IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Credo di essere tenuto, nel momento in cui presento questo lavoro, a premettere alcune precisazioni e dei chiarimenti, giacché con esso non ho inteso fare uno scritto di storia della filosofia, nel senso sotto cui di solito questa si prende, contrariamente a quel che il titolo potrebbe far pensare. Noi viviamo in un periodo in cui la storia, come categoria in genere, è entrata nel numero dei dati di cui si deve tener conto quando con la mente ci sforziamo di dare interpretazione alle cose, e per far ciò tentiamo di unificare in una sola immagine o in una sola organizzazione di concetti quello che tutte le cose, ciascuna per sé presa, sono: e questo ingresso non è servito certo a facilitare gli sforzi e i tentativi.
Il concetto di storia non è un dato pacifico già di per sé, e ancor meno pacifico diventa se lo mettiamo in relazione sia coi concetti degli altri enti con cui lo dovremmo unificare sia con le sue stesse determinazioni, ossia con le varie storie dei vari enti ciascuno dei quali ha pur diritto ad avere una sua storia. Mi pare che il problema si lasci accostare abbastanza agevolmente, quando lo si divida in almeno alcune delle sue componenti e ci si metta davanti agli occhi che, se da un lato si tratta di stabilire che cosa si deve intendere in genere per storia, dall’altro ci si impegna a decidere se, sotto al punto di vista scelto, una storia sia possibile, e se da una parte il fatto che il concetto di storia è uno, voglia che la sua definizione e il metodo che ne sgorga siano univoci qualunque sia l’oggetto di cui si vuole fare storia, dall’altra non s’imponga il controllo se gli oggetti siano tali da tollerare tutti l’unicità del metodo storiografico- 10 -
con cui se ne fa la storia. Come si vede, non ho affatto intenzione qui di dar fondo allo sdipanamento degli intrichi che l’entrata della nozione di storia nell’esame delle cose ha suscitati.
Sembra, anzitutto, che fare della storia voglia dire prendere il corso delle cose umane e, o considerandolo nella sua interezza o dividendolo in porzioni più o meno estese, descriverne la totalità o una parte; pare ancora, che la descrizione debba venir organizzata in modo che ciascuna componente o del tutto o della parte in tutti i suoi aspetti venga dipinta con la più minuziosa e scrupolosa delle precisioni e in modo che ciascuno di questi aspetti rilevati trovi la sua ragione in un certo rapporto, che evidentemente ci si preoccuperà di rappresentare con un’identica analisi, che lo vincola a uno o a un gruppo di altri aspetti o simultanei o antecedenti o successivi; ma non basta: l’organismo della descrizione vien montato in modo che ogni qualità di ogni aspetto e di ogni rapporto rappresentati risulti differente non soltanto da quella degli altri aspetti e rapporti simultanei, ma soprattutto da quelle che entro lo stesso aspetto o rapporto si danno in momenti diversi. La storiografia, quindi, ha un suo presupposto, che la qualificazione delle cose umane che costellano il divenire diacronico sia caratterizzata dalla nota dell’eterogeneità e che l’eterogeneità sia in dipendenza funzionale dalla differenza degli istanti in cui le cose umane, così qualificate, si danno. Lasciamo in sospeso la questione se il presupposto goda oppur no di legittimità grazie al fatto di risultare come dato non tanto da questo che entri a condizionare l’umana opera storiografica, quanto da questo che le cose umane sono veramente così: diamo questo per scontato. Ci interessa piuttosto rilevare che il presupposto è sufficiente soltanto finché serve a guidare una descrizione storica che si limiti ad esser tale e che si fermi al livello fenomenico del diverso, al piano in cui un aspetto di una cosa non è quello che è un altro e non è quello sotto cui nella stessa cosa appare in un altro momento; in questa sua modalità il presupposto viene a coincidere con la teoria della storia che le cose umane si succedono sempre differenti nel tempo e che di questo loro tipo di esistenza non è lecito dir di più perché non è niente di più.
Ma se interviene l’intendimento, se cioè la coscienza che descrive - 11 -si mette a guardare quella corrente di diversi con alcuni dei mezzi o meglio dei fini che usa come punti di vista quando guarda un complesso di diversi in generale e si dà a cercare quali enti costantemente si ripetano uguali entro la coltre dell’eterogeneità epidermica e momentaneamente celati sotto di essa, oppure quale meta stia dinanzi a questi differenti le cui diversità reciproche sono la condizione per cui essi costituiscono un divenire di cui è lecito fare storia, allora il presupposto non basta più, perché la coscienza che dovrebbe utilizzarlo ha modificato gli intendimenti da cui muove per conoscere le cose umane, e non vuol più rappresentarle solo come dei diversi, ma pretende trovare la ragione sufficiente del rapporto di dipendenza funzionale della diversità dei diversi dalla loro successione nel tempo, senza con questo ledere in nulla il presupposto stesso nella sua originaria schematicità: e poiché una ragion sufficiente non mi pare che fino a questo momento la nostra mente sia riuscita a farla coincidere se non o con una causa efficiente o con una causa finale o con l’attuazione apodittica di un potenziale o con l’attuazione contingente di un potenziale, la storia, appena la coscienza che la costruisce passa dal piano del mero sensoriale a quello dell’intellettivo, vede determinarsi il suo presupposto in vari modi differenti che divengono altrettanti nuovi presupposti che ne guidano l’attuazione, e, quindi, altrettante nuove teorie storiografiche da cui è influenzato il primitivo metodo, non nel senso che ne venga alterato nella sua originaria modalità di non tradire mai il criterio di vedere nei successivi nel tempo sempre e soltanto dei differenti, ma nel senso che ne viene arricchito; infatti, sarà tenuto a confortare questo rapporto fra la differenza delle qualità e la differenza nel tempo con l’aggiunta alle tonalità di ogni aspetto o gruppo di aspetti secondo cui esso, come successivo e come antecedente è altro dagli antecedenti e dai successivi, di ulteriori toni componenti, immediatamente palesi o da scoprirsi perché immediatamente celati, i quali giustificano e dan la ragione del rapporto. Resta fisso che l’aggiunta o determinazione non ha il diritto di alterare il contenuto fondamentale del presupposto, con la conseguenza che il ricorso a uno di quei quattro tipi di ragion sufficiente deve ben guardarsi dal sostituire a una effettiva successione di diversi una- 12 -successione di diversi che finisca per essere solo apparente, e, quindi, deve far intervenire il concetto scelto senza annullare la potestà modificatrice del tempo. L’uso poi di una delle connotazioni della ragion sufficiente in genere ha la liceità di essere vario, donde la varietà delle teorie della storia che pure hanno al disotto l’accettazione di un comune punto di vista o concetto.
Alle teorie finalistiche è lecito concepire il traguardo delle cose umane in successione o come uno stato ultimo assoluto o come uno stato ultimo relativo. Nel primo caso, è ancora loro lecito connotare lo stato ultimo come l’unità organica di componenti, che sono aspetti o rapporti delle cose umane, differenti qualitativamente e cronologicamente concomitanti, e che hanno ciascuna, sia in sé sia nei rapporti che le legano alle altre sia in quelle loro porzioni in funzione delle quali ognuno dei rapporti si pone e ognuna delle quali è quel che è in funzione di ognuno dei rapporti, conseguito una perfezione insuperabile di modi qualitativi e quantitativi, oppure hanno il diritto di assegnare ai modi qualitativi e quantitativi delle componenti di quello stato ultimo, sia in sé sia nei loro rapporti con le simultanee sia nelle loro porzioni in collegamento funzionale con questi rapporti, la massima possibile delle imperfezioni o degenerazioni. Per una teoria, invece, per la quale lo stato ultimo è un relativo, è legittimo trattare da un lato questo stato come una condizione di perfezione o di imperfezione nella qualità e nella quantità, dall’altro la sua relatività come una sua necessaria soggezione a un confronto con un nuovo e cronologicamente posteriore stato di cose umane entro il quale i modi qualitativi e quantitativi di queste raggiungono un’intensità di perfezione o di imperfezione ancora più acuta oppure vedono l’antecedente perfezione o imperfezione tramutarsi rispettivamente nel proprio contrario; e, in quest’ultimo caso, è altrettanto legittimo, almeno rispetto al principio da cui si parte, attribuire alla metamorfosi della successione un termine che è insuperabile e si dà come uno stato ultimo assoluto, o che è esso pure superabile e si dà come uno stato ultimo relativo, oppure fare della metamorfosi una condizione inalterabile della successione, con la conseguenza che la gradazione della perfezione qualitativa e quantitativa presente nelle cose umane, o, il che fa lo stesso,- 13 -della loro imperfezione, prende l’andamento sinusoidale di determinazioni quantitative differenti in alterna successione. Di qui il variare della teoria-presupposto che vede nelle cose umane un diversificarsi nel tempo coincidente con un progresso o con un regresso definitivi, quella che del diversificarsi diacronico delle stesse cose fa un progresso o un regresso all’infinito, quella che avrebbe la liceità di disegnare metaforicamente il diversificarsi o come un’iperbole, con gli estremi senza fine o con il ramo ascendente proiettato all’infinito, o come una parabola, da tracciarsi o nell’uno o nell’altro di questi due modi, o come una sinusoide indefinita; di qui, s’intende, altrettante corrispettive metodiche e altrettanti corrispettivi impegni ad affiancare alle diversità qualitative degli aspetti delle cose umane in successione le note in essi immanenti per le quali le qualità e le quantità proprie di essi sono un più o un meno di quelle peculiari di quel che vien prima o di quel che segue, vale a dire a fare delle proposizioni storiografiche dei giudizi sia di mera attribuzione di predicati a soggetti sia di valore.
Alle teorie, nelle quali il principio-presupposto determina se stesso con l’acquisto di una ragion sufficiente di quel rapporto funzionale, di cui parliamo sopra, la quale coincida con una causa effettrice, non resta che istituire, o per deduzione o per induzione, una legge o un sistema di leggi ed attribuire all’una o all’altro da un lato la peculiarità di immanere come elemento immutabile ed ineliminabile in tutti i momenti o fasi del divenire delle cose umane, dall’altro l’ufficio di intervenire costantemente ed uniformemente entro tutti o alcuni, i fondamentali, rapporti particolari colleganti un antecedente a un successivo al fine non di determinare le qualità speciali che caratterizzano ciascuno dei rapporti, ma di sottoporre il successivo alla ineluttabile necessità di entrare nell’esistenza con qualificazioni altre da quelle dell’antecedente per il mero fatto generale di essere un successivo; col che l’immanenza della legge o del sistema di leggi entro l’umano provoca la costanza della dipendenza funzionale del mutamento qualitativo dell’umano dal divenire nel tempo e ne è la causa efficiente sotto un punto di vista, la ragion sufficiente sotto un altro, sotto un terzo punto di vista ancora, è garanzia della sua permanenza e quindi della permanenza- 14 -del succedersi di diverso a diverso, perché evidentemente basta che si dia nell’esistenza un primo umano, qualificato dai suoi modi speciali che non hanno la liceità di non esistere e di non determinarlo – poco importa che questo primo sia da pensarsi come un assoluto o come un soggettivo, convenzionalmente o arbitrariamente adottato a principio -, basta questo perché la legislazione scatti assieme al darsi di un tempo, ponga entro quel succedente, che il tempo trae all’esistere, la necessaria differenziazione qualitativa dal primo e trasporti il succedente nelle stesse condizioni del primo nei confronti di quel che gli succederà, non appena quest’ulteriore succedente debba darsi per via del tempo. Poco importa che quella legalità della storia riceva, a sua volta, la liceità di determinarsi in tanti modi che saranno altrettante teorie, le quali, però, saranno costrette a uniformarsi nell’essenza fondamentale o nota generica del loro punto di vista – al quale, tra l’altro, non sarà lecito scostarsi troppo dal concetto formale della relazione per contraddizione che diviene il modulo essenziale cui più o meno debbono rifarsi le differenti connotazioni di quella legalità -; interessa, invece, anzitutto che tutte le teorie di questo tipo immetteranno nel loro principio-presupposto l’ulteriore denotante della legalità con le funzioni di ragion sufficiente di quel restante della connotazione che è il rapporto funzionale tra il darsi in una successione temporale delle cose umane e il loro darsi con differenze qualitative reciproche, poi che sotto l’influsso di questa presa di posizione originaria dovrà variare il loro metodo per la cui applicazione le proposizioni, costituenti nel loro complesso la storiografia di siffatte teorie, allineeranno a fianco di meri riferimenti di predicati a soggetti anche dei rilievi dati a questo o a quell’aspetto delle componenti della vicenda umana, il quale con la sua speciale conformazione qualitativa mostri il necessario suo collegarsi all’uno o all’altro aspetto di una o più componenti, e antecedenti e successive, secondo la modalità formale imposta dalla legge o dal sistema di leggi adottato.
