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Capitolo I
LA METODICA DELLA RELATIVITÀ
Qualunque sia la descrizione che il problema del conoscere ha ricevuto da un filosofo, qualunque sia lo stato in cui lo si è posto nei vari sistemi lungo lo svolgimento del pensiero, è possibile affermare che la dignità attribuita al «campo» della conoscenza e il grado rivestito da questo campo - accanto a quelli della metafisica e della teologia, dell’etica e della psicologia, della sociologia e dell’economia, e agli altri che, se non altro per comodità di trattazione, autori e storici delimitano e ipostatizzano nell’attività della speculazione – hanno costituito, fino ad oggi, uno dei principali punti di orientamento e di differenziazione valutativi. Non appena il pensiero ha controllato se stesso e in se stesso ha cercato gli strumenti atti a fissare valori e limiti ai valori, la dottrina ha abbandonato lo stadio dell’indifferenziato e si è organizzata in un complesso di scienze singole, le quali acquistano individualità attraverso la determinazione del proprio oggetto e la ricerca di un metodo che gli si adegui: le scienze divengono molteplici punti di applicazione, il cui moltiplicarsi è in rapporto diretto con l’ampliamento e l’approfondimento dell’orizzonte speculativo. Nondimeno, alla diversità e pluralità dei concetti formati, dei giudizi espressi, delle conclusioni raggiunte, è sotteso un unico elemento, che è a un tempo lo strumento comune, il pensiero. Una nuova scienza nacque quando dagli oggetti e dai metodi singolari e dalle loro determinazioni ci si trasportò al pensiero e del pensiero si fece- 52 -un oggetto, privilegiato come quello diretto, onde definirne le forme in quanto ordinate alla conoscenza, ed i principi generali che pone a proprio fondamento di fronte a qualsiasi situazione e in qualsiasi condizione di attività. C’è chi ha voluto e vuole introdurre la logica nel campo della conoscenza e fare della logica una componente della questione del conoscere. Ora, io penso che l’inserimento della logica, in quanto catalogazione dei processi mentali, falsi la delimitazione del campo: in certo modo, si snatura l’atteggiamento di chi per la prima volta si è posto delle domande sulla conoscenza e ci si inganna, scambiando la presenza di uno stesso elemento, il pensiero, nel campo gnoseologico e nel campo logico, per una identità di interesse e di intendimenti o, per lo meno, per un rapporto di parte a tutto che in realtà non esiste. Un campo di conoscenza si forma solo nel momento in cui il pensiero si preoccupa di vedere e sapere che cosa valgano le sue azioni speculative, a quali condizioni e per quali motivi esso possa riporre fiducia in se stesso e, viceversa, per quali considerazioni si debba finire per dichiarare introvabili siffatte condizioni e utopistici siffatti motivi, con la conclusione amara che alla coscienza sono aperti giudizi di valore su tutto, fuor che su quel che conosce e sul modo con cui conosce: sarebbe interessante scrutare se per caso non sia il pauroso sospetto di quest’ultima possibilità ad aprire la stura ai suddetti tentativi. Un campo di logica, invece, si delinea e si precisa in seguito alla preoccupazione da cui il pensiero vien preso di descrivere se stesso in certi suoi modi di operare e di cogliere in tali modi al di sotto della varietà molteplice dell’operare qualcosa che rimanga sempre uguale e di cui sia lecito fare una classe. È evidente che il primo campo impegna la coscienza nella sua totalità, mentre il secondo impegna la coscienza entro quei limiti che potremmo chiamare di chiarificazione e di differenziazione di ciò che prima era diffuso e confuso entro di noi, è chiaro che nel primo campo entrano in gioco interessi che voglio chiamare biologici, in quanto colpiscono l’attività generale dell’individuo, la pace e la felicità sua e della specie, il destino e la finalità dell’individuo e della sua sfera; il secondo riduce tutte le sue cure al compito di guardare con maggiore e minor chiarezza il suo oggetto, di trovare il metodo e gli- 53 -strumenti più adatti per analizzarlo e catalogarlo, e, una volta fatto questo e raggiunti risultati obbiettivi, si può spegnere la luce che il giorno si è chiuso; è certo che, se non ci si chiede niente del valore della conoscenza, tutta la fatica speculativa, che può dirsi spesa per il pensiero in sé e in assoluto, versa il suo sudore nel campo della logica, ma è altrettanto certo che non appena ci si chiede della rispondenza e dell’origine e dei fini dell’attività speculativa, subito ci si trasferisce di piano e, anche se si conclude che la struttura del pensiero così come la coglie la logica è l’optimum della conoscenza, non si è fatto altro che prendere il campo logico ed elevarlo alla dignità del gnoseologico, il che implica una susseguente coincidenza di piani e non una identità, mentre il risultato, diverso o opposto, fa del campo logico un soggetto di giudizio del campo gnoseologico. Il carattere normativo, o almeno precettivo, che la logica ha assunto e vuole assumere è un effetto della elevazione di grado che la scienza della descrizione del pensiero ha subito grazie allo spostamento di interesse che la coscienza opera da un punto di vista di «essenza» e «struttura» a un punto di vista di «valore» e «utilità». Ma lasciamo stare questa normatività o precettività; resta il fatto che la logica, limitandosi alla determinazione di tipi discorsivi irriducibili, rimane, come del resto ogni altra disciplina, per dir così, racchiusa entro l’ambito del suo oggetto – che nel suo caso è il pensiero – e si trova nell’incapacità di procedere tosto che alle forme e ai principi si chieda non tanto di definire la propria costituzione, ma il proprio significato nei confronti di ciò a cui si applicano. Se, cioè, al giudizio di essenza sostituiamo un giudizio di relazione, vale a dire di valore, tendiamo allora a stabilire con quale diritto e fino a qual punto ci possiamo di essi servire riguardo a «stati» che alla coscienza nella sua attualità appaiono indipendenti dal pensiero stesso, e a fissare le condizioni di una congruenza non solo fra pensiero e stato, ma anche fra stato e stato. E ricercare diritti, limiti e condizioni non significa che riconoscere indipendente una disciplina che della conoscenza, come relazione, fa il proprio oggetto e che raggiunge la conclusione, erigendola a teoria, in un giudizio di valore, di utilità e, a un tempo, di limite. Quando, però, si parla di estraneità del campo logico da- 54 -quello del conoscere, non s’intende né esclusione dell’uno dall’altro né reciproca indipendenza. Se si ha una questione del conoscere solo quando la coscienza si atteggia in modo che l’intero suo svolgimento sfoci in un giudizio sul rapporto fra l’elemento conoscente e il conosciuto, necessariamente cola nel campo del conoscere tutto ciò che ha provocato e prodotto la introduzione di un campo differenziato della descrizione della speculazione, e, quindi, la logica entra in contatto con la gnoseologia; infatti diventa uno degli elementi su cui si scaricano le correnti che compongono le linee di forza del campo gnoseologico, allo stesso modo che lo divengono tanti altri oggetti, come le sensazioni ad esempio, o le concezioni sintetiche e gli impulsi mistici o le attività artistiche, ognuno dei quali costituisce l’oggetto privilegiato di altrettante scienze o campi differenziati. Prendiamo una teoria della conoscenza a piacere: essa, come descrizione e interpretazione della questione del conoscere, è sempre riducibile a una semplice proposizione, in cui si definisce la dignità di un rapporto; del rapporto fan parte gli strumenti che la logica ha definito ed altri elementi e fatti, che, presi nella loro apparenza più semplice e immediata, hanno come carattere fondamentale quello di appartenere alla coscienza. Ne consegue che l’atteggiamento di pensiero con cui si ricercano i modi e le condizioni sotto cui si conosce, si scinde in tre diversi momenti, i quali, nondimeno, nell’atto con cui ci si riconduce all’unità di una sola concezione, si organizzano e si compenetrano reciprocamente: il momento psicologico infatti, o momento del farsi della conoscenza, il momento logico, o momento della strutturazione inalterabile e catalogabile della conoscenza, il momento gnoseologico, o momento della validità della conoscenza, presupponendosi il primo e il secondo in un’evoluzione in cui l’uno dipende dall’altro, e riconducendosi entrambi al terzo, postulano un problema unico ed assoluto, che non è né logico né psicologico. Il problema, invero, si accentra attorno alla genesi dello stato di coscienza fondamentale, da cui dipendono tutti gli altri: esso riguarda direttamente la coscienza nell’istante preciso in cui si pone uno stato che essa immediatamente coglie come originato da alcunché che in quell’istante non si identifica con essa. - 55 -Non si vuole, qui, fare l’esaltazione della questione del conoscere, in primo luogo perché il mio compito si limita a una descrizione di fatti che è molto lontana dall’esser completa e si ferma solo a quei punti di riferimento storici che possono servire ad avviare me ed altri alla comprensione di ciò che Bergson fece per «sistemare» la sua coscienza nei confronti degli interrogativi che una postazione del campo del conoscere aveva in lui fatto sorgere – e col descrivere difficilmente si abbraccia il risolvere, soprattutto quando si ha che fare con questioni che, come quella del conoscere, invadono l’animo umano nella sua totalità; in secondo luogo, perché il campo del conoscere è molto meno vecchio di quel che si crede e la sua assoluta differenziazione è tanto recente che manca la comodità di una bella prospettiva che ce lo faccia guardare in santa pace, così come esploriamo la permanenza di influssi antropomorfici in una sistemazione geocentrica; in terzo luogo, perché la problematica della conoscenza non esaurisce la filosofia né si deve identificare il campo della filosofia con quello della conoscenza, se non a patto di schierarsi fra coloro che sentirono di poter risolvere il primo solamente in virtù di una postazione e definizione del secondo. Quindi, soltanto nei confronti di tali pensatori è valida la mia affermazione iniziale, che la posizione che si assume di fronte a tale problema, il punto di vista da cui ci si pone e rispetto al quale lo si inquadra nell’universo che il pensiero considera, possono esser assunti come fattori di valutazione. Appunto di dignità e di grado parlo, e non di definizione, e di sistemazione, perché, se di tutti