopo due giorni, cioè il diciannove. Fra i pochi morti nell'attacco fuvvi il tenente d'artiglieria Alasia.

Garibaldi profittando del vantaggio di avere sgombra la sua strada a destra, per la caduta del forte d'Ampola, fece avanzare alcuni de' suoi reggimenti da Storo a Bececca, e sino al piccolissimo lago di Ledro, alla distanza di sette chilometri dal gran lago di Garda. Ne seguì la battaglia di Bececca (malamente scritto Bezzecca da altri) che fu il più importante fatto d'armi di tutta quella campagna garibaldina.

Imperocchè le nostre colonne, nell'avanzarsi, furono sorprese ed attaccate contemporaneamente in tre parti, dalle colonne austriache che avevano combattuto cinque giorni prima a Condino e da altre uscite dai forti di Lardaro e di Riva. Perì nei primi scontri, fra gli altri, il colonnello Chiassi, ed i nostri retrocessero lasciando alcuni prigionieri in mano dei nemici. Garibaldi stesso corse qualche pericolo personale; ma anche qui l'artiglieria di Dogliotti fermò i progressi degli Austriaci. Il maggiore Stefano Canzio, raccolti attorno a lui i più valorosi dei varii corpi che cominciavano a mescolarsi alla rinfusa ed ancora a sbandarsi, formò una piccola colonna d'attacco; e precipitatosi senza fare un tiro sul nemico, lo ricacciò colla bajonetta nelle reni in disordine da tutte le posizioni che occupava. Da quel momento la ritirata del nemico divenne generale, ed i nostri lo seguirono oltre Locca. Nel giorno stesso il combattimento alla sinistra di Garibaldi fu sostenuto onorevolmente dalla brigata Nicotera, cioè dai due reggimenti sesto ed ottavo. Nel comando del primo il tenente colonnello Sprovieri era succeduto al Nicotera; l'altro era comandato dal colonnello Carbonelli.

Garibaldi cominciava i preparativi per assediare il forte Lardaro. Intanto Medici, alla testa di una forte colonna di truppe regolari, si era avanzato vittoriosamente sull'Adige, sino a Levico ed a Pergine; luoghi poco distanti da Trento. Ma nelle prime ore del giorno 24 di luglio ci giunse avviso di un armistizio combinato per otto giorni, e che tutti i corpi militari non dovevano oltrepassare i luoghi dove si sarebbero rispettivamente trovati alle ore dieci antimeridiane. La guida Giuseppe Mazzacorati, mio amico, ed ottimo cavallerizzo, montò a cavallo e corse a spron battuto da Condino sino a Creto, o Pieve di Buono, quasi sotto il tiro del forte Lardaro; e, cavato l'orologio di saccoccia, e mostrando che non erano ancor le dieci, disse agli abitanti del paese, maravigliati ma non malcontenti: prendo possesso di questo paese in nome del Re d'Italia. Poco dopo vi giunsi io a piedi, e feci esporre una bandiera a tre colori. Non l'avevano esposta prima, pel timore del ritorno degli Austriaci. Piccole cose invero, ma furon gli ultimi due fatti di quella grande e terribile guerra.

Garibaldi portò a Pieve di Buono il suo quartier generale; ma dopo alquanti giorni ricevette e lesse l'ordine di retrocedere. Tutti attorno a lui erano costernati od indignati; ma egli tranquillamente disse: Sono soldato; ubbidisco.

Il cordoglio pei disastri di Custoza e di Lissa, in un collo sdegno per l'abbandono del Tirolo italiano, imposto a Garibaldi, e le mene di un partito autonomista, fecero prorompere a Palermo un serio movimento, al quale si credette opportuno di dare una forma repubblicana. Garibaldi fu pregato di andare ad assumerne la direzione. Egli rifiutò, affermandosi sempre pronto a combattere lo straniero, ma non il governo nazionale. Non voglio, aggiunse, imitare i pronunciamenti dei generali Spagnuoli. — Ma è per causa di libertà, gli dissero. — Ed egli: se oggi io facessi un pronunciamento per la libertà, domani potrebbe altri farne uno pel dispotismo.