I due modi, deterministico e finalistico, con cui si è garantito il mutarsi qualitativo delle cose umane nel tempo, in fondo non fanno altro che concretare, relativamente al problema che è insorto nel campo storico, uno dei modi con cui la relazione di ragion sufficiente- 15 - è pensata in generale, precisamente quello dell’alterità esistenziale fra la rappresentazione assunta a ragione e la rappresentazione che ne è fatta conseguenza; e, infatti, da un lato fra un diversificarsi delle cose umane successive nel tempo e lo stato di perfezione o di imperfezione cui il mutamento è orientato, dall’altro fra lo stesso mutare e la legge che vi immane e lo provoca, corre un rapporto di alterità esistenziale, se non altro perché nel primo caso il diversificarsi sta allo stato teleologico come una condizione a un condizionato, non essendoci però tra i due altra compartecipazione a qualcosa di comune e di identico tranne, tutt’al più, quella che è tipica di due cose che siano l’una parte e l’altra tutto – evidentemente, due successivi nel tempo, l’uno dei quali sia tappa intermedia e l’altro stato ultimo, assoluto o relativo, del divenire, non hanno la liceità di esser ridotti a meri gradi quantitativi o stati intensivi di una stessa cosa, altrimenti l’eterogeneità quantitativa si fa un mero apparente -, mentre, nel secondo caso, l’eterogeneità fra il momento storico coi suoi caratteri e la legge che lo regola è afferrabile immediatamente, essendo il primo un unico irripetibile, particolare, inidentificabile con altro, istantaneo, per dir così, l’altra un ripetentesi di necessità con qualificazioni sempre identiche che fanno di tutti i ripetuti suoi interventi nell’umano degli identificabili.
Ma l’immagine che la coscienza umana ha il diritto di darsi del rapporto di ragion sufficiente è anche un’altra, quella che fa della rappresentazione con funzioni di ragione un ente ideale dotato di un certo numero di note o modalità qualitative o quantitative e della rappresentazione che da questa dipende in qualità di conseguenza un secondo ente ideale le cui note o modalità qualitative o quantitative comprendono quelle della rappresentazione-ragione ed altre ancora; fra questo gruppo di note e l’altro c’è un ben preciso rapporto, per cui le prime risultano essere degli esistenti che non avrebbero la liceità di esistere senza le seconde, in quanto non sono se non queste stesse ampliatesi ad abbracciare certe proprietà o meglio variazioni che loro provengono dall’immergersi in una certa situazione, chiamiamola ambientale; è il rapporto che passa tra un genere e una specie; in tale connessione la rappresentazione che è ragione s’identifica con una porzione della rappresentazione che è conseguenza, e - 16 -la porzione della connotazione di quest’ultima, che oltrepassa, per dir così, l’area rappresentativa dell’altra, è tanto strettamente legata al resto della stessa connotazione, che è poi la comprensione della rappresentazione-ragione, che non pare lecito distinguerle in alcun modo; con la conseguenza che, se nella rappresentazione-ragione non è presente di fatto quanto le si aggiungerà entro la connotazione della rappresentazione-conseguenza, e se, d’altra parte, l’inscindibilità del vincolo tra le due porzioni è tale che, se non è lecito immaginare il sovraggiunto senza il pensamento di ciò cui esso si sovraggiunge, non pare lecito neppure immaginare il contrario, non resta che attribuire alla connotazione della rappresentazione-ragione il possesso delle denotanti che saranno poi presenti di fatto nella rappresentazione-conseguenza, ma allo stato di capacità in funzione di certe situazioni o condizioni. Rifacendosi a quest’immagine di cui la coscienza è capace, altre teorie della storia deducono o inducono, a sostegno della correlazione fra tempo e varietà di successione, la rappresentazione, entro la coscienza, di un antecedente, o logico o cronologico, da premettersi alla rappresentazione delle cose del divenire umano, come ragion sufficiente del variare delle componenti di questo al variare del tempo, e fanno della seconda l’immagine in cui è presente di fatto ossia nell’esistenza tutto ciò che nella prima non avrebbe la liceità di venir rappresentato perché assente di fatto, ma di cui alla prima dovrebbe esser attribuita la capacità, come facoltà di aggiungerlo alle sue modalità presenti di fatto purché e non appena si realizzasse a condizione il tempo; e poiché questo qualcosa, che nella rappresentazione del divenire storico è presente e che nella rappresentazione di quel principio del divenire è una mera capacità, è la relazione funzionale tra fluire del tempo e variare delle cose umane che fluiscono nel tempo, la rappresentazione del principio della storia si fa ragione del presupposto che deve essere accettato come il fondamento entro la storia perché una storia ci sia; in più, se è lecito alla coscienza attribuire alle modalità, di cui la rappresentazione –ragione possiede solo la capacità, una di due distinte determinazioni, quella di essere dei necessariamente determinati a realizzarsi nella rappresentazione-conseguenza allo scattare della condizione favorevole, e quella di essere degli sganciati dal realizzarsi della condizione- 17 -opportuna e, quindi, dei contingenti nei confronti delle rappresentazioni-conseguenze, le teorie, che si rifacciano a siffatto modo di pensare il rapporto di ragione, si sdoppiano, per così dire, in due classi eterogenee, a seconda che facciano dei diversi, che si danno nella successione diacronica in funzione del tempo, altrettante realizzazioni di capacità originarie che il tempo traduce necessariamente in reali, o che rompano l’ineluttabilità della dipendenza funzionale del succedersi dei diversi dal tempo a favore non di una sospensione o interruzione del nesso funzionale, ma di un’imprevedibilità dei diversi che si succedono nel tempo come realizzazioni di originarie capacità in forza dell’indeterminatezza con cui l’uno o l’altro di questi dati originari passa col darsi del tempo all’esistere. Anche per queste teorie, s’intende, è valida la parentela per omogeneità generica, ed anche per esse è valida la necessità di uniformare sia il principio-presupposto alla determinazione della ragion sufficiente di quello che è il presupposto comune della storia, sia il metodo con cui si faranno storiografie al principio adottato, dando vita, per quest’ultimo fine, a proposizioni, che sono predicazioni di attributi a soggetti, e a proposizioni, dalle quali risulti che l’attribuzione dei predicati ai soggetti è stata preceduta dalla rappresentazione di un’organizzazione tale di dati, che da essa scaturisca sia l’attribuzione come dato di fatto sia una sua preesistenza sotto forma di un attitudinario che era in attesa della condizione favorevole per tradursi in dato di fatto e che ritrovava in sé sia i modi posseduti sotto forma di attitudini che la condizione favorevole.
Si deve poi concludere col prender atto che queste due generali tendenze teoretiche, quella che si fonda sull’eterogeneizzazione che distingue il rapporto funzionale fra tempo e varietà nella successione dalla sua ragione, e quella che si basa su di un loro rapporto che in fin dei conti è di omogeneità, riescono anche a fondere i loro spunti originari e specifici, attingendo le prime qualcosa che è delle seconde e viceversa: e così una teoria storica trova la liceità di argomentare a sostegno del rapporto funzionale suddetto una legge o un sistema di leggi, i quali, però, non sono se non modalità o strumenti di cui quell’ente, che vien rappresentato con la capacità di attuare nella storia quel rapporto funzionale che in esso è mera attitudine,- 18 - fa, a lato del tempo, le condizioni favorevoli a tale realizzarsi, sicché per essa il divenire storico è un legale e insieme un orientato a uno stato ultimo di perfezione; come, insieme, è legittima una teoria storica che della finalità in vista di uno stato di perfezione e con una denotante di progresso fa il fondamento del rapporto funzionale, e che insieme non riesce a vedere come la successione per diversi si dia in funzione del tempo e contemporaneamente in funzione di un fine da raggiungersi, senza che ci sia qualcosa alle origini del divenire stesso che proponga il fine perché lo possiede come capacità e che riesca ad avviare un processo, che è sicuro progresso alla realizzazione di un fine, fuori dall’utilizzazione di un modo costante e immutabile di rapporto che colleghi il successivo all’eterogeneo antecedente e con la sua invariabilità assicuri l’immutato orientamento della successione.
Oltre a queste teorie della storia, che sono poi altrettanti principi da cui, con più o meno di consapevolezza, si deve partire per scrivere della storiografia, e che costituiscono anche altrettanti principi di metodiche, io non ne riesco a vedere altre. Certuni affermano, e credono di avere il diritto di farlo, che non è vero che ogni attività, che sia fare della storiografia, deve muovere da un’interpretazione delle cose umane che vi vede un incessante succedersi di stati con qualità diverse a stati con qualità diverse, e da un presupposto che enuncia la necessaria dipendenza funzionale della mutevole qualificazione dell’umano dallo scorrere del tempo e, con ciò, la necessaria storicità dell’umano, perché, essi dicono, tutti coloro che han fatto della storiografia cosiddetta pragmatica hanno avuto la liceità di utilizzare la descrizione del passato per una «paidea» dei contemporanei, e hanno dato descrizioni del passato in vista di fornire massime d’azione a chi vive nel presente, debbono evidentemente aver negato quel presupposto a favore dell’altro, di un’essenziale o appariscente o sotterraneamente profonda identità delle cose umane, nonostante il loro darsi nel tempo. Sarebbe questo il terzo tipo o la terza classe di teorie della storia. Conviene guardare a fondo questo criterio pragmatico: è lecito sia adottato da quanti muovono dal principio-presupposto di una regressività o involuzione o degenerazione dell’umano, in quanto è evidente che là dove c’è del qualitativamente- 19 -diverso, il quale però è al tempo stesso un meno rispetto a qualcosa che gli è eterogeneo, bisogna pure che ivi ci sia a lato delle differenze qualitative un residuo di identico in via di diminuzione - lasciamo qui da parte la grossa questione del come il diverso e l’identico si diano in unità nell’uno di questo o quel momento storico, che è questione che non è solo dei «regressisti» ma anche dei «progressisti» e che investe non solo la storia ma tutte le conoscenze in cui intervenga, a spiegare, dell’intelligibile con la sua connotazione caratterizzata dalla identità e legata con del diverso a costituire un’unità -, con la conseguenza che il divenire umano è segnato da un filone di omogeneità, sia pure in costante restringimento, entro il quale ogni componente, finché c’è, è un identico che è in indipendenza funzionale dal tempo e che resta quel che è e può venir utilizzato per quel che è nonostante il suo scorrere nel tempo; ma chi scrive la storia con questo presupposto rientra nell’indirizzo a eterogeneità fra dipendenza funzionale del diverso succedentesi dal tempo, e la sua ragion sufficiente, e per lui la pragmaticità o finalità educativa od orientativa in vista dell’agire valido nel presente è una mera conseguenza o denotante implicita del principio primo del suo metodo. Uno, invece, che descriva il passato per offrire a sé o ad altri direttive d’azione nel presente e si arroghi il diritto di far ciò deducendolo da un’invarianza dell’umano nel tempo e da un’indipendenza funzionale dell’umano dal tempo, è vero che si dà il presupposto che il tempo non agisce sulle cose umane, ma è altrettanto vero che tale presupposto lo deve connotare anche con la nota dell’essenziale identità di tutti gli aspetti che le cose umane assumono nei diversi momenti del tempo e con la nota della relatività o fenomenicità o accidentalità o contingenza delle differenze qualitative che quegli aspetti caratterizzano e specificano, e, quindi, con la nota della loro inesistenza o irrilevanza; allora, appena adottato quel presupposto, gli è benissimo lecito prendere una porzione dell’umano e descriverla con gli scopi di cui sopra, ma non gli è affatto lecito né allineare molteplici porzioni di questo umano, tutte o alcune di quelle che si danno attraversando inalterate il tempo, e decidere la scelta a favore di questa o di quella in quanto godente di un più qualitativo rispetto alle altre né tanto meno mettersi a descriverle tutte quante o parecchie; la sua scelta- 20 - dev’essere indifferente e la sua descrizione di una catena di cose umane in successione dev’essere una ripetizione di complessi di enunciati e di proposizioni costantemente identici; ma, con ciò, non fa della storia né della storiografia, ma semplifica e ripete, così come fanno tutti i descrittori di oggetti non appena li hanno assunti come degli enti ad essenza esclusivamente intelligibile. Mi pare che non sia lecito discutere che il concetto di storia è stabilmente connotato dalla concezione di una costante eterogeneità degli aspetti delle cose umane che sono nel tempo e dalla concezione che fra eterogeneità e tempo c’è, almeno per le cose umane, una dipendenza funzionale: alle varie teorie storiche non resta che determinare in uno o altro modo questo presupposto.