gli interrogativi che esigono un’indagine e una conseguente risposta si può dire che già l’impostazione stessa influisce sulla costruzione, questo è tanto più vero per ciò che riguarda la cognizione. Si aggiunga inoltre questo che una domanda in genere è in sé compiuta, offrendo un unico oggetto e attendendo una risposta, la quale, pur risalendo necessariamente ad altre antecedenti o a definizioni già date, è costretta ad illuminare un unico campo; accingendosi, invece, a una teoria cognitiva, non delimitiamo né chiariamo un oggetto, bensì un rapporto, e dobbiamo, simultaneamente, stabilire condizioni e limiti, senza preoccuparci di chiarire la natura di ciò che verrà in tal modo sottoposto a condizionamento- 56 -e a limitazione. L’esigenza, cui è sottoposta la teoria del conoscere, è tale che il porre questa in uno o in altro modo determina la consistenza di tutto quanto il sistema e, in pari tempo, la posizione ne è data dall’intero indirizzo. È noto che gli psicologi di oggi guardano ai pensieri, nel senso empirico del termine, più come a delle tendenze mobili che come a dei dati compiuti. Passando in un piano più elevato, si potrebbe assumere un sistema meno nella sua interezza già formata, che nel suo impulso originario; accettando ciò con precauzione, quasi fosse una metafora, la tendenza conterrebbe già in sé il punto di vista da cui di necessità verrà osservata e giudicata la conoscenza e questa diverrà rappresentativa di tutto il sistema. Non intendo, con questa traccia schematica, giungere a dire che debba porsi a fondamento del pensiero il problema della conoscenza, come quello dalla cui soluzione sia da trarsi l’abbrivo per il conseguente svolgimento. Un simile criterio è lontano da me e dalle mie intenzioni: esso implica la sostituzione di un atteggiamento che sia interpretativo del reale, a quello che lo è soltanto delle interpretazioni già date. Anzi, per chi si limita a rivivere il pensiero altrui, sarebbe alquanto difficile dire che cosa c’è di fondamentale o meno in esso o che cosa si debba assumere per fondamentale: più che una definizione o una concezione, si ricerca una nota che è caratteristica al tutto e che risuona di tempo in tempo, richiamandoci a un senso specifico, che è senso di riconoscimento. La nota non si materializza mai, non la ritroviamo mai oggettivata in questa visione o in quell’enunciato: attorno a un’incognita, che ha mosso diverse correnti di meditazione, si raggruppano e si affiancano l’una vicina all’altra le teorie e le definizioni, nel cui contenuto, già formato e completo, si somiglierebbero senza alcuna differenziazione sostanziale, se non intervenisse la nota a darcene l’interna movenza e significato. Solamente, in quanto noi vediamo una trattazione che riguardi la conoscenza essere in modo particolare pervasa da questa nota, solamente in questo senso noi ci rivolgiamo ad essa, come a quella che in maggior misura ci consente di compenetrare e di risalire a quella tendenza di cui il pensiero, compiuto ed enunciato, costituisce la manifestazione percepibile. - 57 -La soluzione in sé, dunque, non può richiamare l’interesse, almeno nei termini in cu si è posta la questione, se non in quanto attraverso di essa traspare la posizione occupata dal problema e dal campo del conoscere. Le varie soluzioni, com’è naturale, si differenzieranno l’una dall’altra, affideranno preponderanza più all’uno che all’altro fattore, assicureranno dell’esistenza di particolari facoltà e metteranno in rilievo l’una a detrimento dell’altra: ma si tratterebbe di vedere forse se non ci si trovi di fronte a una gradazione di diversità, non già a delle diversità che sono tali di natura; si tratterebbe di dimostrare se nella loro varietà non si possono raggruppare in classi che racchiuderebbero nella schematicità di un astratto il multiforme concreto e se queste classi non possano venir ridotte al minimo possibile, sì da condurci al cospetto di pochi atteggiamenti assoluti di pensiero. A tale scopo, dopo aver formulato un giudizio, di valore generale, sulle varie costruzioni di pensiero, ci siamo attenuti alle soluzioni da esse date al problema della conoscenza e ci è sembrato vederle disporsi l’una vicino all’altra , come sotto l’influenza di una forza d’attrazione reciproca, e formare dei gruppi, ognuno dei quali rappresentativo di una tendenza, di una nota universale del pensiero umano. O che si affermi che l’uomo conosce non appena riesce a far coincidere l’oggetto conosciuto nella sua attualità con una realtà già posseduta perché già conosciuta, o che si ponga la conoscibilità del reale in uno stato di conoscenza particolare, che si differenzia da tutti gli altri per un contenuto di luminosità e di eminente individualità, e di cui dà garanzia un’assoluta verità che ci è data ab aeterno, o che si affidi la dignità della relazione gnoseologica a una corrispondenza fra la ragione e l’esistente, uguale a quella che passa fra i punti di due rette correnti parallele all’infinito, o che, alfine, si attribuisca tale dignità, al potere di scernere nella molteplicità del conosciuto, in virtù di un mezzo di elaborazione posseduto dal pensiero nell’atto stesso in cui si costituisce, la diversità delle forme, non ci si nasconde che il modo con cui ci si è accinti a dar risposta al come e al perché si conosce, è identico anche se diverse sono le vie battute. Di contro vediamo chi, addentrandosi nell’essenza del problema, prima ancora di avventurarsi a dare una risposta si accorge che, in definitiva,- 58 -la questione investe un rapporto e che, come tale, richiederebbe la previa conoscenza dei termini: una volta, poi, dichiarata l’inconoscibilità dell’uno, recide senz’altro il problema, in quanto insolubile per insufficienza di dati; vediamo ancora altri che pone a presupposto della risoluzione la ricerca degli elementi cu sui viene operata una conoscenza e l’indagine esatta sulla loro origine, onde fondarne il valore, o che, ancor prima di accingersi all’ordinamento della rappresentazione del mondo, indaga quali problemi sollevino gli elementi di cui ci si serve per la ricostruzione, o che, infine, studia le facoltà possedute dalla ragione per la conoscenza e reputa che queste si esercitino sì su materiali estranei, ma i quali a loro volta hanno ricevuto una manipolazione da parte di chi li accoglie, in modo tale che la natura del problema non muta, permanendo sempre la sua caratteristica relazionale, ma il rapporto dal pensiero all’esistente si muta in quello fra una facoltà della coscienza e un’altra facoltà, di cui si precisano i mezzi, ma del cui contenuto non si può dare l’origine. Quantunque da alcuni si scenda a maggiore profondità o si scelgano punti d’indagine trascurati da altri, l’atteggiamento nondimeno è il medesimo e comporta un medesimo punto di applicazione e di considerazione del problema.
Appunto su questi due diversi punti di vista vien richiamata l’attenzione: il primo può giungere a una particolare concezione del reale, ma muove dal presupposto che nel reale siano date condizioni sufficienti perché il pensiero possa darselo nella sua interezza e con assoluta corrispondenza come rappresentazione; il reale è di per sé conoscibile e una scienza del reale, con le sue varie applicazioni nelle diverse discipline, è consentita da questa presupposta sua condiscendenza alla cognizione; sia tale conoscibilità funzione di una intelligibilità o di una conformità alla ragione, sia essa tale per la sua traducibilità in termini matematici o per la riducibilità di uno dei due fattori all’altro, il problema offre, in virtù dell’ipotesi, una molteplicità di vie solutive; sia pure la conoscenza un rapporto e si debbano possedere entrambi i termini per fissare il valore della reciproca relazione, sarà sempre possibile ciò, in quanto la ricerca di tale rapporto si riduce alla determinazione delle norme o dei principi atti a liberare dall’un termine quel che dell’altro vi- 59 -è contenuto, per così dire, in un qualunque stato e sotto una qualsiasi forma. Fissare un mezzo di conoscenza è lo scopo della gnoseologia e il problema non è più tale in sé, ma lo è rispetto alla verità che si può raggiungere e si raggiunge in effetti attraverso alla sua soluzione. Qualcosa si sovraordina alla teoria della conoscenza, un’idea, una nozione, una concezione, ancora informi e imprecise, la cui chiarificazione e distensione si affidano al momento logico per stabilirne i mezzi e al momento gnoseologico per effettuarne l’utilizzazione.
Ma nel secondo vien meno ogni presupposto: lo scopo si potrebbe dire ancora immutato, la ricerca della verità; ma non si accoglie nessuna ipotesi di una corrispondenza, sostanziale o logica, di termini, non si accolgono neppure dei termini: il pensiero che là tendeva a dischiudersi e a fuoruscire in un mondo, di cui il senso di estraneità di alcuni stati testimoniava dell’esistenza, qui si racchiude in sé e su di sé indaga. L’oggetto resta uno ed unico. E il quesito del che cosa che si conosce e del mezzo con cui si conosce, perde quanto ha in sé di sovraggiunto, restando unicamente l’interrogativo di che cos’è il conoscere. Si scava allora nel profondo di noi stessi e si pretende di verificare in sé i principi, altra volta presi con immediatezza, e si osserva questo meccanismo che elabora e fabbrica e distribuisce, ma lo si scorge come qualcosa di isolato, penetrando nel quale si è costretti a perdere maggiormente contatto con il senso comune e con le varie speculazioni, via via che ci si impadronisce delle parti che ne costituiscono l’organismo. Di questi organi si vede l’esclusiva dignità in rapporto a loro stessi; se ne riconosce anche il quotidiano adattamento a qualcosa che è loro estraneo, ma appunto per tale estraneità non si giunge a fissarne il valore in un rapporto. Il problema lo si è isolato, lo si è reso indipendente: i termini sussistono ancora, se si vuole, ed è ancora possibile trovare il modo della loro relazione, ma questo non è nulla più di un ritrovamento, di una fissazione, di una descrizione. Nulla è sovraordinato ai mezzi che il pensiero possiede per accordare lo stato a se stesso e lo stato allo stato. La cognizione non ha conclusioni, come non aveva premesse: apertasi su di sé, si richiude in se stessa. Ci ritroviamo così di fronte alla visione che si era - 60 -aperta alla mente di Kant e che questi aveva racchiuso nella schematicità di una distinzione fra il pensiero dogmatico e il pensiero critico, distinzione che, in definitiva, non era se non la contrapposizione di due modi di concepire, di due metodologie.