Per altro le conseguenze politiche della sconfitta che gl'Italiani ebbero dall'Austria, e di quella che gli Austriaci ebbero dalla Prussia, furono umilianti bensì ma non disastrose pei vinti. L'Austria, per l'effetto politico delle vittorie Prussiane, fu esclusa dalla presidenza e dalla partecipazione alla Confederazione Germanica. Questa prese il nome di Impero Germanico, e ne fu dichiarato presidente il re di Prussia. Al regno di Prussia furono annessi come semplici provincie il regno di Annover, i ducati di Assia Elettorale e Superiore, e le repubbliche di Francoforte e di Amburgo. Il Parlamento del novello impero Germanico si aperse a Berlino nel giorno 24 di febbrajo del seguente anno 1867. L'Austria, sperando di far cessare l'inimistà dell'Italia contro di lei pur umiliandola, cedette il Veneto alla Francia, con reciproco intendimento che la Francia lo cedesse all'Italia, come avvenne. Così l'Italia ebbe una grave ferita al suo amor proprio nazionale, ma ottenne dalla sconfitta il premio sperato dalla vittoria, cioè Venezia. In quanto alla Casa d'Absburgo, se la disfatta toccata al suo esercito a Sadowa fu per lei una grave, ed oso dire anche ben meritata castigazione, riuscì ad un tempo una reale fortuna per le popolazioni del suo impero. Imperocchè non solamente Venezia e le sue provincie, che non volevano il dominio Austriaco, e che perciò erano per l'Austria un indebolimento e non una forza, ne furono emancipate, ma le popolazioni Austriache di dalle Alpi, in seguito di quella guerra, ottennero un governo migliore. Dopo le vittorie dei Russi e la caduta dell'Ungheria nel 1849, il governo Austriaco aveva trattato l'Ungheria da paese conquistato. Molti dei capi dell'insurrezione, e fra essi Batthyani, avevan sofferto l'estremo supplizio; Kossuth e molti altri avevan dovuto sceglier le vie dell'esilio. La costituzione era stata abolita non solo in Ungheria ma ancora nell'Austria propriamente detta. Però dopo la salutar lezione di Sadowa la costituzione fu ripristinata, e finora è stata lealmente mantenuta ed osservata.

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Stimo cosa utile di aggiugner qui un'appendice più breve, ma di carattere simile a quella che aggiunsi al capitolo relativo alla guerra del 1859, e come complemento di quella.

Le grandi e non fortuite coincidenze storiche notate in quell'appendice indicano un'influenza provvidenziale favorevole all'Italia e alla libertà delle nazioni. Una significazione opposta sembra invece appartenere a quest'altra notabile coincidenza: la seconda battaglia di Custoza fu perduta dagli Italiani il 24 di giugno 1866, cioè nel settimo giorno anniversario della loro vittoria a San Martino.

La risposta che potrei fare a questa difficoltà nella mia qualità di istorico, è molto facile, ma insufficiente: vinsero gl'Italiani nel 1859 perchè commisero pochi errori, e perchè avevano al fianco il potente ajuto di Francia: furono vinti a Custoza il 25 luglio 1848, e di nuovo il 24 di giugno 1866, in quel medesimo luogo, perchè in queste due campagne i generali italiani violarono per ignoranza la regola fondamentale della strategia, la quale invece fu egregiamente osservata dai generali austriaci.

Ma per quale fatale combinazione capitarono gl'Italiani ad essere ben diretti nel 1859, e mal diretti a Custoza nel 1866, da quel medesimo re Vittorio Emanuele il quale doveva allora possedere maggior esperienza, ed era ancora nel fiore dell'età, di 46 anni; e tutto ciò nel ventesimo quarto giorno di giugno, preciso anniversario della battaglia di San Martino, e sul medesimo luogo ove suo padre, ed egli stesso come comandante subalterno, perdettero la prima battaglia di Custoza? Considerate di più che Vittorio Emanuele non aveva a San Martino che una forza numericamente eguale a quella a lui opposta, mentre aveva a sua totale disposizione, un esercito più che doppio dell'Austriaco a Custoza.

Senza dubbio il 24 di giugno, del sesto mese, secondo il profetico linguaggio di Aggeo, è uno dei 365, ovvero 366 giorni dell'anno, e Custoza è una delle molte migliaja di luoghi dove si può vincere o perdere una battaglia. Ma quando il giuocatore di bigliardo colpisce la palla dell'avversario in guisa che rimbalzando questa sulla sponda va ad atterrare i pezzetti d'avorio, dite voi forse che ciò non prova l'abilità del giuocatore, attesochè le palle, le sponde e i birilli si trovano di sicuro sulla tavola? E poichè tutte le parole di Dante, nessuna eccettuata, sono registrate nel Dizionario della Crusca, direste voi che basta accozzar insieme quelle parole in un modo qualunque, per comporre la Divina Commedia?