E, a questo punto, è il caso di guardare bene dentro siffatto presupposto. In primo luogo, non gli è dato di eliminare da sé una nota, e cioè che all’universale carattere di eterogeneità o diversificazione cui le cose umane soggiacciono purché entrino nel tempo, debbono ritenersi sottoposte tutte le cose umane che entrano nel tempo ad eccezione di una, la struttura od organizzazione che la coscienza umana dà a se stessa quando si accinge a fare della storia, a guardare alle cose dell’uomo come a dei succedentisi nel tempo; questo organismo cognitivo ed indagativo, che pure è una cosa dell’uomo e che pure si dà nel tempo e, con ciò, fa parte di porzioni diverse ed eterogenee della corrente dell’umano nel tempo, non deve patire mutamento e condizionamento funzionale da parte del tempo; se fosse consentito attingere il materiale, di cui valersi per descrivere le porzioni diacroniche del divenire umano, soltanto da ciò che è disinteressato alla storia e quindi indifferente nei confronti della storia, e bastassero gli enti «storicamente inerti», i cosiddetti documenti, a fornire quel materiale, la questione di una cosa umana indiveniente e acronica non si porrebbe; ma la storiografia necessita delle opere degli storici passati, contemporanei oppur no alla porzione che essa descrive; e le utilizza legittimamente alla duplice condizione, anzitutto che la coscienza che le ha scritte sia partita dallo stesso presupposto primo e generico, quello del divenire qualitativo dell’umano, poi che, qualora tale coscienza abbia allargato quel presupposto fino a comprendervi questa o quella determinazione che è una delle- 21 - ragioni sufficienti del presupposto e che finisce per coincidere con una delle teorie della storia, questo suo principio che è all’origine del metodo sia chiaramente discernibile, onde venga rapportato al divenire stesso, sia controllato su questo per verificarne la congruenza o l’inadeguatezza, e dai risultati del controllo siano forniti criteri di valutazione delle proposizioni e dei giudizi con cui ha intessuto la sua descrizione. Ma allora le due coscienze, quella di chi fa della storiografia nel presente e si rifà allo storiografo del passato per farla, e quella dello storiografo passato, sono una stessa e sola cosa in quell’organismo di concetti da cui prendono entrambe le mosse per operare in quel certo loro modo. Pare dunque che la storiografia sia lecita alla condizione che qualcosa dell’umano non sia storia e non abbia né l’essenza né le qualificazioni di ciò che è legittimamente oggetto di storiografia.
Un’obiezione sembra sorgere spontanea e immediata dinanzi a questa osservazione: il presupposto fondamentale della storia predica l’eterogeneizzarsi degli aspetti delle cose umane in funzione del tempo solo a quegli aspetti che rivelano di diritto e di fatto siffatta connessione col tempo, e non estende tale attributo, né si dà tale diritto, a quegli aspetti che di diritto e di fatto si mostrano estranei alla dipendenza dal tempo come quelli che sono di loro essenza, per così dire, acronici; come mai abbia la liceità di esistere un ente uno ed unitario, l’umano, alcune cose del quale patiscono l’azione del tempo ed altre le si sottraggono, come mai sia uno quel che in una certa sua faccia è diveniente, in un’altra statico, questa è una questione che non riguarda la storia e i suoi fondamenti concettuali, ma tocca la coscienza in generale, la quale nello stesso problema s’imbatte in molti altri complessi di esistenti, ciascuno dei quali è un ente nella cui unità son compresenti e coesistenti le stesse due facce; posto questo, la coscienza, orientata al contemplare, se è in indipendenza funzionale dal tempo, non ha la liceità di far altro che di funzionare nello stesso modo e di mettere in azione in modo immutato i suoi meccanismi cognitivi, qualunque sia l’oggetto su cui s’impegna a funzionare e ad applicare i meccanismi; i meccanismi si limitano a prendere atto di quel che struttura o costituisce l’oggetto; se l’oggetto, in questo caso l’umano, si presenta immediatamente- 22 -strutturato e organizzato in modo che le sue componenti, ad eccezione della coscienza conoscente, sian necessitate a mutarsi nelle qualità dei loro aspetti e delle loro parti e nei rapporti che vincolano vicendevolmente qualità aspetti parti, oppure se lo stesso oggetto deve venire apriormente concepito tale, alla coscienza non resta che prenderne atto e conformarsi e organizzarsi nei concetti primi in conseguenza. Chi ha creduto, come ho fatto io, che il presupposto contenesse un’estensione illimitata del variare in funzione del tempo a tutte le cose umane, si è sbagliato; si corregga: variano in funzione del tempo quegli aspetti dell’umano che s’inquadrano anche nella dimensione del tempo, non gli altri che stan fuori da questa dimensione; questo è il presupposto che consente l’esistenza della storia appunto perché ne esclude la conoscenza che la coscienza ha la liceità di averne; e se anche il modificarsi delle teorie della storia sembra negare quest’esclusione, il fatto che al disotto della successione delle variazioni teoretiche si stendano costantemente identici il presupposto generico, il permanente modificarsi di certe cose umane, la necessità di correlare tale mutazione col tempo, il bisogno di confortare questa correlazione con una ragion sufficiente in generale, la quale è lecito vari nelle sue determinazioni e provochi varietà di teorizzazioni della storia, ma non ha la capacità di alterare la sua essenza, tutto ciò garantisce la validità del presupposto così corretto e riportato alla sua effettiva connotazione.
È lecito rispondere che l’obiezione e la correzione che essa opera sul contenuto del postulato sono una vera e propria chiusura di occhi su ciò che compone l’oggetto della storia; in fondo, è un atto di comodo dire che l’umano, al pari di tutti gli esistenti, ha le due facce del diveniente e dello statico, e che non è lecito estendere all’una quel che è dell’atra, e tirarsi fuori dalle pastoie del problema che questa descrizione genera, coll’ampliare l’ambito dell’esistente che racchiude lo stesso aspetto problematico e coll’aspettarne la soluzione da un concomitante o conseguente ampliamento di indagine; tutto ciò sarebbe legittimo fare se il modo con cui il particolare diveniente si vincola all’intelligibile statico in quelle porzioni di esistente che si voglion connettere all’umano in quanto storia, fosse lo stesso di quello con cui il mutamento di ciò che diviene entro le cose- 23 -umane verrebbe a connettersi a ciò che entro le stesse non si trasformerebbe. Nella matematica, ad esempio, la mutabilità delle determinazioni quantitative delle porzioni o componenti geometriche di un triangolo fa tutt’uno con l’immutabilità degli intelligibili la cui serie costituisce la rappresentazione generica del triangolo, allo stesso modo che nella sfera del movimento la mutevolezza delle determinazioni quantitative proprie di questo corpo con queste sue dimensioni e del suo movimento verso quell’altro corpo con le sue dimensioni che è la Terra fa un uno con l’invarianza degli intelligibili che connotano il concetto di movimento di caduta di un grave; ma in questi due casi le due componenti o i due complessi di componenti, il diveniente e lo staticamente identico, non sono né formalmente né materialmente né identici né omogenei, sono degli enti riducibili a classi di esistenti ciascuna eterogenea dall’altra che riuscirà anche illecito o ineffettuabile alla coscienza capire come l’uno confluisca nell’altro, ma che la coscienza, entro certi limiti, riuscirà ad accettare, non tanto perché ciò le è imposto come dato di fatto, quanto perché, in definitiva, l’inintelligibilità della loro sintesi in unità non dipende da un’eterogeneità che li tocca solo in parte, in quanto costituita da differenze formali, ma da un’eterogeneità che insieme si fa concomitante di altre di cui quelle formali sarebbe lecito considerarle conseguenze; insomma in quel matematico e in quel meccanico che abbiam scelti ad esempio, l’inintelligibile unificazione di due eterogenei, è, mi si permetta il gioco di parole, intelligibile e razionale, come quella che è unità di due che sono eterogenei sotto tutti i punti di vista da cui li si guardi, con la conseguenza che l’inintelligibilità acquisisce la liceità di farsi soggettiva ossia relativa alle modalità del conoscere di condizione umana, al quale dei due eterogenei che si fondono in unità son date solo nozioni che di ciascuno offrono solo la rappresentazione di ogni suo attributo sotto cui si differenzia da ogni attributo che dell’altro ci offrono le rappresentazioni che ne abbiamo, restando così escluse nozioni di altri attributi che noi non conosciamo, di cui noi non abbiamo il diritto di parlare, ma la cui esistenza però abbiamo la liceità e, in fondo, la necessità di porre per ipotesi, quando tali attributi vengano formalmente denotati in modo tale da farsi condizioni- 24 -sufficienti a giustificare l’unione nonostante l’eterogeneità; ora, le cose non stanno nello stesso modo per ciò che riguarda la coscienza conoscente e l’umano: questo è un aggregato che, se non altro sulla base dell’inoppugnabile unità dell’ente uomo, dev’essere rappresentato come un organismo o unificazione di diversi, le cose umane, ciascuno dei quali è da rappresentarsi eterogeneo dagli altri, come quello che ha sue qualificazioni e funzioni esistenziali, e insieme omogeneo agli altri come quello che possiede in comune con gli altri alcune note essenziali e categoriali, quelle per cui è una delle cose umane; ora, sotto un certo punto di vista, pare che sia denotante comune e identica dei concetti di tutte le cose umane il mutamento qualitativo in funzione del tempo, il che almeno presuppone la storia; sotto un altro punto di vista, se non si vuole prendere in considerazione l’uniformità essenziale che sarebbe anche lecito discutere, le cose dell’uomo debbono pure esser rappresentate -omogenee od eterogenee che siano nella loro essenzialità – come costituenti un uno, se non altro se si vuole entrare in possesso di una rappresentazione dell’umano che ne sia conoscenza, con la conseguenza che debbono venir immaginate come connesse vicendevolmente l’una all’altra in modo tale che tutto quel che caratterizza l’esistenza dell’una si faccia, da un lato, dipendente funzionale di quel che è proprio dell’esistenza dell’altra, ed eserciti, dall’altro, su questo una propria azione modificatrice; donde segue che è illecito immaginare che in siffatta unità la variazione di uno qualsiasi degli aspetti di una qualsiasi delle cose dell’umano si dia indipendentemente dalla variazione di un altro aspetto o della cosa stessa o di un’altra e senza farsi principio di una variazione di un altro aspetto o della cosa stessa o di un’altra dello stesso umano – sia poi questa concomitanza o meglio coesistenza di mutamenti l’effetto di un mutamento che sia della totalità di tali cose presa come unità e che dal tutto si rifranga sulle parti o sia soltanto la conseguenza di un mero gioco di correlazioni funzionali -; donde deriva ancora che se è necessario, come si dà per la storia, presupporre il mutamento qualitativo in funzione del tempo di parecchie di queste cose umane e di molti dei loro aspetti, si fa del pari necessario che, per la connessione funzionale reciproca delle cose e degli aspetti, una variazione egualmente qualitativa investa- 25 -tutti gli altri, conseguendo da ciò il mutamento qualitativo della totalità dell’umano; dunque, sia dall’uno che dall’altro punto di vista, diviene illecito e illegittimo o, se si vuole, preda di una totale inintelligibilità, che non ammette nessun appiglio di sotterranea e indiretta giustificazione intelligibile e razionale, prendere una di queste cose, la coscienza conoscente, trattarla come uno dei componenti dell’umano e insieme dotarla di una sorta di extraterritorialità per la quale riesca in certe operazioni a mantenersi in vincoli di correlazione funzionale con tutto il resto dell’umano, e per le altre se ne sganci, per comportarsi esclusivamente in conformità con le proprie condizioni e leggi.