Trattare di una problematica della conoscenza in Bergson non può, di conseguenza, voler dire altro che rispondere a una domanda: il sistema di Bergson – perché in lui è senz’altro lecito parlare di un’organizzazione di tutto ciò che appare alla coscienza, secondo una sola e identica formula che s’applica con immutato senso ad ogni punto – accoglie veramente in sé il campo della conoscenza? Altri sono i termini in cui si può porre lo stesso interrogativo, se cioè l’impulso promotore della meditazione mosse in lui da quell’originario atteggiamento che induce l’uomo a dubitare del valore del conosciuto, e se, quindi, non gli fu lecito limitare il modo del conoscere alla normatività di un campo logico, ma dovette portarsi, nella scala dell’astrazione, oltre questo per salire a un puro campo gnoseologico; oppure se tutto il suo sistema non fu che un’applicazione geniale, multiforme, universale, di una particolare sistemazione data alla questione del conoscere, il che ci porterebbe a scrivere il nome di Bergson nella classe di coloro che, o immediatamente o mediatamente, diedero vita in sé alla questione del conoscere e, per conseguenza, furono costretti a sopportare l’onere del loro atteggiamento, traendo il materiale del loro sistema, quando sistema ci fosse, dalla progressiva chiarificazione o delimitazione o interpretazione delle condizioni del conoscere. Già il porre la domanda ci fa capire che la risposta non può essere tanto facile, come lo è per quei filosofi che manifestarono nel titolo stesso delle loro opere la loro accettazione del campo del conoscere. Nessuna opera di Bergson sembra specificamente dedicata alla questione, anzi si direbbe che tutte la rifiutino grazie a una sicurezza intima che elude o sdrammatizza il problema. «Saggio sui dati immediati della coscienza», «Materia e memoria», «Evoluzione creatrice»: ma qui c’è descrizione, definizione, sistemazione, non c’è dubbio, non c’è dramma. Eppure si sfogli il primo lavoro, e si troverà in esso la dimostrazione che l’intendimento cataloga i dati in modo da piazzarli nelle sue necessarie strettoie, allontanandoli di un bel - 61 -po’ dalla loro reale consistenza e struttura; il secondo, a sua volta, giustifica la necessità delle strettoie e al tempo stesso la definisce e la determina nelle sue cause, allacciandosi così al terzo, che, mentre proietta sulla scena il dramma dell’esistenza, disegna a fianco delle singole immagini delle paraimmagini il cui muoversi costituisce il dramma del conoscere, come in un film a rilievo, che, guardato senza le lenti bicolorate, presenta ogni figura sdoppiata in un’immagine di un colore ricalcata su un’altra immagine sottostante di colore diverso. D’altra parte, il nome di filosofo che più ricorre nelle pagine è quello di Kant, e la mente di Bergson si è affaticata un bel po’ sulle pagine della Critica della Ragion pura, non certo per accettarle come le ultime e invalicabili sistematrici del campo del conoscere, se è vero che si disinteressò completamente del massimo esponente di quella scuola germanica che aveva voluto creare una metafisica a dispetto della soluzione kantiana del conoscere. E , infine, si porti innanzi una spiegazione, un passo, l’introduzione di un elemento, la visione di un punto dell’universo, sotto i quali non si senta l’ansia del problema del conoscere e nei quali non si finisca per cogliere che il nucleo centrale è in rapporto o di deduzione e di spunto o di metodo con uno dei vari dati scaturiti dal suo modo di descrivere il campo della conoscenza.
Ora, perché si possa afferrare la nota profonda che pervade l’edificio eretto da Bergson, non basta cercare il più appariscente o il più diffuso, racchiuderlo nella chiarezza inconfondibile di un termine e definire il tutto, con un’astrazione figlia del vocabolo privilegiato, come intuizionismo, evoluzionismo, attualismo, spiritualismo vitalistico, ecc. Queste parole rivelano, tutt’al più, una comodità di sistemazione, uno sforzo di registrazione, con cui si è trascelto, lungo lo svolgimento, quel che sembra ripetersi con maggior insistenza: dimostrano che ci si è fermati ai punti di arrivo, senza aver lottato per risalire il corso. Ma lasciano nell’oscurità non solo le posizioni da cui si presero le mosse, ma soprattutto quel travaglio che agita nel profondo la corrente, tanto maestosa e piana alla superficie. Invero, non richiede sforzi eccessivi l’affermazione che il bergsonismo muove da una particolare concezione del mondo dei fatti e degli stati psichici. Ma cerchiamo di cogliere - 62 -perché mai sia stato un quesito di ordine psicologico a trovar trattazione nella prima sua opera sistematica e perché mai i risultati ottenutine siano stati adottati, diciamo così, come fattore fondamentale e come punto di confronto analogico. Ancora non si sono oltrepassati gli ostacoli che si frappongono fra noi e questa scoperta, che a un certo momento si vede Bergson nell’assoluta necessità di ricorrere a un nuovo fattore di cognizione. Chiediamoci, ancora, che cosa lo abbia indotto e quando sia stato spinto a ricorrere a questo terzo intermediario fra il pensiero e l’esistente e a creargli una forma già nota, riempiendola però di un contenuto nuovissimo. E perché mai in nessuna parte dell’opera sua è dato rinvenire una trattazione specifica dei limiti e dei principi che sovrastano alla cognizione,e, contemporaneamente, poche sono le pagine in cui non si tratti più o meno apertamente della questione gnoseologica? Non si potrà rispondere a tutte queste domande, non si potranno risolvere tutti i dubbi che si presentano quando si voglia intendere il significato che tale costruzione possiede e stabilire il posto che occupa nella storia della speculazione, se non ci si avvicinerà al modo suo proprio di considerare le condizioni e le capacità date all’uomo per conoscere. Forse proprio nella tensione continua di rendere proporzionale quel che riguarda la nozione, con le varie soluzioni dei diversi problemi sta il travaglio, senza posa insoddisfatto e rinascente, e sempre pronto a sfogarsi in nuove pagine, che, riempite di vecchie dottrine, tolgono o aggiungono, smussano o acuiscono, precisano o attenuano. Tutte le pagine che seguono, dimostreranno, con maggior efficacia di questi brevi cenni, della sicura presenza di un campo gnoseologico in Bergson. Il che ci riporta ancora alla frase con cui abbiamo iniziato il capitolo: se si vuole valutare un sistema in cui compaia la questione del conoscere, si deve possedere chiara la soluzione che questa ha ricevuto, perché la dignità del tutto trae dalla dignità della questione particolare il suo livello; non solo, ma, in fondo, l’intero apparato di strumenti, di facoltà, di forze, di leggi e di classi poggia su di essa le sue fondamenta.
L’indagine aveva stabilito due atteggiamenti nei confronti della conoscenza: secondo l’uno, questa diveniva qualcosa di indiretto e - 63 -di sussidiario; secondo l’altro, si ergeva ad assoluto e primeggiava in modo tale, che ogni altra conseguenza non poteva trarsi se non subordinandosi alle condizioni raggiunte nei suoi confronti e riguardi. La scuola classica inglese ne aveva fatto un problema indipendente nelle forme, nelle presupposizioni, nello sviluppo, il pensatore di Koenigsberg aveva fatto di questa autonomia una vera metodologia ed era giunto alla fissità di una formula differenziatrice. Non aveva però afferrato i rischi in cui il metodo avrebbe gettato chiunque lo avesse adottato: invero non poteva, in quanto in quei rischi era già incappato egli stesso, dimostrando «in modo caratteristico il singolare stato di solitudine e di dissolvimento in cui riesce il pensatore che con costanza persegua il problema della conoscenza fino a queste profondità».
Fra l’eteronomia del pensiero gnoseologico, nata dalla fede in una sufficienza di adeguazione del reale da parte del pensiero, e l’autonomia di esso, derivata dal timore di dover piegare l’analisi delle forme e dei principi a una definizione, già riconosciuta, almeno implicitamente, come valida, Bergson sceglie una terza via che equilibri e coonesti le esigenze umane di quella alle imposizioni logiche e razionali di questa, attraverso la proporzionalità di quanto là si sovrappone all’esame delle condizioni cognitive, con tutto quello che qui contrasta alla fondazione di una dottrina dell’esistente. In virtù di questo che si esige dalla nuova posizione, il problema del conoscere si impone ancora come problema di relazione, quantunque da un lato non si adatti ad alcuna sottomissione e, dall’altro, si voglia da esso trarre deduzioni di ordine nettamente metafisico. La conquista di Kant, di un imprescindibile autonomismo, doveva venir scissa dal dissolvimento cui quasi fatalmente conduceva. Ripetiamo ancora una volta che si tratta di esigenza: se poi ad essa sia stata data soddisfazione, nel senso che la proporzionalità non si sia ridotta a pura giustapposizione, previo uno sdoppiamento di facoltà, ciò è quanto dovrà risultare dalla nostra ricerca.
Pongono l’esigenza una molteplicità di aspirazioni spirituali ed intellettuali: prima di ogni altra, l’incapacità di rinunziare a un presupposto, di carattere forse fideistico, ma che sentiamo in lui vivissimo, il presupposto che la coscienza possieda un potere gnoseologico - 64 -atto ad introdurci e a farci vivere nell’intima costituzione dell’essere; in secondo luogo, la norma filosofica di chiarire l’essenza di questa e delle altre facoltà idonee a darci la conoscenza; poi, l’importanza e la dignità assunte dalla speculazione scientifica sulla costituzione, le leggi, lo svolgersi di tutti i fatti della natura nei suoi aspetti fisico, fisiologico e psichico, e le conseguenze che tale sviluppo ormai secolare aveva tratto seco, precisamente il problema del rapporto fra lo spirituale e il corporeo, per la cui soluzione alle brillanti ipotesi dei sistemi del secolo XVII si erano aggiunte quelle contemporanee o immediatamente antecedenti, e l’altro della concezione meccanicistica, il cui rigore matematico e la cui sicurezza di previsione, accertata nei risultati, sembravano non consentire che l’accettazione assoluta o la recisa negazione; infine, quelli che possiamo chiamare i bisogni fondamentali di ogni intelletto, sotto il cui influsso sempre ci si accinse alla ricerca e che costituiscono i capisaldi di una dottrina che si ponga come spiritualistica. Elementi diversi e contrastanti, dunque, particolarmente l’uno, fatto di un impulso immediato per cui ci sentiamo atti a possedere e intendere l’esistente, contro quello che rigetta il reale al di là di una elaborazione soggettiva a cui esso non può sottrarsi, e l’altro, per cui ci si vorrebbe portare oltre una costruzione meccanica dell’universo, onde salvaguardare il fervore spirituale, che il meccanicismo deve di necessità stroncare, senza togliere alla dottrina del movimento la validità che le conquiste gli avevano riconosciuta. Nel tentativo di sintetizzare in un’armonica visione il sentimento ideale con l’indirizzo scientifico, la sua indole, proclive a valutare le induzioni e i dati della scienza positiva e ad applicarne il metodo sperimentale, incapace di trascurare quel che di accettabile possono presentare le opinioni del senso comune, lo preservò dal soffocare da un lato in un arido e inintelligibile materialismo, dall’altro in un illimitato idealismo che nega ciò che non può contenere e rifiuta ciò che può ostacolarlo. Quindi, i risultati che si sarebbero raggiunti, una volta poste tali premesse, non dovevano, se non altro superficialmente, allontanarsi troppo da quella concezione che è normale al pensiero e che di solito vien chiamata volgare, nel - 65 -quale aggettivo per lo più si confondono e si sovrappongono i contenuti di diffusione e di ignoranza.