Qui è necessario tor la parola, per così dire, al semplice istorico, e renderla all'autore del libro filosofico-teologico, Dio Liberale, affinchè difenda l'interpretazione provvidenziale da lui assegnata alle coincidenze fra le date dei grandi avvenimenti storici.

È vera in parte la parodia che fanno con ischerno i materialisti: l'uomo ha fatto Dio a sua imagine; ma hanno altresì un senso arcano, pur vero, le sublimi parole della Bibbia: Dio fece l'uomo a sua propria imagine e similitudine.

Nell'infinito seno di Dio si agitano delle passioni sublimi ed auguste, ma somiglianti a quelle del capo-lavoro della sua creazione. Quasi per togliere la monotona noja della sua eternità egli si degna spesso di commettere degli scherzi umani di numeri e di parole. L'Altissimo disse: Io ho largito agli uomini un'infinitesima parte della mia intelligenza: tutti sanno il più necessario, ma diversi conoscono soltanto diverse parti di ciò che è bello ed utile a comprendersi. Gli scienziati di professione investigheranno e scopriranno or una or altra porzione dello scibile immenso, ma sovente saranno più penuriosi di senso comune che il povero operajo. Io ho fatto non solo la luce ma le sostanze per costruire un microscopio. Ed avverrà che alcuni dei fisici ed anatomisti giovandosi del microscopio scorgeranno nella struttura degli animali e delle piante alcuno dei più minuti organismi che io vi posi, e che sfuggono all'occhio disarmato: costoro sarebbero incapaci di formare il principio della zampa di un moscerino, ma si imagineranno di saperne più di me, che ho fatto il moscerino, e l'elefante, e l'uomo ed il sole e le stelle.

Disse ancora Iddio: il più santo de' miei servi in terra sarà Gesù Cristo: ma egli sarà per me qualche cosa di più che un servitore, sarò io stesso impicciolito nella forma umana. Cristo dirà a tutti: amatevi: ma i disgra-ziati risponderanno troppo spesso coll'odio reciproco in luogo dell'amore.

Perciò vi saranno per alcuni secoli le guerre distruggitrici: ma io traendo il bene dal male farò servir anche le guerre a edificare, ed a promuovere l'incivilimento. Servirommi più specialmente di due popoli a me diletti, i Greci ed i Romani. Nelle circostanze più decisive accorderò la vittoria ai popoli a me più cari degli altri, ma non sempre, affinchè non divengano troppo orgogliosi. Memorabili fra le altre saranno la battaglia di Maratona, dove diecimila ateniesi sbaraglieranno centoventimila persiani, e la battaglia navale di Salamina, dove poche migliaja di Greci sconfiggeranno il più numeroso esercito di cui farà menzione la storia. Se io non ajutassi i pochi difensori della libertà e della civiltà, per l'ordinaria forza delle cose tutta la terra soggiacerebbe alla tirannide ed alle barbarie. Tutti i popoli mi sono cari, e tutti li farò liberi un giorno: ma nel secondo millennio di mio figlio, mi interesserò specialmente di due popoli, nonostante i loro grandi difetti; gl'Italiani e i Francesi.

Il mio servo Aggeo predirà il giorno e le circostanze di una vittoria unita dei Francesi ed Italiani. Un altro mio povero servitore segnalerà le parole di Aggeo, ed i prodigi di date, nelle quali mi piace di divertirmi. Le viziose marmotte in forma umana, che insegneranno essere il mondo non fatto da me, ma dal caso, si rideranno di lui, e delle sue e mie coincidenze. Italiani e Francesi crederanno di aver vinto a San Martino e Solferino pel loro solo valore, e nessuno mi renderà grazie. I preti italiani che avrebbero alzato degli inni da me abbominati, se vincitori fossero stati gli Austriaci, deploreranno la vittoria di un popolo che vuol infrangere le sue catene. Ma io con temperamento di rigore e di misericordia, punirò la ingratitudine degli Italiani, umiliandoli a Custoza nel giorno anniversario della battaglia di San Martino, e punirò la tracotanza dei Francesi umiliandoli a Sédan nel giorno anniversario della battaglia di Maratona. Pur non rinunziando alla mia bontà malgrado i loro demeriti, farò sì che la condizione politica dell'Italia e della Francia sia meno cattiva che prima delle loro sconfitte.

In quanto ai preti italiani io li punirò in parte facendo cadere l'infausto potere politico del Papa-Re nel giorno anniversario di Salamina.


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