Da queste considerazioni la coscienza umana, in certi atteggiamenti assunti da certi pensatori, ha dedotto la più rigorosa delle connotazioni del presupposto della storia: ha esteso anche all’attitudine conoscitiva la qualificazione del mutamento costante in funzione del tempo, e ha determinato questa connotazione in due modi: se muoveva da una teoria della storia «perfezionista» e insieme fondata sulla nozione dell’attuazione apodittica di un potenziale immanente in un reale che è primo rispetto al divenire – nozione utilizzata a ragion sufficiente del «perfezionismo» verso uno stato ultimo assoluto - , ha posto come esistenti e necessarie molteplici organizzazioni concettuali che la coscienza conoscente si dà in qualsiasi indagine, compresa quella storica, le ha dichiarate eterogenee l’una dall’altra, successive l’una all’altra, mutuanti la varietà qualitativa che assumono in concomitanza con il loro subentrare l’una all’altra dalla dipendenza funzionale dal tempo e dalla legge che questo rapporto funzionale regola, e ha giustificato tutto ciò, per quel che riguarda la coscienza conoscente, nello stesso modo con cui ha giustificato le variazioni in funzione del tempo di tutto l’umano, come rappresentazioni cioè dedotte dal suo principio-presupposto; evidentemente, la variazione nella successione ha un termine coincidente colla realizzazione delle capacità di ciò che è primo nel divenire, e con il salire all’esistere dello stato ultimo assoluto, in cui tempo, successione e mutamento s’arrestano o, a rigore, dovrebbero arrestarsi; muovendo da una differente teoria della storia, di natura «legislativa» e utilizzando la funzione di causa efficiente, ha garantito alla coscienza conoscente,- 26 -come a tutte le cose dell’umano, la variazione qualitativa in funzione del tempo e ha ridotto i presupposti di ogni organizzazione cognitiva, compresa quella storica, le loro determinazioni, le teorie della storia, i metodi e le realizzazioni storiografiche che da questi sgorgano, ad eterogenei in successione, o con un termine o all’infinito, o secondo una legge determinante il rapporto fra l’antecedente e il susseguente eterogenei secondo modalità anarchiche ed ex lege; ne ha fatto delle verità che son figlie del tempo. L’obiezione, dunque, da cui siam partiti per arrivare a queste teorie dell’assoluto storico, ha mostrato la corda. Ma val la pena guardare nel fondo anche di queste.
Limitiamoci a considerarle sotto il punto di vista solo di quel che riguarda la storia e, in un primo momento, su di un piano esclusivamente teorico, fuori dalla preoccupazione di controllare se gli esistenti, quali noi li conosciamo, verifichino quel che le due teorie pretendono che siano. Per entrambe le teorie, gli indagatori della storia e le opere storiografiche di una certa porzione del divenire umano non hanno in comune nessun punto di vista, nessun presupposto, nessuna canonica di metodo; non solo le loro teorie della storia sono qualcosa che si è dato una volta sola nei modi in cui si è dato senza liceità di ripetersi più, non solo i metodi di descrizione del periodo scelto non han nulla in comune coi metodi che li hanno preceduti e seguiti, ma, negli stessi loro concetti primi e nello stesso loro presupposto da cui son partiti per fare della storiografia, non hanno la liceità di avere nessuna qualificazione o modalità in comune coi principi o presupposti della storiografia di un differente periodo; tanto meno si è dato nel passato che una qualche sua porzione o periodo abbia fatto suo il presupposto generale della storia come un divenire delle cose umane in funzione del tempo, presupposto che è uno dei modi qualitativi dell’umano che ha raggiunto la sua perfezione nello stato ultimo assoluto – e questo deve rappresentarsi la prima teoria – oppure che è uno dei modi dell’umano che è entrato nell’esistenza solo in quella porzione del divenire cui appartiene la coscienza che lo ha enunciato come concetto primo per la storia – e questo deve rappresentarsi la seconda teoria. E allora non è data la liceità a nessuna coscienza che appartenga- 27 -allo stato di cui le teorie in esame sono una delle componenti, e che voglia fare della storiografia, quale il presupposto la pone, rifarsi alle produzioni storiografiche del passato come a strumenti da utilizzare; a sua disposizione ha legittimamente solo dei documenti che siano «inerti» e, per dir così, «asoggettivi» o «astoriografici»; delle opere storiografiche del passato, come delle teorie della storia che ne hanno offerto il metodo e che sono state o esplicitamente enunciate in indipendenza dalla metodica e dalla storiografia che ne è derivata o implicitamente immesse nei lavori storiografici stessi, se proprio ci se ne vuol servire, è lecito valersene come di momenti di una storia, come espressioni particolari del divenire eterogeneo, come dei contenuti o aspetti descritti da una storia delle teorie della storia o da una storia della storiografia; e la conseguenza immediata di queste deduzioni è che la storia diverrà lecita e immaginabile solo come un esistente in sé, vale a dire come il divenire stesso per eterogenei in funzione del tempo, o come concetto intelligibile connotato dalle denotanti formali che da siffatto esistente è dato enucleare, ma diverrà un illecito e un impossibile come descrizione del contenuto materiale inquadrato in siffatte forme, come immagine storiografica, fatta di proposizioni e di giudizi organati in un’opera, di una porzione del divenire o di tutto il divenire; infatti, delle due l’una: o quella coscienza, che ha conseguito l’una di queste due teorie della storia, si dà a descrivere il passato con l’ausilio di opere storiografiche del passato, e allora costruisce o su qualcosa che è inadeguato alla storia, alla storiografia e al metodo storiografico veramente degni di questo nome – e questo è quel che deve pensarne la prima teoria – o su qualcosa che offre del passato immagini che sono totalmente deformate non tanto rispetto all’oggetto da immaginarsi, che in un certo senso vien sempre deformato da qualunque immagine voglia darsene la coscienza, quanto rispetto alla deformazione che deve patire l’oggetto per divenire congruente con l’immagine che di esso deve averne la coscienza che accetti l’una delle due teorie – e questo è quel che deve pensarne la seconda teoria -; oppure la stessa coscienza deve precludersi l’utilizzazione di qualsiasi storiografia passata e limitarsi ai documenti di cui sopra, e allora non si vede come gli atti diplomatici, le carte private e pubbliche,- 28 -i monumenti di pietra o di metallo, i disegni che siano solo o tracciati geografici o figurazioni geometriche o riproduzioni aventi ad essenza i modi della fotografia o della cinematografia bastino a fornire materia d’indagine, e sostituiscano cronache, relazioni, diari, rapporti scritti, ecc., in una parola ogni documento che sappia di storiografia. Si aggiunga, poi, che la seconda teoria deve pur riconoscere di essere essa pure un mero momento qualitativo transeunte nel divenire umano e di non avere il diritto di dettare nessun giudizio di svalutazione su teorie che dicano qualcosa di diverso o di contrario da quel che essa asserisce, tranne che alla condizione di emettere lo stesso giudizio su se stessa, se non sotto il segno dei suoi principi, necessariamente sotto il segno dei principi delle teorie che la sostituiranno nel tempo; è tenuta, invece, ad allineare tutte le teorie della storia come degli esistenti e dei validi, godenti la stessa esistenza e lo stesso valore che essa attribuisce a sé, anche se questa loro esistenza e questo loro valore non sono più nel presente, ma sono stati ormai nel passato; la conseguenza immediata è che, sempre rimanendo su quel piano teorico che abbiam deciso di prendere per ora a piattaforma, su cui stare, la varietà, finita in atto, infinita in potenza, delle teorie, dei presupposti, dei metodi «dovrebbe consentire» una altrettanto grande varietà di opere storiografiche, non solo tutte equipollenti, non solo tutte deformanti l’oggetto storia, di cui anche la teoria stessa che ne fa quel divenire per eterogenei in funzione del tempo non ha altra liceità che di darcene un’immagine alterata e inadeguata al pari di quella che han dato le altre – perché evidentemente, quando l’oggetto di cui la coscienza vuol darsi la conoscenza è l’umano nel tempo, la teoria in parola non gode neppure di quella liceità che ha nei confronti degli altri oggetti, e cioè di negare una loro realtà statica o comunque esistenziale la cui traduzione in rappresentazione costituisca, come equipollente simmetrico di un oggetto in sé, quella verità tanto cara agli «antidiveniristi», perché un oggetto essa deve pure ammettere che ci sia e che sia tradotto in immagine fedele da una rappresentazione che lo riproduce, ed è l’umano, almeno come attitudine al conoscere, e un umano che è nel tempo -, ma anche tali che nessuna che voglia essere congruente con se stessa ha il diritto di usare, per fare della storiografia,- 29 -qualcosa d’altro di quelli che abbiam chiamato documenti inerti, le teorie precedenti perché tutte le storiografie che son venute prima di esse debbono essere eterogenee da ciascuna di esse, la nostra teoria perché tutte le storiografie che l’han preceduta han dovuto partire da un’immagine dell’umano che non ne fa una storia; donde segue da un lato che, poiché non c’è stato storiografo né di questa né delle precedenti teorie che non abbia utilizzato prodotti storiografici precedenti, tutti i lavori storiografici sono doppiamente falsi, per essere entrati in contraddizione con i propri principi, e per aver trattato come storico quel che storico non ha la liceità di essere, dall’altro che, poiché per essere coerente con se stesso uno storiografo della nostra teoria deve ripudiare l’uso di storiografie la cui metodica sia inferenza da altre teorie, ossia storiografie antecedenti, la maggior coerenza consentita a una coscienza che muova alla storia partendo dal presupposto di questa teoria è quella di non fare della storiografia, di non oltrepassare i limiti dell’enunciazione di quanto formalmente denota il concetto che egli ha della storia.