Vi è in Bergson un desiderio inesausto di cogliere il reale, vi è quello che si può chiamare la sete metafisica, quella che ha spinto l’uomo a separare i due momenti dell’azione e del pensiero e a sistemare tutta la tensione interiore nel secondo per darsi una rappresentazione che adeguasse sempre più il quadro in cui la prima si svolge e si attua. Ma tale sete dovette subito fare i conti con altre due istanze che sembravano soffocarla. Chi è vissuto nel secolo di Kant, chi non si è limitato a leggere Kant, ma ha fatto suo il problema del Tedesco, risalendo alle sorgenti e disinteressandosi delle varie possibili correnti che ne son state derivate, non solo entra sotto l’influenza delle forze del campo gnoseologico, ma le avverte come barriere destinate ad arginare ed escludere qualunque brama di sapere che tenda ad espandersi al di là del soggetto. Ed ancora, chi tanto fortemente ha sentito l’influsso di qualsiasi dottrina che concepisca l’esistente in una continua mobilità, chi con tanta arditezza si è accostato alle dottrine evoluzionistiche per sgombrarle dall’ombra meccanicistica, non poteva lasciar fluire la propria corrente metafisica in un lago in cui si placasse, ma doveva costruirle un canale dalle sponde ben delineate e geometricamente formate in cui senza posa scorresse: fuor di metafora, non poteva soddisfare la propria ansia di certezza nella visione di un quadro inalterato e immutabile per l’eternità, la doveva sfogare in un metodo che lasciasse cogliere una realtà in perenne divenire. Metafisica, gnoseologia, mobilità inesausta e novità imprevedibile, sono le tre molle nella coscienza di Bergson. Sotto l’urto della prima ci si pone di fronte a due problemi. Hanno esistenza separata ed autonoma due mondi, l’uno quello dei fatti fisici, l’altro quello dei fatti psichici? Quale ne è l’intima costituzione ed essenza? La seconda, invece, impone al pensiero di considerare se stesso, in primo luogo riguardo a ciò che costituisce il suo contenuto e il suo materiale di alimentazione, in secondo luogo rispetto alla maniera con cui si accetta e si manipola questo materiale. Bergson è, però, dal bel principio consapevole che, una volta penetrati in questo campo con un atteggiamento di freddo disinteresse a tutto ciò che gli è - 66 -estraneo, diventa impossibile conciliare i due interessi: e perciò egli non parte dalla posizione metafisica né da questa si sposta sul piano gnoseologico al fine di trarne mezzi per sedare dubbi e portare argomenti al servizio della sua sete. Di contro, non rinuncia a costruire una metafisica per rinchiudersi in una gnoseologia: sembra, quindi, che sia destinato a cadere in una scissione interiore, in uno sdoppiamento inconciliabile di attenzioni divergenti, da un lato un tenace sforzo a cogliere il reale e soddisfare l’antico appetito della ragione, dall’altro l’imperativo di non lasciar penetrare nell’indagine dei modi del conoscere nessun elemento che abbia che fare con ipotesi o immaginazioni o presupposti che toccano meno le ineluttabili conclusioni di un processo storico che gli inalterabili stati sentimentali della specie. E, in fondo, nello sdoppiamento non tanto c’è caduto, quanto vi si è sempre trovato: allo stesso modo che vi si son trovati tutti coloro che crearono in sé le condizioni iniziali adatte al formarsi di un campo del conoscere. Ciò che lo distingue è la consapevolezza sia della duplicità dei suoi impulsi, sia dell’esigenza di salvaguardare autonomia e dignità ad entrambi. Di qui la ricerca di una nuova metodica, consistente in un nuovo punto di vista da cui guardare gli strumenti del conoscere. Se la dualità e la discordia interiore gettavano le loro radici in un preistorico sdoppiamento interiore fra l’esigenza dell’esistere e la pretesa del conoscere, fra l’attualità della manifestazione quotidiana dell’individuo e l’astrazione di una rappresentazione statica di tale manifestazione, valeva forse la pena di tentare di riportare all’unità ciò che era stato separato, valeva la pena di vedere quanto di ciò che condiziona l’esistere abbia pervaso la modalità del pensare e dell’astrarre: allora, forse, ci si poteva trovare su una nuova strada, e il campo del conoscere poteva conservare tutta la sua autonomia, senza togliere, per ciò, nessun diritto di sussistenza a quello metafisico. In definitiva, alla dottrina della conoscenza non si demanda di ricercare gli strumenti, logici in particolare, psichici in generale, per la dimostrazione di quelli che altrimenti diverrebbero postulati. Essa avrebbe il suo svolgimento indipendente, stabilirebbe una propria normatività, ricercherebbe condizioni a se stessa inerenti, si fermerebbe ai limiti impostile: ma proprio tramite l’esame di - 67 -queste condizioni e di questi limiti, ponendosi il nuovo quesito del motivo per cui all’intelletto nell’atto del conoscere si impone una limitazione e un condizionamento, si potrebbe vedere se non venisse consentita la rimozione, o addirittura l’eliminazione di tale motivo, e se questa eliminazione non aprisse un qualche spiraglio per una facoltà di conoscere, che in certo modo non si differenziasse dalla prima se non per essersi liberata da un gravame, ma che introducesse fra i due momenti gnoseologici, quello della dipendenza e quello dell’assolutezza, una recisa distinzione per la quale si cogliesse il reale. Son queste le intenzioni di Bergson, a questa coerente metodica egli vuole attenersi, salvo tuttavia distaccarsene in un secondo tempo, quando la comparsa di quella nota di inadeguatezza per cui il noto non è in grado di esaurire il reale, fa intendere che, se il nuovo punto di vista può fornire elementi di risposta alla prima domanda, lascia inalterate le cose nei confronti della seconda. Il cerchio critico, in cui si è chiusi fin dal principio, si è aperto per abbracciare qualcosa, l’esistenza dell’oggettivo, che nella posizione kantiana era rimasta allo stato di premessa presupposta e indimostrata, ma è rimasto serrato ne suo ripiegamento su se stesso. Il che, in fondo, non deve stupire, perché era strano che si pretendesse di restaurare un’unità originaria, biologica, attraverso la sua stessa rottura. E non deve stupire neppure il fatto che a un certo momento vediamo inserirsi nel campo che sempre si era cercato di lasciare il più intatto e il più autosufficiente possibile, un nuovo strumento, sulla cui validità fan fede più le esigenze che il campo metafisico fa sentire, che le condizioni a cui fin all’istante dell’inserimento si è voluta assoggettare l’indagine ristretta al campo gnoseologico. Il punto di vista critico risolveva la questione gnoseologica stabilendo tutt’attorno ad essa una barriera entro la quale venivano chiarite le possibilità della relazione fra l’oggetto che è conosciuto e la coscienza che lo conosce. Si trovava, con ciò, in una posizione speculativamente privilegiata, per la ragione precisa che aveva la consapevolezza di lavorare su di un terreno immediatamente sottoposto allo strumento di lavoro, in quanto l’uno e l’altro coincidevano; ma, penetrandovi in profondo, ci si accorgeva delle caratteristiche strane che lo individuavano: - 68 -l’esattezza del postulato, la deficienza di spazio, per cui prima o poi non si sarebbe più trovato alcun angolo inesplorato, la sua povertà di contenuto umano per cui, a lungo andare, il pensiero avrebbe dovuto cercarsi altrove il mezzo per accontentar se stesso nelle sue esigenze e nei suoi bisogni.
Accettare della posizione critica il postulato, ma riuscire a superarne il giogo, questo è il grado che la disciplina del conoscere assume in Bergson. La relazione fra chi conosce e ciò che è conosciuto è soggetta a leggi: l’indagine allora sarà rivolta alla legge sia per definirla sia, soprattutto, per raggiungerne le fonti. Stabilire l’origine, cioè la ragione della norma o del principio gnoseologico, comporta una conoscenza assoluta, se non della coscienza nella sua essenza, almeno della coscienza in uno dei suoi atteggiamenti, quello fondamentale, quello dal quale è mossa a penetrare e a venir a contatto col reale; comporta, ancora, una capacità di superamento del limite, conducendosi in tal modo al di là del limite stesso, nell’assoluto, non più nel relativo, fondendosi insomma con la metafisica. Non si tratta né di abbattere tutto un vecchio sistema di indagine né di accettarne uno assolutamente nuovo: più che con una filosofia, si avrà che fare con una nuova metodica. Che se in tale designazione non tanto scorgiamo la rigida determinazione di una direzione da imprimersi al pensiero onde questo possa avviarsi sicuramente al suo scopo, che è la contemplazione del vero, ma piuttosto ci limitiamo a farla consistere nel rilievo dato ad alcune definizioni, assunte non già come presupposizioni, ma come punti di termine di uno svolgimento di precedente indagine, il metodo sarà qualcosa di più di una nuova definizione di processo mentale e qualcosa di meno di un nuovo modo di concepire; sarà una svolta che ci conduce di fronte a più vasti orizzonti di cui un aspetto è colto dal pensiero di Bergson, innalzato a sistema. Considerando in tal modo questa come una innovazione di visuale, veniva giustificato un appello, altrimenti incomprensibile: «La filosofia – ci dice Bergson - può essere soltanto uno sforzo per fondersi nuovamente nel tutto… Ma l’impresa non potrà compiersi d’un tratto; di necessità sarà collettiva e progressiva. Essa consisterà in uno scambio di impressioni, le quali, correggendosi a - 69 -vicenda, e integrandosi l’una con l’altra, finiranno per dilatare in noi l’umanità e per ottenere che essa superi se stessa». L’invito a una cooperazione gnoseologica d’un tal genere, cooperazione che per il fondamento che le si vuol dare potrebbe anche chiamarsi collettivismo, può comprendersi solo se ci si esime dall’interpretarlo come proposta di adesione ad una scuola o di proseguimento di nozioni già svolte. Contrasterebbe, in verità con lo svolgimento del pensiero di Bergson, che si presenta con la compiutezza che un sistema ritrae dall’unitario affissarsi di una sola mente. La citazione, al contrario, chiudentesi nel concetto di superamento da parte di una facoltà di se stessa, si rivolge al pensiero affinché con atto di accettazione riconosca validità a quei motivi, che non sono soltanto alla base di un determinato sistema, ma dai quali si può prendere pure il movimento per altre mete:
essi, in ogni caso, riserbano in sé il privilegio di un nuovo indirizzo.
Riducete il complesso dei principi alla maggior semplicità, cercate quanto di veramente vivo e fecondo ha dato il filosofo in eredità al successivo svolgersi, e li vedrete ridursi a pochissimi; a due essenziali:
a) la coscienza – togliendo dal concetto di coscienza quanto di spaziale o di sostanziale può esservi racchiuso, e riducendola a solo termine espressivo del complesso dei fatti psichici – è essenzialmente propensa all’estroversione: questo le deriva da una tendenza esistenziale fortissima, che si dissimula sotto le capacità speculative e che a un tempo pervade tali facoltà, adattandole e conformandole come mezzi a un fine;
b) la realtà, in tutti i suoi aspetti, è costituita ed organizzata in modo tale da consentire relazioni reciproche da parte dei suoi componenti – meno parti costitutive che correnti intrinseche e inscindibili – e da recidere parimenti ogni tentativo da parte della coscienza, diretto ad inquadrarla nelle categorie della speculazione.
Mai li troveremo in una figurazione così retta e rigida: chi ama il lento digradare dei toni, chi preferisce alla catalogazione la composizione – e Bergson è uno di questi – non si affanna troppo a precisare e a distinguere, a chiarire e a fissare; ritiene sufficiente - 70 -indicare e smuovere. Nell’esatto senso, tuttavia, che ritraggono dalla nostra formulazione, li ritroviamo in tutta l’opera e, con particolare possibilità di cernita, là dove egli contrappone il suo metodo a quelli cui ha creduto si potessero ridurre i multiformi sistemi.
Se si assume il problema gnoseologico ad indice di un indirizzo e se la soluzione datane costituisce quanto di più caratteristico possa esso offrire di sé, i grandi metodi applicati sono l’empirismo – per il quale la coscienza si regola sulle cose; il razionalismo – per cui si suppone una concordanza fra le cose e la coscienza; il kantismo – per cui le cose sono regolate dalla coscienza. L’empirismo, analizzando i modi della conoscenza, si convince che le nozioni fondamentali su cui si regge il ragionamento, traggono origine dall’esperienza, nel senso più generico del termine. Intendendo per esperienza l’aspetto specifico che assume l’esistente entrando a far parte della coscienza, sia che si voglia accogliere una corrispondenza fra il reale e il suo aspetto fenomenico, sia che tale congruenza si voglia limitarla ad alcune nozioni od eliminarla affatto, resta per l’empirista accertato che attorno ai concetti di cui ci si poteva in maggior misura fidare, come quelli che traevano origine dal complesso empirico, la coscienza è in grado di lavorare soltanto alla condizione di rimanere aderente all’esperienza, e che, per questo, il dato empirico costituisce la fonte e il limite di ogni cognizione. Ma non per tutte le nozioni è la stessa cosa: non lo è, per esempio, per la nozione di spazio, della cui natura metempirica, sia pure meramente logica, fa fede la possibilità di una geometria, come scienza – per dirla con Kant – di giudizi sintetici apriori. Qualcosa, quindi, sussisteva di indipendente dall’esperienza e a cui anzi il mondo fenomenico sembrava conformarsi più che quello non fosse costretto a riportarglisi di continuo. Quanto all’utilità offerta al pensiero della scuola empiristica, restava la dimostrazione dell’insufficienza speculativa del dommatismo razionalistico, ipotesi comoda quant’altra mai, in quanto dalla possibile inserzione della realtà incognita nella facoltà di percepire e dalla presupposta conformità dei risultati ottenuti da una elaborazione logica coi fatti verificati nell’esperienza dal senso, deduceva un accordo prestabilito fra la - 71 -coscienza e il reale. Per Kant, invece, l’intendimento è atto a conoscere, solo però nell’esatta misura in cui può applicarsi ad una esperienza già elaborata e commisurata alle necessità e possibilità di intendimento della coscienza. Si considerino le conseguenze estreme a cui giungono: l’uno o ha messo capo allo scetticismo, «non soddisfacendo lo spirito su nessuno dei grandi problemi», oppure «anche quando giunge alla piena coscienza del suo principio - (nel positivismo) – si astiene dal porli»; l’altro «giunge a una sintesi… la quale di necessità avrà sempre una forma arbitraria. In altri termini, se la metafisica non è che una costruzione, vi sono parecchie metafisiche egualmente verisimili, che si confutano conseguentemente a vicenda». Per il kantismo, infine, ogni conoscenza è immersa in una assoluta relatività, e la coscienza è affatto inadeguata rispetto alla realtà dell’esistente.
Esaminiamo i tre metodi fondamentali, cui Bergson ha voluto ricondurre le varie espressioni datesi nel volgere del pensiero: tutti muovono da presupposti differenti e nondimeno sono riducibili a un medesimo risultato negativo o, se non altro, non atto a soddisfare il bisogno di assoluto che sta alle sorgenti dell’interpretazione e della costruzione del sistema, traducendosi questo in un assieme di risposte capaci di esaurire altrettante ansiose domande. L’empirismo o giunge a stabilire una incapacità per la mente di rispondere alle domande che essa stessa si pone o, nel suo sviluppo più notevole e conseguente, trascura quelle domande, relegandole in una regione in cui non val la pena di addentrarsi. La realtà è quella effettuale, empirica: il resto è metafisica, qualcosa che sarebbe molto apprezzabile poter distruggere, ma che tuttavia è impossibile sopprimere. Il razionalismo, invece, sembra far gran conto di questa metafisica: ma i diversi atteggiamenti si riducono a dartene una a piacere, sì che a un certo momento ce ne troviamo dinanzi un numero vario, l’una contrapposta all’altra, tutte equipollenti; allora, per affidarsi ad una di esse, è necessario aderire alla presupposizione centrale, facendo così ricorso ad un elemento fideistico, che un razionalista, quale Spinoza ad esempio, avrebbe di certo provato gran difficoltà ad introdurre in quel concatenamento rigidamente geometrico di cui soltanto la ratio avrebbe dovuto riconoscere - 72 -la legittimità. Il kantismo, infine, ti giustifica mirabilmente la conoscenza che tu hai: risolve in un gioco perfetto di azioni reciproche il materiale della conoscenza, i rapporti di ordinamento e di elaborazione, su cui il pensiero si era tanto affaticato: ha raggiunto l’unità. Ma, proprio quando credi di poterti fermare ormai soddisfatto, ti accorgi che quell’unità è fittizia, superficiale, e che la conoscenza dell’esistente è relativa, valida per te che conosci, non per l’oggetto che tu conosci: i rapporti, l’ordine, l’unità, sono tuoi, non delle cose, o almeno non puoi affermare che siano delle cose. Ma il travaglio dello spirito sta proprio in questo, di voler conoscere, di voler concepire l’unità delle cose: si vuol vedere come l’universo ordini e unifichi sé in se stesso, non come noi ordiniamo l’universo. Malcontenti e delusi ci ritireremo, non appena avremo compreso che, dopo tutto, quello sforzo non era filosofia, ma soltanto una psicologia, atteggiata a speculazione dell’universale: il soggetto è raggiunto, ma questo risultato ne preclude qualsiasi altro e l’universale resterà irraggiungibile.
Ora, se quell’universale l’uno lo nega o ne dichiara assurdo il raggiungimento, l’altro lo afferma, ma abdicando alle prerogative sovrane di quel fattore d’indagine cui finora ci si era attenuti, e il terzo, infine lo ammette, ma come un’immagine velata riposta nell’intima cella d’un tempio in cui non v’è iniziato che possa penetrare, il termine delle tre metodiche è insoddisfacente e negativo. In virtù dell’unità e della medesimezza dei risultati, Bergson si chiede se tale inadeguatezza non derivi tanto da un errore che si sia inserito nel corso del ragionamento - il che difficilmente si potrebbe sostenere e provare data la conseguenza logica con cui, poste una volta le premesse, vennero i singoli deducendo o inducendo le proposizioni e le definizioni, quanto da un vizio di valutazione che abbia inficiato le stesse premesse di ciascuno. L’invalidità, comune ai vari sistemi, attesterebbe di una comunanza di errore iniziale. Il primo passo, quindi, di Bergson per porre le basi di un proprio criterio, è di scoprire nei tre metodi – e di conseguenza nell’intimo della coscienza – l’idolo che ha fuorviato e falsato le loro viste.
Il modo con cui si presentano alla coscienza tutti i dati, sia - 73 -quelli caratterizzati dal segno dell’oggettivo, sia quelli contraddistinti dalla nota della soggettività, le forme della materia che l’uno e gli altri si accingono a riordinare, sono da essi assunti immediatamente, senza esitazione o principio di dubbio. Potranno esser giudicati o venir criticati singoli elementi, singoli fattori, potrà negarsi certezza al complesso intero delle sensazioni, per esempio, o potranno queste venir suddivise in due gruppi, di cui si accetta l’uno e si ripudia l’altro, ma nessuno s’era ancora domandato se la maniera con cui tale complesso viene a presentarsi alla coscienza, sia immediata o, piuttosto, non sia già stata soggetta ad alterazioni o modificazioni, che, pur conformandovisi, con la coscienza discorsiva, coi suoi metodi e i suoi fini di pura indagine, quali almeno le attribuivano, non hanno nulla che fare. Si può affermare che lo scopo sommo che una dottrina della conoscenza in particolare e la filosofia in generale si propongono sia stato sempre uno ed uno solo: ricondurre ad unità il molteplice differenziato e distinto in cui sembra che la nostra conoscenza sia immersa, tanto per ciò che le perviene animato da un timbro di esteriorità, quanto per ciò che ritrova nel suo stesso intimo profondo. L’esperienza ci offre una moltitudine di singoli fatti separati, individualizzati, muniti ciascuno della più insofferente personalità. E sempre fu in noi lo sforzo di raccogliere via via questi fatti, di raccostarli l’uno all’altro, di riunirli in una sintesi che, espandendosi sempre più in larghezza e scendendo sempre più in profondità, potesse giungere ad abbracciare l’indefinito complesso dei distinti. All’unicità di una formula risolutiva del reale tende tutto il nostro pensiero. Ma alcuno mai dubitò di quel molteplice. Se ne accusarono, per quanto riguarda il mondo esterno, i sensi, e ci si ostinò a non vedere fra la molteplicità dei fatti percettivi e la pluralità dei dati psichici alcun punto di contatto, all’infuori di una semplice somiglianza. È il fattore sensibilità a far sì che non solo il dato divenga in noi molteplice, ma non si adegui neppure alla realtà delle cose. Questa verità, una volta raggiunta, non venne più posta in dubbio: tuttavia si continuò a elaborare quel molteplice, a unificarlo mediante forme le più varie e le più nuove. Ma quando si pretenda – afferma Bergson – di muovere da quello che non è più il reale, ma soltanto una sua traduzione - 74 -adattata e modificata, per raggiungere attraverso di essa una concezione dell’universo, non ci si sottrae al rischio di allontanarsene sempre più, in quanto le unità che si costruiscono saranno sovrastrutture, abilmente erette da una logica acuta, ma inette all’accordo con l’unità esistente. Mossi da una errata disposizione, anche se non determinata dalla nostra volontà, si finirà in una conclusione anch’essa errata. Il mondo della coscienza discriminativa è frazionato in «elementi giustapposti che rispondono ora a delle ‘parole distinte’ ora a degli ‘oggetti indipendenti». L’intera esistenza ci appare composta da un numero ognora crescente di cose che si affiancano l’una all’altra, che sussistono indipendenti l’una dall’altra, fra le quali sentiamo, nell’istante stesso in cui vengono percepite, stabilirsi dei contatti reciproci. Su questa giustapposizione, tuttavia, potremo anche elevare dubbi, ma non riusciremo mai a superarla, muovendo da essa. Il pensiero dubita di quella molteplicità ed aspira all’unità: il cammino, però, che segue ha a proprio punto di partenza quella stessa molteplicità frazionata.