E con questo siamo entrati in un bel dilemma: o noi accettiamo la correzione del postulato generale di tutte le teorie della storia, che il divenire per mutazioni qualitative delle cose umane e la sua dipendenza funzionale dal tempo sia un attributo essenziale di tutti gli aspetti umani, ma non della coscienza umana che conosce per rappresentazioni e che di questa sua attitudine si vale per fornirsi, come un immutabile, siffatto presupposto, e allora ci offriamo la liceità di costruire una concezione in generale della possibilità della storia e insieme un numero grande a piacere di determinazioni di tale presupposto dalle quali ricaviamo altrettante teorie o concezioni specifiche della storia grazie alle quali oltrepassiamo i confini della mera rassegna delle denotanti formali di ciò che è storico per entrare nella materia di una metodica e di una storiografia, frutto dell’applicazione di questa metodica e incarnante i principi formali dello storico speciale accettato, ma simultaneamente entriamo in contraddizione con noi stessi in quanto contravveniamo a una delle denotanti formali del presupposto, postulando da un lato che l’umano sia in tutta la sua unità organica un qualitativo in divenire per eterogenei in funzione del tempo e che nessuna delle componenti- 30 -di questo organismo sia esente da questa qualificazione, erigendo dall’altro la coscienza a un privilegiato dall’extraterritorialità, esente, con ciò, dalla necessità legale di accogliere siffatta qualificazione, senza tuttavia slegarlo dall’organismo dell’unità dell’umano cui deve dichiararsi appartenente come cosa, se si vuole che sia capace di una storia e di una storiografia; oppure noi applichiamo con tutto rigore il presupposto generale della storia, e dal fatto che l’umano sia una unità di eterogenei i quali debbono avere in comune almeno quel che è proprio ed essenziale del tutto cui appartengono, e abbia a sua costante il divenire per successione di stati diversi a stati diversi, un divenire che è in funzione del tempo, argomentiamo che nulla dell’umano abbia il diritto di sottrarsi a quest’ultimo rapporto che è uno degli essenziali del tutto, e in questo caso dobbiamo far entrare in questa condizione tutti gli organismi cognitivi che la coscienza orientata al conoscere genera, compresi le teorie della storia e i metodi che ne derivano, e, con ciò, per quel che riguarda la storia, ci concediamo il nullaosta di fare la nostra teoria della storia col connesso metodo, di guardare dal punto di vista di questo la successione delle teorie della storia e di farne anche la storiografia, ma ci neghiamo la liceità di utilizzare i loro prodotti storiografici ai fini di nostri prodotti storiografici che applichino attraverso il nostro metodo il nostro presupposto: rimaniamo benissimo sul piano speculativo, con le sue facoltà di teorizzare sulla storia e di fare storiografia delle teorizzazioni della storia e storiografia della storiografia; non abbiamo nessun mezzo per portarci legittimamente sul piano della storiografia, su cui fare o meglio conoscere della storia.
Ora, il dilemma è apparente, perché nasce da un’errata visione della condizione del pensiero umano che pensi in generale sulla storia, errata visione di cui solo in parte le osservazioni dell’obiezione son riuscite a cogliere l’intera portata e a cui invece le teorie dello storicismo assoluto si sono abbandonate in pieno. Partiamo da queste, e consideriamole non più piazzandoci su quel piano esclusivamente teorico o ideativo di prima, ma trasportandoci sul piano dell’esistente, ossia prendendo contatto con rappresentazioni che siano riproduzioni le più fedeli di quanto nell’esistente si è dato, con quelle immagini che di solito chiamiamo dati di fatto. È vero che, sempre- 31 -per quel che riguarda la storia, nella successione delle cose umane le opere di teoria della storia e di storiografia che si danno in momenti differenti ci rivelano una costante variazione qualitativa di principi-presupposti, di loro determinazioni che si traducono in teorie della storia altre l’una dall’altra, in metodi diversi inferiti dalle diverse teorie; ma è ugualmente vero che, o in congruenza coi principi teorici, esplicitamente professati o implicitamente ammessi, o addirittura spesso in contraddizione con essi, ogni coscienza che ha fatto nel passato opere storiografiche, sia che abbia fatto suo oggetto una serie di porzioni del divenire umano sia che ne abbia preso in esame una sola, ha sempre trattato il materiale sui cui operava come un diveniente nella qualità, come qualcosa che varia nei modi qualitativi che lo compongono e nei rapporti che collegano tali modi, e che vede questa variazione verificarsi in forza dello scorrere del tempo. Ma allora il presupposto di una mutazione qualitativa dell’umano in funzione del tempo non è conquista della coscienza conoscente della nostra porzione di divenire umano; in questa, tutt’al più, esso ha raggiunto l’intera consapevolezza di se stesso e di tutti i modi che implicitamente lo connotano e di tutte le conseguenze che comporta; è dato di fatto che esso è sempre stato attivo in tutte le teorie della storia, dalle quali son partite opere storiografiche che non son riuscite a ignorare che qualità diverse degli aspetti delle cose umane e rapporti diversi tra esse si succedono a qualità diverse e a rapporti diversi, o che la successione sia per dir così istantanea e capillare o che si verifichi saltuariamente e a lunghi tratti di tempo; è dato di fatto che il nostro presupposto è sempre esistito. A questo punto, si tratta di vedere se ci sia veramente quell’incongruenza che pare inserirsi tra il dato di fatto dell’esserci costante del presupposto e alcuni contenuti di esso, la contraddizione cioè tra una conosciuta o postulata universalità di mutamenti di ognuna delle cose umane e la rappresentazione necessaria di una di queste cose che non cambia col tempo.
Quando la coscienza umana volta al conoscere fa della teoria della storia, assume a termine di applicazione dell’attenzione cognitiva un oggetto che non è lo stesso di quello cui l’attenzione si rivolge quando la stessa coscienza s’impegna a fare della storiografia e a descrivere- 32 -una quantità maggiore o minore dei gruppi di cose umane in successione nel tempo. Sembra che in entrambi i casi il termine dell’attenzione sia lo stesso, la totalità delle cose umane prese nel loro darsi nel tempo, sicché, partendo da questa apparenza, non si giustifica il fatto che nell’un caso la coscienza giunga a certe rappresentazioni su di esso e nell’altro giunga a rappresentazioni diverse, se non ritenendolo frutto di un errore della stessa coscienza, una contraddizione che vizierebbe tutto il suo operato e che dovrebbe andare corretta. Anzitutto, sarebbe il caso di vedere se la rappresentazione che la coscienza si fa dell’umano come di un succedersi di eterogenei nel tempo sia un dato di fatto; non solo, ma se per essa ci siano i mezzi per tradurla sul piano dell’intelligibilità, per farne un concetto, un universale categorico del nostro conoscere e del nostro esistere; e sarebbe anche il caso di vedere quali immagini siano veramente offerte da quel dato di fatto e abbiano con ciò il diritto di diventare denotanti del corrispondente concetto; perché evidentemente la stessa questione, posta nei confronti dell’altro dato di fatto, della permanenza immutata di alcune rappresentazioni ci pare di averla or ora risolta con l’indicare l’esistenza, in tutte le opere storiografiche di tutti i tempi, di descrizioni di aspetti di cose umane che li dipingono qualitativamente eterogenei in connessione col loro darsi in tappe differenti del tempo, qualunque sia il lasso che divide l’una tappa dall’altra; con la conseguenza che ci pare anche che questo dato di fatto goda del privilegio di salire al piano dell’intendimento per divenirne un concetto, se non altro sulla base della ragion sufficiente che la coscienza è dotata di correlazioni formali intelligibili, costanti nel tempo e immutabili al di là del tempo, con cui quanto rinserra in sé identiche correlazioni ha la liceità di andare a coincidere e a sistemarsi, ragion sufficiente, negata la quale, non val più neppure la pena di continuare questo nostro colloquio. Ma evidentemente la soluzione della prima questione non è qui il caso di affrontarla; e perciò, ancora una volta, diamo per scontato che un divenire qualitativo dell’umano ci sia e costituisca nella nostra coscienza un dato di fatto e un concetto che poi divien presupposto comune delle teorie della storia in genere, tanto più che agli effetti del problema generale che qui ci riguarda questa soluzione è- 33 -superflua. Ammettiamo quindi la realtà e la verità di questo divenire. Quel che importa è che esso, come termine di attenzione, non rimane lo stesso nelle due differenti applicazioni che la coscienza fa dell’attenzione ad esso, quando lo considera per offrirsi le rappresentazioni che dovranno connotare il suo concetto di storia, e quando lo considera per procurarsi le rappresentazioni che dovranno diventare predicati e soggetti di giudizi, e giudizi di ragionamenti, il cui tutto vada a costituire la descrizione del divenire umano o di una sua porzione; nella prima applicazione, l’oggetto è assunto come una totalità unitaria che è illecito e illegittimo scomporre nelle sue parti, eterogenee e diacroniche quanto si voglia, pena l’impotenza a individuarne gli attributi che ne caratterizzano l’essenza e che per diventare suoi predicati e consentire, con ciò, la sua traduzione in una rappresentazione che su di un piano sia dato di fatto, sull’altro concetto, debbono essere ritrovati presenti in tutte le parti che lo costituiscono, le quali in tal modo vengono mantenute nell’unità di un continuo grazie all’identità qualitativa che tutte le sottende; è un indiviso che non è divisibile; con la seconda applicazione, la stessa unità dell’intero oggetto deve venir spaccata nelle porzioni che lo compongono, se si vuole cogliere la differenza delle qualificazioni dell’una da quelle dell’altra, e appunto questa scoperta delle molte eterogeneità diviene la rappresentazione che guida l’analisi a spartire oggettivamente e adeguatamente quel che deve essere separato da altro perché eterogeneo da esso e degno di una descrizione organata in modo diverso da quella dell’altro; è un divisibile che deve esser diviso.
Si dirà che questa mia duplicazione dell’unico oggetto dell’attenzione cognitiva è artificiale e falsa, tant’è vero che se non si procede a scomporre l’oggetto non si riesce in nessun modo a scoprire quel suo attributo dell’eterogeneità delle parti che, secondo me, avrebbe dovuto venir immaginato lasciando l’oggetto nella sua continuità indivisa. Rispondo che questa confutazione si dà una rappresentazione deformata di una delle fasi delle operazioni cognitive che vengon compiute per dar vita alla rappresentazione ultima e soddisfacente, e al tempo stesso la scambia con la fase ultima concludente le operazioni: perché, se è vero che l’oggetto in parola, il- 34 -
divenire umano, deve pur venire scomposto in porzioni perché si colga il carattere di queste porzioni di essere differenti l’una dall’altra per il fatto che si danno in tempi diversi e per il fatto che sono diversamente qualificate, è altrettanto vero che, quando la coscienza inferisce da ciò che il divenire umano è per diversi qualitativi la cui differenziazione reciproca è in dipendenza funzionale dal tempo, è tenuta ad attribuire questo predicato a quel soggetto che è il divenire, lasciando questo nella sua unità continua e quindi in una condizione di totalità integra e indecomposta, se, dandosi lo stesso oggetto come un divisibile e quindi un diviso, non si vuol vedere portata all’assurdo di estendere lo stesso attributo a ciascuna delle porzioni, la quale non tollera perché, pur essendo nel tempo, resta, per il presupposto o per il dato dell’attributo, qualitativamente omogenea con se stesso in eterno, e di mettere a soggetto del suo giudizio non un ente, ma una pluralità di enti in giustapposizione, ciascuno dei quali non tollera il predicato, e il cui insieme, mera somma di enti di cui ciascuno è un omogeneo con se stesso, dovrebbe dare come risultato un’eterogeneità. Nella prima applicazione di attenzione l’oggetto del divenire umano è temporaneamente trattato come un divisibile a parte subiecti, per un atto di astrazione, che non è e sa di non essere neppure completo e perfetto, perché nell’atto stesso in cui l’attenzione scopre l’eterogeneità reciproca e la diacronicità delle porzioni del tutto e per far ciò separa porzione da porzione, in quello stesso momento conserva vive l’immagine del loro costante sussistere in un tutt’unico e le rappresentazioni dei rapporti che debbono venir pensati esistenti a collegare porzioni a porzioni se non altro,- qualora non si voglia ammettere che queste rappresentazioni di rapporti la coscienza se le dia per mantenere viva l’immagine della realtà viva dell’oggetto che è unità - per rendersi conto come essa riesca a darsi un loro confronto che sia valido perché a parte obiecti. Solo in apparenza nell’intero corso delle operazioni che la coscienza compie sull’oggetto del divenire per conoscerlo nella sua integrità e non nelle sue parti, c’è un momento in cui l’oggetto vien diviso: di fatto, neppure quando si confrontano porzioni a porzioni l’unità vien meno.