L’empirismo proclama come unico mezzo per cogliere la realtà l’esperienza: sembra che esso non voglia aggiungere o sovrapporre alla materia della nostra esperienza un complesso di forme che, non detratte da essa, su di lei calino per racchiuderla ad unità. Sente tuttavia la necessità di immergersi in quella materia, onde ricavarne quel che cela al nostro sguardo. È assurdo, ritiene l’empirista, poter scoprire dei rapporti fra dei termini, senza preoccuparsi della natura di questi, senza rivolgere anzitutto la nostra indagine sui termini stessi per vedere se non offrano direttamente essi i rapporti che si pretende trovare al di fuori e al di sopra. Ma l’esperienza da cui muove è la comune, la quotidiana, quella che vive della giustapposizione degli elementi, della loro suddivisibilità infinita, quella per cui di ogni elemento si fa un individuo ben caratterizzato e distinto, capace di presentarsi in una immutabile identità ogniqualvolta la situazione ci induca a pensarlo o a scorgerlo di fronte a noi. La sua metodica è certo più rispondente al pensiero umano di quella del dommatismo: si accetta e si comprende da parte di Bergson la premessa di condurre - 75 -ogni ragionamento e ogni indagine dall’esperienza e sull’esperienza soltanto: ma l’empirismo non accoglie altra esperienza che quella «disarticolata e di conseguenza senza dubbio snaturata» che si impone alla coscienza. Il frazionamento dell’unità è soggettivo, si adegua a quell’essere che la coscienza conosce sì, ma conosce per esistere: una volta ammesso ciò, potrà rappresentare un dato positivo per chi deve vivere, ma negativo per chi vuol sapere. Il razionalismo pure non procede in modo diverso; gli elementi alla sua portata sono i medesimi: un universo molteplice e suddiviso, fornito dai sensi; un impulso alla sintesi; in più, l’ipotesi di un accordo fra le facoltà logiche e il reale, concedendo quelle la formula unitaria da applicare alla molteplicità sensibile di questo. Una volta raggiuntala, l’adatterà ancora a quei termini che l’empirista già aveva assunti come fondamentali. Il mondo che si vuol racchiudere razionalmente in una definizione sintetica, costruita a priori, è lo stesso di quello da cui si attendeva la sintesi a posteriori. Il materiale che si organizzerà nel quadro non è meno fenomenico di quello di cui si serviva l’empirismo. Ma la speculazione di Kant non è fondamentalmente diversa. È ancora una pluralità sensibile che viene organizzata da principi unitari che il pensiero possiede da sé. Si dirà forse che questa pluralità si sintetizza quando già è penetrata nello spazio, in una forma cioè che dona di per sé la giustapposizione al continuo che abbraccia? Si osservi da vicino che cosa sono le forme dell’intuizione trascendentale e come esse operano: all’una o all’altra, alla spazialità ad esempio, giunge il materiale della conoscenza, non già per frazionarsi in una molteplicità distinta, ma per ordinarsi in un mezzo che serva da schermo indifferenziato e indefinito per qualsivoglia elemento offerto dai sensi. I principi intuitivi hanno che fare con una giustapposizione, con una «diversità sensibile», ancor prima che questa si sia coordinata e sia stata assunta alla percettibilità, così come le forme intellettive troveranno una frazionalità atta a coordinarsi in esse, perché già sistemata nello spazio e nel tempo.
Ora, a Bergson, convinto di aver rilevato il vizio d’origine di cui erano inconsciamente partecipi tutti i sistemi, sembra aprirsi una nuova via, il cui senso sarebbe nettamente contrario a quello - 76 -finora seguito. È necessario ancora partire dall’esperienza, ma non per farne il primo gradino di una scala ascendente, ma l’ultimo di una discendente, che forse potrebbe condurre nel cuore stesso della realtà. Infatti se si puntasse direttamente sul contrasto fra la molteplicità sensoriale, percepita, e rifrangentesi negli schemi intellettivi, e il sentimento della sintesi che sembra uscire da oscure profondità della coscienza, se poi si prendessero in considerazione l’uno e l’altro elemento del binomio, onde studiarne la irriducibilità o meno, non sarebbe dato alla coscienza – dal momento che l’indagine può proseguirsi entro i limiti stessi che il criticismo le ha imposti – di scorgere in essi meno degli irriducibili che degli effetti ? E quando si fossero qualificati come effetti, non avremmo con ciò stesso, per il solo dichiararli effetti, riconosciuta la presenza di una causa, sottesa ad entrambi, di cui non resterebbe se non studiarne la natura?
Nella critica che Bergson muove in parecchi punti alle tre classi a cui si possono ridurre i diversi modi di sistemare la teoria della conoscenza, troviamo il principio e l’origine, il criterio e il nucleo di tutta la sua filosofia. Tale fondamento può trovare esistenza solo in un’indagine i cui interessi si siano ampliati fino ad abbracciare il campo del conoscere e lo abbiano coinvolto non già sotto una forma bell’e costruita e determinata, ma come qualcosa di irrisoluto e di indeterminato: per questo, è possibile affermare che la filosofia di Bergson è anzitutto una filosofia della conoscenza, e che nessuno che chiuda gli occhi sulla problematica gnoseologica che la pervade, è in grado di capirne le diverse strutture che, or qui or là, sorgono in terreni che nulla sembrano aver che fare con quello del conoscere. D’altra parte, lo stesso fondamento è stato conseguito in una ricerca che non riguarda affatto un’impostazione generale e univoca di tutto l’esistente, ma che si appunta su un aspetto solo del reale, sul contenuto della coscienza considerato nella sua natura, e non nel suo valore e nei suoi rapporti: e, per questo, è ancora possibile affermare che il campo della conoscenza non sorge nel pensiero di Bergson come fatto immediato e primario, ma come conclusione necessaria di un processo i cui primi passi si son compiuti lungo i sentieri della psicologia.- 77 -Non è Bergson il filosofo che abbia fatto suo il problema del conoscere o perché il destino lo aveva piazzato nel bel mezzo di un ambiente i cui interessi erano esclusivamente subordinati alla soluzione della conoscenza e al ritrovamento di un punto stabile che ne permettesse di oltrepassare il problema: e neppure si è avviato a tale problematica per la stanchezza di una corrente che credesse di potersi avviare verso l’apice della metafisica grazie alla scoperta di una proposizione risolutiva di qualunque dubbio gnoseologico presente e passato. Il campo del conoscere ha in lui una formazione autonoma, perché non è che la prosecuzione di ciò che è stato da lui ritrovato nel campo psicologico, il passaggio necessario dal dualismo che l’esame empirico della coscienza ha in questa posto in luce, all’astrazione di tale dualismo, astrazione consistente nella ricerca delle cause di tale polarità, astrazione che, appunto perché nata dal passaggio dai risultati di una psicologia ai problemi di una loro genesi e di una loro giustificazione, si trasforma in un campo della conoscenza. Se la descrizione degli stati di coscienza si dimostra poter avvenire solo sotto il segno del distinto, del discontinuo e del molteplice, è chiaro che qualunque ripiegamento di una coscienza su se stessa allo scopo di prender contatto con sé, può verificarsi soltanto con una sottomissione ai caratteri della discrezione, della discontinuità e della molteplicità. Ma se, d’altro canto, tale presa di contatto non è la sola che ci sia data, in quanto ve n’è un’altra, quella esistenziale, quella in cui l’individuo si pone quando conosce i propri stati per viverli, non per descriverli, e se questa ultima ci fa sentire il nostro intimo come qualcosa che nulla ha che fare con un mondo psicologico della molteplicità, è chiaro che, anche se non si vuole dare la definizione di quest’ultimo modo, resta pur sempre aperta la domanda della validità del primo strumento di acquisizione e dei suoi risultati. L’intellezione degli stati psicologici non adegua quindi la condizione loro di quando son vissuti; non solo, ma toglie, a tale condizione, dei fondamentali modi naturali; per dir così, la snatura: e lo snaturamento consiste nel sostituire all’ininterrotto il discreto, al continuo il discontinuo: condizione principale della conoscenza riflessa è quella di coglier se stessa al di là dell’unità che ininterrotto e continuo le donano e di proiettarla - 78 -in quello stato di molteplicità che sussiste dovunque vi sia una discrezione e una discontinuità. E poiché in un mondo in cui regni solo un nastro dotato di un perpetuo divenire nessuno potrebbe parlare di quantità, in quanto non si dà quantità se non là dove sia possibile introdurre un’artificiale unità attraverso la considerazione di ciò che vi è di identico in dati, atti ad esser colti come diversi, come quelli che, se non altro per il minimo delle possibilità offerte, sono situati o situabili in un rapporto spaziale differente, molteplicità e quantità divengono sinonimi e condizioni permanenti dell’intellezione. La quale intellezione, astratta dalle sue espressioni e considerata in sé, viene a costituire oggetto di problematica. In tal modo dal campo psicologico si è costretti a passare a quello gnoseologico. Ma conviene guadare le caratteristiche di tale passaggio. C’è chi al campo gnoseologico è arrivato con la disperazione di uno che vuole poggiare i piedi dell’anima sua su un terreno saldo che non vacilli, mentre tutto il suo essere urla disperato il dubbio – dubbio che nella impostazione dottrinaria e razionale può anche assumere le spoglie di strumento metodico, ma che nella sua originaria e semplice realtà è impulso sentimentale e profondo che tutto abbatte e sconvolge. C’è chi al campo gnoseologico ci arriva armato del più deciso proposito di aiutare l’umanità a risolvere una volta per sempre i suoi interrogativi sulla conoscenza, con l’intenzione misericordiosa di descrivere all’uomo le sue facoltà come strumenti che o non servono a nulla o servono a tutto. Bergson, invece, giunge al suo problema gnoseologico con un bagaglio che conserva sì parecchie parti sentimentali e intenzionali, uguali o simili a quelle dei suoi predecessori, ma che ha già, inoltre, alcuni scompartimenti pieni di risultati positivi che ben pochi contatti hanno con la sfera dei desideri e delle passioni. Infatti quel mondo che egli si accinge a studiare, ad analizzare e a descrivere, è, in certo modo, una regione di cui son già stati scoperti, descritti, giudicati alcuni caratteri morfologici: infatti, il campo della conoscenza è caratterizzato da due aspetti, quello della molteplicità e quello della quantità, vale a dire dell’unità raggiunta tramite la molteplicità; il che non costituirebbe nulla di nuovo, se a suo lato non si ponesse un giudizio di valori, quello dell’inadeguatezza - 79 -al reale dei modi di conoscere molteplice e quantitativo cui sensorialità ed intelletto son soggetti. Dobbiamo, quindi, riconoscere che gli attacchi mossi da Bergson ai filosofi della conoscenza in generale, e in particolare ad empiristi razionalisti kantisti, dipendono dal diverso punto di partenza e dalla diversa ricchezza di materiale con cui egli e gli altri intraprendono il cammino: gli uni debbono sistemare la molteplicità attraverso la quantità, egli invece deve oltrepassare la soglia del molteplice e del quantitativo, per trovare quale impulso o ragione o condizione si trovi alla radice di entrambi. E, di conseguenza, diverso è l’atteggiamento di fronte al campo, atteggiamento che negli uni è di valutazione attraverso la sistemazione, in lui è di ricerca della genesi delle condizioni, in quanto la sistemazione ha già avuto luogo, una volta che ci si sia accorti che il problema non consiste tanto nel ricercare i rapporti fra piano di intelletto e piano di senso, quanto nello scoprire in entrambi i medesimi caratteri, e già ha avuto luogo la valutazione, una volta che sia stata definitivamente fissata, in un particolare angolo del reale, l’inadeguatezza fra il dato e la sua assunzione negli schemi del molteplice e del quantitativo. Si amplia, piuttosto, il campo del conoscere, perché resta pur sempre aperta, anche dopo la dichiarazione di relatività, la domanda del come e del perché all’uomo sia dato cogliere se stesso in un modo che non è quello caratteristico della comunicazione e della descrizione, vale a dire quello della conoscenza cosciente, sensitiva e intellettiva, ma che coglie il reale in sé. In tal modo Bergson, nel momento stesso in cui crede di aver ruotato o capovolto la direzione di marcia dell’indagine gnoseologica, viene, sotto quest’ultimo punto di vista, ad averla semplicemente spostata.
Ad ogni modo, tutta la questione gnoseologica, limitata ai consueti confini del campo, si impernia in principal modo su due quesiti, l’uno dei quali, per sua natura critico, quindi riferibile al primo dei momenti metodologici, l’altro eminentemente speculativo, da riportarsi perciò al secondo momento. Fra i due intercorre, forse, un rapporto di interdipendenza, tale che la risoluzione di quello critico, non essendo in fondo altro che un superamento del relativismo intrinseco alla cognizione empirica ed intellettiva, recherebbe - 80 -un sussidio di prove positive all’eventuale soluzione dello speculativo, mentre questo, a sua volta, cogliendo l’unità, come quella che è causa di un effetto che è un’oscura tendenza affettiva, potrebbe offrire l’immagine della realtà della cosa in sé. Che se già proprio in seno alla coscienza agisce quella norma discorsiva per cui la realtà non può a noi arrivare se non travisata, modificata, relativizzata, e se anche nell’atto medesimo di conoscer se stessa la coscienza non si sottrae alla legge di tutta la conoscenza, la scoperta dei motivi che sono sovraordinati a questa legge, tutto questo ne consentirebbe forse la nozione e la conseguente eliminazione, potendo allora la coscienza uscir di sé, per afferrare almeno il proprio intimo. Si stabiliscano anzitutto le ragioni per cui l’esistente, fisico e psichico, viene da noi percepito o pensato in una molteplicità giustapposta e spaziale, i motivi per cui nella conoscenza, sensoriale o intellettiva, sembriamo seguire una traccia che non è quella delle cose; si colgano i fattori che hanno influito sul rapporto coscienza-oggetto e che sono entrati, per così dire, a far parte come terzi di questa che, se fosse rimasta polarità, ci avrebbe fornito la certezza di un adeguamento completo del rappresentante al rappresentato.
La soluzione allora potrebbe consistere nel guardare alle facoltà gnoseologiche normali come a funzioni speciali della coscienza, essenzialmente costituite a funzioni speciali della coscienza, essenzialmente costituite a servizio dell’esistenza e della vita, manifestantisi come azione o attuale o semplicemente possibile. D’altra parte, il bisogno dell’unità ci testimonia di un’unità veramente esistente, oggettiva almeno nell’ambito cosciente, poiché se ciò non fosse, dovremmo affermare che nella coscienza vi è qualcosa di più che nella natura, che la prima trascende la seconda. Ora Bergson si sente sicuro di poter dedurre da quel senso dell’unità continua, una continuità e una unità concretamente oggettive. Attraverso un esame delle condizioni spirituali è possibile assicurare dell’esistenza di un continuo di essenza psicologica, adottato il quale come elemento di confronto, si aggiunge la possibilità di ricondurre ad esso il molteplice dell’esperienza fenomenica.
La conclusione è fondamentale e caratteristica: ma, non appena se ne dichiari la sufficienza e la si eriga a criterio, tende di - 81 -per sé a trasformarsi in premessa capace non solo di agire su tutte le successive deduzioni, ma di spostare i confini di solito imposti a una teoria della conoscenza e di toglier loro quell’immobilità che sembra retaggio di ogni posizione critica. Se, infatti, una volta impostisi di definire il reale, che è quanto dire far della definizione l’assoluto, si vuol procedere induttivamente, il processo del pensiero ha già dimostrato che la coerenza che si richiede al lavoro speculativo, non concederà all’induzione di attuarsi se non alla condizione di un previo esame degli strumenti che il pensiero si offre e delle possibilità o meno che questi posseggono di adeguarsi al fine proposto. Le filosofie critiche hanno riconosciuto come inderogabile il passaggio; ma ne hanno dedotto l’inadeguatezza. Quando, però, muovendo dal medesimo punto di vista, si pretenda di superare il relativismo, sia risalendo alle esigenze che hanno plasmato gli strumenti, sia ricercando in profondo ciò che ha determinato il bisogno di giungere a una definizione abbracciante la totalità, risulta fra la prima e la seconda posizione un certo iato, una particolare incompatibilità che in fondo non sono diversi da quelli osservati precedentemente fra la portata dello strumento e il punto che doveva esser raggiunto per mezzo dello strumento. La struttura della coscienza, per quel che riguarda l’attività del conoscere, si è attuata per adattamento a condizioni ed esigenze, conosciute le quali potremo tentarne l’eliminazione, vale a dire proveremo a sottrarci alla loro influenza. Questo è vero; come è altrettanto vero che soltanto riuscendo a ciò sarà possibile procedere a quella ricerca di cui si parla nella seconda proposizione. Il possesso dell’unità e della continuità realmente oggettive è condizionato dalla rimozione dell’ambiente, che chiameremo quotidiano, della conoscenza. Ma appunto questa rimozione costituisce l’elemento nuovo che separa l’una dall’altra le due proposizioni e che rappresenta un fattore così potente di discontinuità da rendere inutile ogni tentativo di conseguenza reciproca. Perché chiarificare i motivi che sovrastano agli strumenti gnoseologici e alla loro insufficienza, non è nulla di più di un approfondimento del punto di vista critico, non ne rappresenta tanto il superamento quanto il proseguimento al limite, avendo sostituito all’indagine morfologica o descrittiva, - 82 -
quella genetica. Che se anche ciò che verrà offerto costituisce un assoluto, questo è un assoluto di natura logica, non metafisica, e nei confronti del reale nella sua totalità, di fronte alla cosa in sé, l’origine, la fonte della forma cognitiva non offre maggior guadagno della forma stessa: entrambe sono certezze acquisite, solamente in quanto si autocircoscrivono e riguardano esclusivamente il modo, non il criterio della conoscenza. Al movente si è giunti applicando la logica discorsiva, col movente ci si è portati al di sopra di ciò che da esso è determinato; attraverso il movente, tuttavia, non sarà mai dato sottrarsi alla forma e adottare una posizione che del reale non ci dia soltanto il fenomeno. Al contrario, per comprenderla realtà, è necessaria l’eliminazione del movente, ci si deve cioè trasportare su di un terreno tutt’affatto diverso, che non sia soggetto alle norme che regolano la cognizione percettiva e razionale. Lo iato, di cui è rappresentativo il contrasto fra la nozione della condizione e i mezzi e le maniere di eliminarla – in quanto la prima offrirà sempre e soltanto ciò che deve essere radiato, non il come e il se della rimozione – viene colmato da una potestas noscendi nuova e differente, la cui dignità e la cui essenza sono, come vedremo, di natura esclusivamente metafisica.
Dal momento che Bergson da un lato vuole approfondire la posizione critica, dall’altro pretende superarla, senza contravvenire alla richiesta di quella premessa che consiste nel procedere anzitutto all’esame del problema gnoseologico, egli si vede condotto, via via che il confronto fra i due postulati ne palesa l’insofferenza reciproca, ad allargare il contenuto di ciò che si chiama «facoltà di conoscenza», ad includervi un fattore che per la sua natura e per i suoi risultati si sottrae ad ogni eventuale critica, in quanto coglie, così com’è, ciò che non può da esso non esser colto, e ad arricchirlo di qualcosa che si aggiunge alle forme che l’apprensione diretta ci assicura esistere nella nostra coscienza e di cui si tratta di stabilire la relazione con quelle forme. Questo è estraneo alla storia del pensiero, non nel nome di cui ci si serve per designarlo, ma per le sue funzioni e per la sua essenza; è fondamentale per la necessità intrinseca alla premessa di coonestare l’una all’altra le due posizioni; è metafisico, infine, e perché rappresenta un’attitudine, - 83 -più che una facoltà, posseduta dalla coscienza ad aderire immediatamente al vero, e in quanto nell’atto per cui si manifesta e si riconosce l’attività della potestas, non vi è affatto possibilità di distinzione fra oggetto e soggetto, ma la presenza stessa dell’assoluto, la sua esistenza nella coscienza, fan tutt’uno con l’attitudine che la coscienza possiede a conoscerlo. L’esistenza coincide con la conoscibilità, la conoscibilità con l’attualità della cognizione.
Possiamo così comprendere un’affermazione di Bergson stesso, la quale, tolta di peso da quel nesso che serviva a chiarificarla e che in definitiva non è se non lo svolgimento di quanto altrove è implicito, l’applicazione di metodica a un problema particolare, potrebbe attestare di una rischiosa adesione a quel razionalismo che si è voluto superare assumendo il punto di vista critico: «..teoria della conoscenza e metafisica si troveranno portate sullo stesso terreno».
Che il rischio sussista, come possiamo aver accennato, è evidente: se e come ci si sia sottratti non è il momento ora di indagare. Quel che invece immediatamente ci interessa è l’ampiezza assunta dalla teoria della conoscenza, abbracciando essa un elemento che è metafisico, vale a dire assoluto, meno nei suoi risultati che nella sua stessa natura: esso, infatti, aderisce al reale più per la sua coessenzialità alla cosa in sé che per l’intrinseca virtù ad adeguarla. Se poi si considera che tale attitudine gnoseologica si applica anzitutto al fatto cosciente, che come primo frutto darà una nozione esatta, e non fenomenica, di ciò che per coscienza deve intendersi, e che, quindi, i dati risultanti da tale applicazione saranno «dati immediati», si comprende come l’attenersi alle direttive segnate dalla metodica soddisfi alla seconda esigenza che la ricerca dell’unità voleva fosse condotta sulla coscienza, come quella da cui nasce l’unità in quanto senso e problema; non solo, ma si trova una giustificazione all’importante compito esplicato dalla psicologia nel pensiero di Bergson.
Non per caso, né per adattarsi alle imposizioni della tradizione moderna, la sua indagine muove da un Essai di carattere psicologico, che nondimeno non si limita alla pura saggistica o alla semplice psicologia. L’osservazione che nell’intimo stesso dell’uomo vi è una - 84 -voce, pari ad ombra dell’assoluto, non traeva seco lo sforzo di risolvere lo spirituale, di definirne la natura, per dare un corpo a quell’ombra? E, ancora, a favore di questa intimità dell’assoluto alla coscienza non parlava una nuova forma di conoscere cui era dato coglierlo, in quanto appunto gli si identificava? La scoperta dell’una, la ricerca dell’altra circoscrivono l’indagine al complesso dei fatti psichici. Ora, una volta riconosciuti, per quel che riguarda l’attitudine nuova, i suoi due attributi di appartenere al campo della conoscenza in generale e di convenire al complesso dei fatti della coscienza, la teoria di Bergson ingrossa fino ad annettersi sotto certi aspetti dei quesiti riferentisi alla metafisica, sotto altri delle definizioni di natura psicologica.