Si dirà ancora che non è vero che la seconda applicazione dell’- 35 -attenzione al divenire ne spezza l’unità e la decompone in porzioni, perché l’opera storiografica, se fa suo oggetto una o alcune o tutte le porzioni del divenire, e le descrive ciascuna nella sua qualificazione che in forza del tempo non sarà quella dell’altra, subito dopo si preoccupa di rinvenire e rilevare le connessioni, di qualunque tipo esse siano, che collegano eterogeneo ad eterogeneo, e, a volte, servono addirittura a giustificare la successione dell’uno all’altro in quanto eterogenei ed eterogenei in quel modo e in quel rapporto. Rispondo che l’obiezione anche qui si dà un’immagine deforme di una delle operazioni della storiografia e la scambia per qualcosa che fa parte integrante della serie di queste operazioni che la richiederebbero come momento necessario a sostituire l’integrità dell’essenza che la serie deve avere se vuol conseguire il suo fine. A parte il fatto che se si vuol descrivere un ente che è eterogeneo da un altro e lo si vuol descrivere in quanto eterogeneo, bisogna che i due vengano immaginati separati in una soluzione reciproca assoluta, a parte il fatto che per assicurare alla coscienza conoscente quell’unità, che pur deve darsi tra i due eterogenei così separati se se ne vuole il confronto, è sufficiente quella mera reciproca dei due che è assicurata dalla cosiddetta loro compresenza alla coscienza, che di fatto non è se non uno spostamento dell’attenzione cognitiva dall’uno all’altro, e non c’è affatto bisogno che a questa relazione unitaria, che è tutta a parte subiecti, vada ad aggiungersi un ulteriore rapporto che sia oggettivamente imposto da una funzione esercitata da un qualche modo qualitativo dell’un eterogeneo su un diverso modo qualitativo dell’altro, a parte ancora il fatto che l’introduzione di connessioni determinate tra una porzione antecedente ed una successiva del divenire umano non riceve sempre in un’opera storiografica una determinazione che la rende ragion sufficiente del succedersi di quel certo eterogeneo del successivo a quel certo eterogeneo dell’antecedente, ma la riceve soltanto in alcune opere - il che non si verificherebbe se tale introduzione fosse un momento imprescindibile dell’attività cognitiva di tipo storiografico, resta sempre questo che, quando lo storiografo, dopo aver descritto una porzione, cerca di collegarla alla precedente e alla successiva, sovraggiungendo alla descrizione di ciascuna porzione l’enunciazione del nesso reciproco delle- 36 -tre e a volte anche la sua determinazione, lo fa non sotto l’influsso del principio da cui è partito, la rappresentazione del divenire umano anatomizzato nella discontinuità delle sue porzioni eterogenee, ma sotto l’imperio di un altro principio, e precisamente della rappresentazione della diacronicità di quelle porzioni. Ora, questa rappresentazione non è una componente o momento di quella da cui ha preso le mosse, perché questa, per le condizioni stesse operative di una coscienza di tipo umano conoscente in generale, deve ignorare la varietà nel tempo per procedere a un confronto di due eterogenei, i quali, appunto per essere comparati l’un l’altro, vengono di necessità fatti uscire dal tempo e posti nell’attualità di due rappresentazioni dall’una all’altra delle quali si sposterà poi l’attenzione, e con ciò fatti entrare in una sorta di simultaneità che è acronica; perciò, quella diacronicità che non viene attinta dalla scomposizione originaria del divenire e che pure a un certo momento entra a presiedere una certa tappa delle operazioni storiografiche, deve provenire da un’altra immagine che la contenga, quella del divenire come oggetto unico e in continuità indivisa, quell’oggetto per cui vale il tempo in forza di quel suo carattere di dipendenza funzionale dell’eterogeneità dei successivi in funzione del tempo, oggetto che, se si vuole, era un primo nella mente dello storiografo, ma che dovette venirne estromesso per lasciar posto a un oggetto divisibile diviso e acronico entro cui si potessero far confronti, oggetto al quale la mente dello storiografo avrà la liceità anche di ritornare quando si preoccuperà di riprendere in considerazione quella componente «tempo» che le sue operazioni prettamente storiografiche lo hanno costretto a ignorare temporaneamente, ma che comunque non s’identifica affatto con quello su cui ha operato fintantoché ha fatto della storiografia.
Dunque, due sono i modi con cui la coscienza guarda all’unico oggetto del divenire umano, e, quindi, per questa coscienza due sono gli stati di quest’oggetto e due, in definitiva, gli oggetti: da un lato sta il divenire come «cosa» unitaria e indivisa coi suoi caratteri, dall’altro lo stesso divenire come pluralità di «cose» unitarie e indivise giustapposte e quindi come aggregato variopinto di molteplici discreti e diacronicizzabili non per sé né per l’aggregato ma per la- 37 -liceità che la coscienza ha di ricondurre l’aggregato in discontinuità al divenire in unità, grazie all’unicità oggettiva, a parte obiecti, cui i due oggetti debbon pur essere ricondotti. Ora, quel divenire che è assunto come uno e indiviso l’abbiamo chiamato «cosa», appunto per mettere in rilievo uno degli attributi che gli devon essere predicati se lo si vuol fare oggetto di un’attenzione provocante operazioni che ne diano la riproduzione: questo attributo è l’immobilità e immutabilità di esso nella sua totalità e negli attributi essenziali che lo costituiscono e che servono a connotarne il concetto; le uniche operazioni lecite son quelle di dividere questo divenire, di far corrispondere ad ogni sua fase, porzione risultante dalla sua divisione, una rappresentazione, di mettere in successione le rappresentazioni secondo un ordine che rispetti quello delle fasi e di costituire un’immagine che sia fedele all’ente mediante lo spostamento d’attenzione che vorrebbe essere il simmetrico cognitivo, ossia riproduttivo per la coscienza, del divenire conosciuto in sé; e così all’ente corrispondono più rappresentazioni, ciascuna delle quali è l’immagine di una fase del suo divenire e la cui serie discontinua è l’immagine della continuità del divenire; ma allora, se si vuol parlare di una conoscenza dell’ente, delle due l’una: o si dichiara che lo si conosce attraverso la serie, e con ciò si toglie il diritto di fare di una rappresentazione della serie l’equivalente dell’ente e insieme il diritto di rappresentarsi l’ente ossia di conoscerlo, perché una sola delle rappresentazioni, che son l’una diversa dall’altra, dovrebbe essere utilizzata a riprodurre l’ente, non essendo lecito fare della serie, che è una giustapposizione di discreti, il riproduttivo dell’unità continua del divenire; oppure si vuole assumere una rappresentazione della serie ad equivalente dell’ente, e allora ci si toglie il diritto di ricorrere alla serie e insieme di rappresentarci e conoscere l’ente, dal momento che esso ha a suo equivalente la serie; l’ente da conoscersi allora diviene un conoscibile se nella sua totalità non diviene; ed è quel che capita al divenire che appunto viene assunto dalla coscienza come un tutto definito, almeno soggettivamente, da due estremi, entro i quali si daranno tutte le modificazioni che si vorranno, ma che in questa sua circoscrizione è statico e come statico trova equivalenza in una rappresentazione e in una sola di cui poi sarà lecito operare un’analisi che sia al tempo- 38 -stesso analisi dell’ente, appunto perché, una com’è, è sempre lì, uguale a se stessa, a consentire le operazioni di cui i meccanismi cognitivi son capaci; e poiché dentro questa «cosa» ci son sempre una successione, un subentrare di diverso a diverso, una cronicizzazione di questo subentrare, ossia la liceità di misurare, per dir così, l’ora in cui il diverso si dà, ossia ancora del tempo, una correlazione costante fra il mutare dell’ora dei diversi e il modificarsi della loro qualificazione, correlazione che assume l’evidente aspetto di una indipendenza funzionale del primo dal secondo e di una dipendenza funzionale del secondo dal primo, e poiché, in più, è lecito trovarci dentro o ciò che costantemente caratterizza questa dipendenza funzionale o ciò che essa realizza o ciò a cui tende ecc., tutti questi contenuti, che godono della staticità di cui gode il tutto, assumono la fisionomia di altrettante denotanti intelligibili di una sua connotazione intelligibile e ne consentono il concetto determinato. Che se il divenire venisse trasferito dall’interno della cosa ai limiti che la circoscrivono e andasse ad investire la totalità della sua rappresentazione di «cosa», sì che il divenire umano si facesse esso stesso ai nostri occhi un diveniente – e qui l’immaginazione vien meno, perché la mia almeno non riesce a raffigurarsi questo cambiamento se non come la successione che patirebbe l’umano nel suo tutto se, dopo fasi di stasi in cui l’ambiente circostante conoscesse mutamenti qualitativi in funzione del tempo ed esso invece perdurasse in una omogeneità immutata, conoscesse fasi di divenire entro le quali si alternassero certi modi di mutamenti qualitativi in funzione del tempo a modi differenti dello stesso rapporto -, nessuna coscienza riuscirebbe a darsene l’immagine e il concetto e a farne una storia e la storiografia.
D’altra parte, preso atto di quell’eterogeneità qualitativa che rende cangiante l’unità in sé, la coscienza si trova a portata la liceità di considerarla in sé e per sé, di frazionarla nelle sue porzioni, di studiare queste ciascuna per sé, di fare della storiografia; col che l’oggetto vien preso dalla coscienza sotto un altro aspetto e in una diversa modalità; viene assunto per qualcosa d’altro, la cui essenza è il mutamento e non la costanza, la trasformazione e non l’identità con se stesso. Si spiega così come mai entro la successione di eterogenei- 39 -del divenire umano, non ogni suo componente muti, perché alcuni dei risultati che la coscienza umana consegue con le sue operazioni – e non già nei confronti di qualcosa che non abbia che fare con quel divenire, ma nei confronti del divenire stesso – permangano immutati e, pur facendo parte del divenire e della storia in quanto sono dell’umano, non cadano sotto la giurisdizione della modalità essenziale di ciò che è storico; la loro immutabilità è effetto del ripetersi entro la rappresentazione di ciò che è essenziale entro l’oggetto di cui la rappresentazione pretende di essere riproduzione equivalente, o, per essere più esatti, è entro una certa rappresentazione, la traduzione in forma di distinzione, di determinazione, di esplicitazione, di quanto un’altra rappresentazione si è convenuto contenga, ma implicitamente e quindi indeterminatamente e indistintamente; si spiega, ma non si giustifica; di essa c’è l’acquisizione della natura di intelligibile, ma non l’intelligibilità piena, in quanto il suo trapasso dall’indistinto al chiaro del concettuale non elide una contraddizione e non trova ragion sufficiente per sé e per questa sua contraddizione, con la conseguenza che, in fondo, l’obiezione di cui sopra, ricondotta alla sua corretta conformazione, ha ragione ad introdurre nel postulato generico della storia il perfezionamento che dell’umano e quindi di ciò che è storico non tutto è storia e verifica i caratteri del postulato, così come hanno ragione le teorie di storicismo assoluto, almeno in linea di rigorosa correttezza formale, quando dichiarano che tutto ciò pone in vita una contraddizione. Infatti, che di un prodotto squisitamente umano come la concezione di un oggetto non solo si dia una connotazione immutabile, ma non si riesca a non allineare nell’ambito di esso le note formali, che fissano per l’oggetto gli attributi di diveniente per eterogenei qualitativi e di dipendenza di questo eterogeneizzarsi, che è di tutto ciò che appartiene all’oggetto, dal tempo, a lato delle altre note formali, che l’attribuzione non è valida per qualcosa che è dell’oggetto, è un’evidente contraddizione. E, d’altro canto, la contraddizione non è eliminabile, sicché non resta che trasferirla all’oggetto stesso, farla una denotante formale implicita nella rappresentazione da esplicitarsi ed esplicitata nella corrispondente rappresentazione che ne è l’equivalente. L’ente stesso «storia» o divenire delle cose umane è dunque- 40 -in sé contraddittorio in quanto abbina in sé il mutevole all’immutabile, e la sua contraddittorietà, guardata più a fondo, risulta anche necessaria, perché la mutevolezza del diveniente in funzione del tempo non si dà se non alla condizione che si dia la staticità di uno di quei componenti che dovrebbero modificarsi e viceversa. Che se si va poi a cercare la ragion sufficiente dell’incongruenza non si vede come e dove sia lecito trovarla, a meno che non la si eriga a legge del reale, come ama fare l’idealismo, con un atto che pretende di essere promotore di intelligibilità, mentre è soltanto descrittorio e riconoscitivo. Ma questo problema e la sua solubilità qui non ci interessano.
È importante che dovunque si dia dell’umano ivi c’è un ente che, almeno per ammissione convenzionale, è in divenire in funzione del tempo; che, come tale, esso ha tanti aspetti, le qualità di ciascuno dei quali son destinate a mutare in correlazione di un identico ritmo di mutamento che tocca le qualità degli aspetti simultanei, il che provoca delle zone di omogeneità correlativa che si succedono l’una all’altra, variando nel modo cui tutti partecipano e costituendo delle porzioni o fasi del divenire in eterogeneità reciproca; che dentro queste porzioni ci sono componenti che non seguono il destino delle altre o almeno non lo patiscono totalmente al pari delle altre, componenti costituite dalle concezioni che la coscienza elabora nei confronti della storia, e che hanno tutte qualcosa di identico in comune, qualcosa che non muta, il modo cioè con cui l’oggetto cui si riferiscono è da tutte assunto insieme a alcuni attributi che nessuna ha la liceità di escludere dalla strutturazione dell’oggetto; infine, che questa astoricità di alcuni aspetti dell’umano non è in funzione dell’umano stesso, in quel che ha di soggettivo ossia di relativamente comportamentale in quei suoi modi che sono un fare o un operare sul piano cognitivo, ma dell’oggetto di fronte a cui la coscienza umana si pone, e che deve necessariamente esser pensato come una cosa una e unitaria, dotata di immutabilità sia in questa unità e indivisibilità sia in quelle modalità che sono concomitanti necessarie di entrambe.
Da queste osservazioni mi pare siano offerte la liceità e la legittimità di enunciare una delle condizioni immanenti necessariamente- 41 -e logicamente nelle modalità di funzionamento della coscienza umana: ogniqualvolta sia eretto a termine d’applicazione dell’attenzione un oggetto, ossia una rappresentazione, in vista della sua riproduzione in una seconda rappresentazione che espliciti in sé quanto di implicito si presuppone immanente nella prima, se si rende necessario attribuire a questi conoscibili impliciti gli attributi formali dell’intelligibilità, ossia dell’immutabilità e dell’indipendenza funzionale dal tempo, la coscienza conoscente sarà tenuta ad utilizzare i suoi meccanismi riproduttivi o traduttori in modo che nella rappresentazione esplicita quegli impliciti si trasfondano sotto forma di noti che dovranno racchiudere tutte le stesse denotanti formali, qualunque sia il contenuto materiale dell’oggetto e l’organizzazione formale di questo contenuto entro l’oggetto; qualora in momenti diversi del tempo un oggetto assunto convenzionalmente con tali caratteri formali sia stato reso punto d’applicazione dell’attenzione, è lecito che si sia verificato che le molteplici rappresentazioni, tante quanti sono gli atti di attenzione datisi nei vari momenti, con cui si è preteso di esplicitare l’implicito statico e immutabile dell’oggetto trattato come «cosa», siano eterogenei l’una dall’altra, essendosi ciascuna lasciata connotare da denotanti – che dovrebbero essere i correlati espliciti equivalenti agli immutati intelligibili impliciti nella prima e univoca rappresentazione - le quali sono eterogenee l’una dall’altra, donde segue che è lecito che differenti rappresentazioni esplicitatrici si sian succedute nel tempo, tutte egualmente pretendenti ad essere la riproduzione perfetta della «cosa» con quanto implicitamente contiene; e, con ciò, in definitiva, è lecito che tutte verifichino la condizione di ogni cosa umana di essere un diveniente in funzione del tempo; ma è simultaneamente necessario che tutte partecipino di qualcosa di ineluttabilmente identico, costituito almeno dalla nota generica di «cosa» con cui si deve assumere l’oggetto e dal rapporto di riproduzione immutabile in cui la rappresentazione esplicitatrice deve essere pensata nei confronti della «cosa». Fattori vari incidono sull’eterogeneità delle rappresentazioni esplicitatrici o teorie, gli stessi in fondo che immangono entro le altre componenti simultanee a determinarne la rispettiva qualificazione, fattori altrettanto mutevoli quanto le quantificazioni delle teorie e delle altre componenti:- 42 -il punto di vista scelto per l’osservazione dell’uno tutto immobile nella sua totalità, le passioni, gli ideali, gli interessi, la somma delle altre rappresentazioni esplicitatrici di altri oggetti o patrimonio di conoscenze, il clima sociale, il fondamento economico, ecc. Ciononostante, tutti questi fattori non hanno nessun potere di influire su quel che viene attribuito all’oggetto, di essere un uno, un indiviso, un immutato in questa qualificazione e in quante altre entro di esso si ritrovano con siffatte denotanti formali.
Questa è una delle condizioni del nostro conoscere. Essa evidentemente si ripete tante volte quanti sono gli oggetti che hanno il diritto di esser assunti come «cose», qualsivogliano siano la materia e la forma che li costituiscono: e, per la verità, io non riesco a trovare nessun oggetto o rappresentazione a connotazione implicita da esplicitarsi che non debba anche essere assunto sotto quell’aspetto. Ma, a parte questo, preso atto di siffatta nostra condizione, si ha il diritto di chiedersi come il nostro pensiero debba comportarsi nei confronti del passato, ossia delle rappresentazioni esplicitatrici che si son date eterogenee ed insieme omogenee nel divenire che lo ha preceduto, quando si trova dinanzi il compito di cercare di darsi una propria rappresentazione esplicitatrice di siffatto oggetto. Evidentemente avrà la liceità di comportarsi in due modi: assume una o alcune o tutte queste teorie, la o le confronta con le altre, ne rileva l’eterogeneità, le descrive, le giustifica attraverso la correlazione che instaura fra ciascuna teoria e gli aspetti simultanei o concomitanti che si son legati in vincolo funzionale con essa, e infine, se vuole, ordina la successione per eterogeneità in funzione temporale delle teorie eterogenee, proiettando sul rapporto che intercorre fra ciascuna teoria e le teorie che la precedono e la seguono la tonalità che ha ritrovato o creduto di ritrovare peculiare della connessione che lega la porzione di divenire cui appartiene ciascuna teoria e le porzioni antecedenti o successive di cui le teorie che l’han preceduta o seguita sono aspetti o componenti. Con ciò fa della storiografia nel senso preciso del termine, in dipendenza, s’intende, del principio-presupposto storico che ha fatto suo, della teoria che ne è derivata, del metodo che si è dovuto inferire dalla teoria accettata. Ma il comportamento ha il diritto legittimo di essere un altro:- 43 -dal momento che tutte le teorie precedenti hanno in comune la nozione del loro oggetto come «cosa» e della necessità di una invariabilità del rapporto che le lega a questo oggetto in quanto «cosa», è lecito prenderle tutte o alcune o una sotto quest’aspetto di omogeneità reciproca e indifferente al tempo e all’eterogeneità che da questo scaturisce, è lecito richiamarle tutte alla memoria, farle proprie rappresentazioni esplicitatrici attuali e riportarle in quello stesso rapporto con l’oggetto «cosa» in cui esse s’erano messe e in cui è consentito riporle se non altro grazie all’identità di quanto di più generico, l’esser esso una «cosa», nel loro oggetto «cosa» e nel proprio oggetto «cosa» si trova; lo scopo è evidente: se il loro compito era di esplicitare l’immutabile implicito nella «cosa», se quel che ci proponiamo noi non varia da questo compito, se immutati devon essere postulati i meccanismi formali dell’indagine, la riproduzione della o delle teorie, si traduce nella presa di coscienza di altrettanti rapporti esplicitatori, nella riaccensione di altrettante luci gettate sull’implicito; una serie di rappresentazioni, ciascuna delle quali pretende di essere la determinazione e distinzione di un immutabile immanente immutabilmente in un immutabile, diventa materiale posseduto e presente; è vero che questo materiale è preda di contraddizione per l’eterogeneità che lo caratterizza, ma è altrettanto vero che il pensiero ha a sua disposizione l’unicità dell’oggetto «cosa» su cui controllare gli eterogenei per decidere che cosa fare di quella loro contraddittorietà, che se per caso il confronto dovesse mai rivelare che uno tra i contraddittori è un esplicito veramente equivalente a quel che di implicito non può non essere immanente nell’oggetto termine di univoca attenzione – è quel che è capitato alla presa di coscienza dell’umano come di un divenire per eterogenei in funzione del tempo -, la rievocazione del passato ci ha dato la ricchezza di una verità; che se per caso il confronto rivela l’errore, con quel che questo significa nel rapporto fra rappresentazione esplicitatrice ed oggetto, la rievocazione non ci libera solo dall’errore, ma dagli atteggiamenti che ne sono alla sorgente e che coincideranno con quei fattori storici di cui sopra, dal metodo alla cui foce sta quell’errore, dalla teoria generale da cui è nato il metodo e, comunque, da quel che di inadeguato questa teoria contiene.- 44 -L’obiezione, che questo comportamento non è lecito perché nessuna coscienza umana ha la liceità di disporsi in quello stato di acronicità o indipendenza funzionale dal tempo in cui si può anche ammettere sia stata posta dalla coscienza quella rappresentazione dell’oggetto «cosa», la quale però è di fatto una rappresentazione-zero o tendente allo zero, ma in cui in nessun modo è ammissibile che riesca a porre la o le teorie passate, e perché nello stesso momento in cui prendiamo posizione dinanzi alla rappresentazione gonfia di implicito e alle rappresentazioni esplicitatrici che si son date nella storia, la nostra coscienza non sfugge alla sua condizione di cosa umana soggetta alla dipendenza del tempo e quindi all’impotenza a guardare all’una e alle altre in indipendenza funzionale da quei fattori che sono la matrice della qualificazione della porzione di divenire umano cui appartiene, è una voce particolare di quelle teorie di storicismo assoluto e ne mostra tutta la corda: perché, una volta accettatala, da un lato ci si preclude non solo questo atteggiamento, ma anche l’altro, quello storiografico, che diverrebbe una pretesa, inetto come sarebbe a darsi le teorie del passato con le qualificazioni che le hanno di fatto e di diritto caratterizzate, e soggetto come sarebbe a doversi servire, per attuarsi in opere storiografiche, non delle semplici teorie, ma anche di opere storiografiche del passato, il che non avrebbe la legittimità di fare, dall’altro offende o chiude gli occhi sul dato di fatto che almeno un identico si dà che si sottrae al tempo ed è l’univoco e omogeneo rapportarsi attraverso il tempo della coscienza a un oggetto «cosa» costantemente assunto come tale, e sull’altro dato di fatto che qualcos’altro di identico si [[è]] ripetuto nella storia, e precisamente certi, sia pur pochi, noti esplicitatori di impliciti nella «cosa» i quali, una volta enunciati, sono stati immediatamente ripresi da molte se non da tutte le teorie e son diventati il cosiddetto patrimonio comune, dall’altra ancora ignora che l’atteggiamento che essa combatte di fatto è uno dei ripetuti nella storia, in cui più volte è stato utilizzato. L’obiezione, ancora, che una coscienza che aduni in sé teorie passate su di un oggetto e ne tragga la serie delle nozioni che è lecito considerare riproduzioni esplicitatrici di enti di fatto impliciti nella rappresentazione dell’oggetto, non fa che dell’eclettismo, è valida limitatamente a- 45 -quelle menti che vogliono fare della serie un sistema ossia la rappresentazione esplicitatrice equivalente all’oggetto nel suo tutto e in ciascuna delle sue parti, non per quelle che delle teorie passate e del loro contenuto si valgono al semplice fine di prender atto se e in che cosa adeguino l’oggetto e di usare questi dati adeguati, ammesso che vi se ne ritrovino, come spunti da cui proseguire o gradini già saliti da cui salire ad altri.
La domanda, se questo comportamento prescinde da quello storiografico e faccia a meno di quanto esso mette in luce, rapporti, influssi, dipendenze funzionali, genesi per analogia o per inferenza o per contrapposizione, utilizzazione di patrimonio nozionale, ecc., riceve come risposta che non solo tale indipendenza non esiste, perché evidentemente nessuna teoria è conosciuta entro i limiti di se stessa e fuori dai vincoli che la legano alla porzione di divenire umano cui appartiene, ma anche che il secondo comportamento amplia e approfondisce il primo: infatti, a differenza di questo, si sente tenuto - o che il pensiero di chi ha posto la teoria l’abbia fatto lui stesso o che non si sia preoccupato di farlo – ad esplicitare tutto quel che implicitamente la teoria comporta, ad inferirne tutte le conseguenze sino all’ultima, a rilevarne tutti i canoni metodici anche i più celati, a stabilirne tutte le nozioni da cui ha preso origine, ad elencare con la massima precisione tutti i principi, premesse, postulati, pregiudizi, definizioni che essa racchiude, a rilevare la connessione, qualora ci sia e di qualunque tipo sia, che lega la teoria o le teorie riprese dal passato ad altre teorie che le precedono, indipendentemente dal nesso di tipo storiografico e in funzione soltanto del vincolo logico che con esse ha intrecciato, consapevolmente o no, volontariamente o no, il pensatore che l’ha o le ha enunciate, - e questo indipendentemente dal fatto che teoria o teorie si accettino o in tutto o in parte o in nulla dal punto di vista della loro adeguazione alle pretese che esse avanzano di porsi a rappresentazioni esplicatrici dell’oggetto, per il solo motivo che una teoria è quel che non è solo nei concetti che la connotano e nella «situazione» storica che la caratterizza, ma in tutta quella serie di denotanti aggiuntive or ora elencate; solo che tale secondo comportamento ha la liceità di servirsi per la definizione «storiografica» della- 46 -teoria, del materiale storiografico già acquisito come valido, e non è tenuto a ricostruirne una esso stesso. Che poi questo comportamento con l’atteggiamento che trae seco sia storia o storiografia, questa è un’altra questione. Se storia è storiografia, con tutto quel che questa significa e di cui mi pare di aver già detto abbastanza, storia non è. Se storia è, come giustamente è stato ritrovato proprio da chi è riuscito a scoprirlo guardando non storicamente al divenire umano come storia, un riporre nel presente il passato, un rendere contemporaneo quel che è antecedente pel solo fatto di ricostituire con autocoscienza e ridotare di autocoscienza, tramite un’investitura della nostra stessa autocoscienza, quanto l’aveva perduta, esso è storia; ma occorre precisare: il fare del passato un presente mediante la storia non è una locuzione univoca, ma ambigua: da un lato abbiamo la presenzialità del descrivere che è un far rivivere nelle loro modalità, qualificazioni, relazioni intrinseche ed esteriori, i passati; dall’altro abbiamo la presenzialità del vivere, che è un ridonar vita al passato onde esso riesca a rientrare come elemento attivo, come pedina in gioco della partita che si sta combattendo, nelle operazioni e nei meccanismi della coscienza; la prima è un rifar presente il passato che è opera e fine della storia al servizio della storiografia, la seconda è il rifar presente il passato che è opera e fine dell’attività teorizzatrice o ricercatrice della verità. Se anche questo secondo modo, per quel suo carattere di presenzialità di un decaduto dall’autocoscienza, lo si vuol chiamare storia, storia sia. Per me non è storia; è un momento o fase o strumento della ricerca cognitiva, della teoria in fieri. L’obiezione, infine, che l’atteggiamento storiografico che ricrea, per dir così, la teoria entro l’ambiente storico di cui è momento è veramente storia perché guarda alle cose dal punto di vista del loro interiore strutturarsi, mentre l’altro atteggiamento, che tutt’al più dello storiografico accetta relazioni intercorrenti fra teorie lontane nel tempo ignorando le plaghe interposte, non sarebbe storia, ma un mero prender contatto con la superficie delle teorie guardate nella loro pellicola epidermica, non ha ragion d’essere, se non per chi si chieda se il comportamento appartenga all’ordine storiografico o no, cosa che è già decisa a priori con la distinzione dei due modi di rifarsi al passato, e, d’altro canto, potrebbe anche veder ritorcersi- 47 -l’accusa di superficialità su se stessa, perché evidentemente ai fini della determinazione del valore teoretico di una teoria le definizioni o meglio descrizioni storiografiche che la riguardano non toccano il suo fondo, ma solo l’epidermico aspetto dei suoi rapporti con il contemporaneo o con l’antecedente o col successivo, indipendentemente dai suoi rapporti con l’oggetto di cui pretende di essere la più adeguata delle rappresentazioni riproduttive.
Questo secondo comportamento, con tutto quello che esso è e racchiude, col metodo che comporta, coi fini cui mira – cose tutte già dette sopra - io ho assunto nello studiare la dottrina della conoscenza di Enrico Bergson e nell’esporre i risultati di questo studio in questo lavoro. In breve, dinanzi alla rappresentazione di quell’oggetto «cosa» che è la conoscenza umana, rappresentazione che, nella sua totalità una ed unitaria e in quelle componenti che vi han diritto a questo attributo formale, è immobile e intelligibile, ho posto me stesso, la teoria di Bergson e le teorie fondamentali che mi è parso entrassero in effettiva connessione con questa. Sul conseguimento dei fini propostimi e sul servizio che i risultati di questa ricerca son capaci di offrire alla soluzione del problema della conoscenza, non sta a me giudicare.
Mi soffermerò solo a rilevare che cosa mi ha maggiormente colpito nella dottrina di Bergson e perché mai ho finito per indagarla e valutarla sotto un punto di vista che a un certo momento ha preso corpo in questo mio metodo.
Osservare la vita che ci circonda significa non solo conoscere, ma anche apprendere attraverso la manifestazione esterna i processi interiori di conoscenza che in altro modo restano incomunicabili. Potremmo chiamarlo un metodo del comportamento e considerarlo un sostegno a quell’osservazione di sé che tanto più è difficile quanto più stratificazioni varie si sovrappongono alla sincerità dell’indagine. Leggevo tempo fa alcune pagine di Roland, in cui, attraverso una vena volutamente poetica e a me poco gradita, si venivano descrivendo gli atteggiamenti e i costumi dello scorpione. È noto il suicidio dello scorpione: di fronte a un pericolo insuperabile lo scorpione uccide se stesso; posto in un cerchio di carboni accesi piega la coda fino a che l’aculeo venenifero non penetra nel corpo e vi inocula- 48 -la goccia mortale, procurando in tal modo all’insetto la liberazione attraverso la fine. Il Roland non avrebbe mai notato questo fatto nelle sue esperienze; ma dietro un suo articolo sul Mercurio di Francia gli giunsero lettere di vari che avevano assistito di persona al reale verificarsi del fenomeno. Concesso a questo validità, l’unica spiegazione che se ne possa dare è quella di una conoscenza immediata e innata della propria struttura, di un’intuizione di sé che appare tanto più stupefacente quando si pensa che lo scorpione risulta inattaccabile dal suo veleno se non a una dose altissima, duecento volte quella necessaria a uccidere una cavia; quindi tale atto sarebbe la risultante di una duplice conoscenza immediata, del potere dell’arma e dell’esistenza di un centro vitale, unico sensibile agli effetti letali. Tale modi di «sapere» il mondo degli insetti possiede in altissima misura e prende al servizio non solo per azioni esercitate su di sé, ma anche per quelle compiute su individui della stessa specie o di altre. È qualcosa di diverso e di più di un atto riflesso, qualcosa che ritroviamo in tutto il mondo animale: nel momento della difesa ogni vivente ricopre e ripara le parti più vitali o più indifese. Ed è da porsi al di fuori di un processo empirico di apprendimento, magari di durata secolare, quale intendiamo comunemente quando ci riferiamo a certe nostre abitudini, in quanto sotto queste sta una memoria e un potere di controllo coscienti, sotto quello l’assenza di qualsiasi prova che attesti l’esistenza di poteri simili o uguali. Il potere di controllo dei fenomeni della vita e quindi una loro conoscenza sono la caratteristica del mondo degli insetti. L’intuizione, concepita come contatto immediato coi fatti biologici, sta alla società del’insetto come l’intelletto, concepito come catena di idee che lega l’individuo al fenomeno esterno, sta alla società dell’uomo. Non possiamo certo pensare che ognuno dei due poteri sia proprietà esclusiva del rispettivo gruppo: a parte il fatto che sarebbe difficile credere che una manifestazione, la vita, che si dà identica sotto gli aspetti fondamentali nell’una e nell’altra società, possa poi differenziarsi nella sua natura più profonda; basterebbe l’osservazione di entrambe per rivelarci che là dove domina l’intuizione non manca l’intelletto, e viceversa. Ma ciò che stupisce in Bergson è l’appello fatto all’intuizione; non è certo l’intuizione dell’insetto che Bergson vuole- 49 -additare al’uomo; anche Bergson s’accorge della differenza tra l’individuo fasciato di chitina e chiuso nel mondo della vita, e l’individuo che, coi sostegni dentro la carne, lascia la sua vita in immediato contatto col mondo della materia; sotto tale diversità coglie il rapporto esistente fra potere e strumentalità, e l’influsso che la seconda esercita sul primo fino a renderlo strumento, togliendogli, se ciò può dirsi, la capacità dell’autonomia, dell’uso in sé; in fondo, a ciò è portato da un’analogia di procedimento nei giudizi su intelletto e su intuizione. Ma l’appello resta, e resta la dichiarazione che fa dell’intuizione vero e sovrano strumento di conoscenza, di quell’intuizione per la cui definizione e descrizione si deve far ricorso al comportamento degli insetti, sia pure spogliato fin che si voglia di ogni strumentalità. Dovevo perciò cercare che cosa l’avesse condotto a ciò. Non bastavano né l’esigenza sintetica del sistema né i poteri di una mente altissima né l’adduzione ad unità di una serie di osservazioni sempre più ricca: mi parevano questi i materiali, non il piano direttivo della costruzione. Ora, questo mi è sembrato di trovare nella volontà o nel bisogno di indagare sul modo di conoscere dell’uomo e sulla sua validità. Di qui il rapporto intelletto-intuizione, lo svolgimento dell’uno e il richiamo all’altra. Ma mi è sembrato che al disotto ancora ci fossero esigenze e problemi che oltrepassavano il quadro delle questioni contemporanee a Bergson e spingevano le radici nel moto continuo della stessa indagine ridotta però allo scheletro della formula sua più semplice. Così compresi che la questione della libertà e quella della coscienza epifenomeno, i problemi del valore della scienza e dell’uso universale delle leggi fisiche, celano un filo che conduce direttamente a Kant e di qui risale a Descartes: e ne cercai i punti di passaggio. L’intuizione allora diventava il medio tra una serie di dati fissati, imprigionanti l’uomo nella trascendentalità, dati che Bergson ritrovava in sé in quanto legato a certi gradini del processo storico, e il bisogno del vero e del reale, che anima ogni uomo e che Bergson ritrovava in sé come individuo della sua specie, legato alla catena del rapporto fra sé e ciò che è fuori di lui. D’altra parte, la stessa intuizione si trasformava in uno scotto che prima o poi si doveva pagare.
Così lentamente si è venuto formando in me il criterio che ho- 50 -seguito nel fissare i principi di questa che chiamo dottrina del conoscere: cercare il nocciolo del frutto, scartandone la polpa cui le questioni contemporanee fornivano succo e sapore superficiali. Anch’io ho accettato, per questo, dei presupposti: la convinzione che in ogni teoria vi sia un apparato che il momento storico impone e una struttura i cui agenti motori sono in noi in autonoma indipendenza dalle forze del tempo; il rifiuto di ridurre l’indagine su un pensatore alla ricostruzione di un quadro fissante solo i rapporti nel tempo; l’incapacità a ridurre tutto a divenire, e a non scorgere in questo il moto pendolare fra le esigenze della «vita» e le forze che essa si trova di fronte nel momento in cui fa sentire la sua voce, moto per cui ora sono le seconde a scatenare la prima, ora è questa a generare quelle, in un gioco entro il quale [[sono*]] andato a cercare l’unità duratura che da entrambe scaturisce, ossia, in parole povere, quale eredità feconda ci è dato ancora raccogliere dalle pagine scritte da Bergson.