Ma, a proposito di quest’ultima nota, conviene, prima di procedere, soffermarsi a definire ciò che per Bergson rappresenta la psicologia e a far distinzione fra il modo suo di trattare la dottrina dei fatti della coscienza e quello tenuto da altri: là è definitorio e risolutivo, qui è descrittivo e, con ciò, relativo, intendendo che mentre nell’uno riveste l’aspetto di una sequenza di problemi di indagine e finisce in una serie di definizioni, cioè di soluzioni dichiaranti l’essenza della cosa, negli altri è limitato alla funzione scientifica, in quanto assume il dato come fenomeno, soggetto di descrizione e di precisazione relativistiche dei rapporti intercorrenti. Fenomenologia e speculazione si contrappongono come le due visuali di un medesimo oggetto. Fondandoci su quel che si è detto sopra e sull’importanza che acquisterà il risultato dell’indagine sui dati immediati della coscienza nella concezione del mondo, stabiliamo il posto occupato dalla psicologia nella sua filosofia in generale e nella sua dottrina della conoscenza in particolare, e la caratterizziamo in tre punti:
a) l’indagine psicologica, in quanto attribuisce a sé come oggetto l’essenza della coscienza e in quanto alla dichiarazione di questa verrà riferita ogni singola visione – nel senso che non verrà limitata a semplice concetto, ma si innalzerà a presupposizione di ciò che è reale ed esistente al di sotto del fenomeno, investe il problema dell’esistente, come indice di una cosmologia;
b) l’indagine psicologica, non appena si assuma il processo - 85 -attraverso cui si opera in essa, come un criterio suscettibile di applicazione universale, cioè quale metodica, non può non concernere il problema logico, perché il fattore, che si riconosce costitutivo dell’essere della coscienza, dovrà assumersi come norma interpretativa che la coscienza erige a generale ed assoluta, quando si accosti ad altro da sé per interpretarlo come già interpretò se stessa – e quello gnoseologico, perché l’assunzione di tale norma comporta la verifica della sua validità e del possibile suo adattamento a una realtà che il presupposto relativistico aveva già indirettamente dichiarato extra-concettuale;
c) l’indagine psicologica, infine, mossa da un interesse che si manifesta meno con l’osservazione che con la definizione, sorge come studio dipendente e intimamente connesso a tutte le conseguenze speculative che se ne possono trarre e che in realtà se ne traggono; in virtù della stretta relazione fra la particolare definizione del complessivo fatto di coscienza e i generali quesiti filosofici, sarà difficile poter tracciare una linea di separazione netta fra i due, che cesseranno di presentarsi come elementi, per ridursi ad aspetti di una medesima posizione di pensiero.
In considerazione di questi punti fondamentali, la psicologia di Bergson per la sua funzione speculativa si prospetta determinati problemi da un punto di vista affatto differente da quello sotto cui li considera la dottrina psicologica che si pone indipendente e fine a sé; o piuttosto pone come problemi quelli che da questa sono accettati quali dati di fatto o addirittura ributtati quali questioni da risolversi in campo non positivo o empirico, ma metafisico.
I tre argomenti importantissimi per Bergson, dell’essenza della coscienza, del rapporto fra stato di qualità e stato di quantità, dei modi della relazione fra fatti di mente e fatti extra-mentali, ammettendo col senso comune che ne esistano, si riuniscono in una problematica che richiede singole soluzioni, relative ad ogni costituente, e che le riceverà, qualsivogliano esse siano, muovendo l’una dall’altra. Le questioni, ad ogni modo, data la loro costituzione, non richiedono che una considerazione di genere psicologico e non si pongono se non perché in tale considerazione entra una esigenza di problematico, vale a dire di speculativo. Ma quella disciplina - 86 -che guarda alla coscienza non diversamente da come una qualsiasi scienza positiva si rivolge alla natura in quanto rete di fenomeni, e che, per ciò stesso, trova in sé le presupposizioni sufficienti ad assumerne la stessa metodica, quella sperimentale, non si pone la prima delle tre domande perché il suo interesse è diretto al fatto cosciente, non alla coscienza: questa può ridursi ad una ipostatizzazione del solo senso di identità, che va unito a tutti i fatti psichici, di modo che, per il suo scopo, che è quello di determinare i modi e i caratteri del fatto assunto in qualità di fenomeno, e di fissarne le leggi, cioè le condizioni di reciproco rapporto, «può fare astrazione assoluta da ogni teoria puramente speculativa sull’essenza dell’anima». Passando al terzo punto, la sua stessa enunciazione – modi della relazione tra fatti di mente e fatti extra-mentali - parla di un dualismo: e che di dualismo a proposito di Bergson sia dato parlare, si tratterà altrove. Quel che ora vogliamo notare è che entrambe le posizioni accettano a presupposto il dualismo: ma il dualismo dell’una trova la sua ragion d’essere in un processo di speculazione puramente negativo, ad esso vi si giunge quasi per via di esclusione. Per uno psicologo quale il James, ad esempio, invece, il dualismo, inteso come esistenza di uno stato extra mentem contrapposto a uno stato mentale, vien confermato per una via semplicemente empirica, stando alla sua base più una constatazione immediata che un ragionamento. Accettato come dato di fatto su cui lo psicologo può costruire le proprie ipotesi e le proprie leggi, non viene mai sottoposto ad analisi, onde salire a una definizione metafisica. Con l’uno rimaniamo nella sfera del particolare, con l’altro acquistiamo un valore universale.
Conviene ancora aggiungere che il dualismo, concepito dalla psicologia degli ultimi decenni del secolo scorso, sembra quasi interporsi fra le due concezioni di cui parliamo, ricevendo dalla prima alcunché di positivo, non disdegnando alcune note di metafisico offertegli dalla seconda. La teoria dell’automatismo cosciente, sorta dall’applicazione del principio di continuità, per cui la nozione di atto riflesso viene trasferita dai sistemi inferiori ai sistemi superiori del complesso sensorio-motore, pone a proprio fondamento il fatto della polarizzazione della sfera fisica e della sfera psichica, - 87 -
spingendo tuttavia al massimo il dualismo in una negazione di qualsiasi rapporto fra l’una e l’altra: la dualità termina in parallelismo, che, unitosi a un sostrato di metafisica, si sarebbe facilmente lasciato sostituire dal materialismo. Tale da scontentare e filosofi e psicologi, la teoria doveva subire la critica degli uni e degli altri. Non siamo a conoscenza di documenti diretti coi quali ci sia dato provare l’influenza che la lettura dei fondatori e propugnatori dell’automatismo cosciente esercitò su Bergson: ma alcune sue spiegazioni, nello sforzo di superare il dualismo assoluto senza precipitare nell’annullamento di uno dei termini, provando invece l’azione reciproca dell’una sfera sull’altra, starebbero a dimostrare una certa traccia e una successiva reazione a tale concepimento. Ma se attraverso le teorie della percezione e della memoria, per esempio, egli tenta di scalzare il parallelismo, la sua reazione sarà condotta sul piano speculativo, cioè sarà di tutt’altro genere da quella di uno psicologo, limitandosi questi a riconoscere, con testimonianze offertegli dall’esperienza, l’efficacia causale che la sfera cosciente possiede sulla fisica, non facendo però del dato un problema e quindi non tentandone la spiegazione.
Non diversamente il rapporto fra qualità e quantità verrà trattato da Bergson e risolto in funzione della sua nozione tipica di coscienza: ma la questione delle differenze qualitative, o problema della discriminazione, offrirà alla psicologia argomento di trattazione in vista soprattutto di un’irriducibilità alla quantità. Ma qui ci si arresta al riconoscimento delle differenze qualitative, all’impossibilità di ridurle a semplici differenze quantitative, senza erigere il tutto a teoria, entro i limiti di una semplice descrizione delle condizioni.
E con ciò chiudiamo la digressione: concludendo, crediamo aver mostrato come, trattando della dottrina della conoscenza di Bergson, non si possa costruire una pura teoria in cui non entrino psicologia e metafisica.
L’Essai è nato come tentativo di dimostrare che è possibile raggiungere – attraverso un discorso descrittivo delle nostre condizioni interiori, dei nostri stati intimamente vissuti – la certezza che l’uomo può dichiarare se stesso creatura libera. Qualunque - 88 -sia stata la ragione immediata di tale impegno – se alle sorgenti del tentativo ci sia l’antica questione del libero arbitrio oppure se non ci sia il presentimento delle forche di determinismo a cui le diverse posizioni psicologiche contemporanee erano destinate a piegarsi, resta pur sempre il fatto, secondo me evidente, che il risultato finale dell’opera non fu il frutto più vitale, quello destinato a divenire il lievito dei lavori e delle indagini successive: in un certo senso, l’acquisizione di una libertà o di una particolare sua interpretazione era qualcosa di pacifico per Bergson, qualcosa che era nel suo carattere, nelle sue aspirazioni, nelle convinzioni profonde e inalterate che accompagnano ogni uomo nella sua vita e che continuano a sussistere in lui sia che spenda fatica per convalidarle con delle osservazioni e dei ragionamenti sia che si abbandoni ad esse come a verità che non val neanche la pena di discutere, se si vuol vivere. Mi son convinto che furono piuttosto i risultati secondari quelli che si rivelarono dotati di una vitalità nuova e di una luce di nuova chiarificazione; mi pare, cioè, che dal confronto fra l’Essai il Matière e l’Evolution, risulti evidente che il filone fondamentale rimase vivo in tutte in virtù di una sua potenza innata, anteriore alla sua stessa dimostrazione; dalla prima, al contrario, trapassarono nelle altre come strumenti fondamentali dei nuovi punti di vista, delle nuove osservazioni, atte a porre nelle mani di chi voleva ampliare la visuale un valido criterio di interpretazione, immutabile e polivalente. L’Essai, infatti, è pervaso da questa sicurezza di una scoperta di ciò che prima non era mai stato posto in rilievo: ascoltiamoci dentro, mentre viviamo agiamo sentiamo, e coglieremo una corrente continua in cui non si danno distinti e in cui l’onda che segue trae la propria «materia» sentita e vissuta da quella precedente, si arricchisce su di sé e si trasfonde nell’onda futura; una corrente simile a un fluido che, via via che avanza, si gonfia e cresce e s’espande. È la nostra realtà questa, la nostra essenza. Proviamoci a farla oggetto di rappresentazione mentale e di linguaggio; tentiamo di fissare in questo indistinto multicolore i colori che lo compongono, di stabilire in questa ricchezza multisplendente le gemme che vi s’incarnano. Necessariamente dobbiamo stabilire dei limiti, delle determinazioni; vale a - 89 -dire, non si può pensare e verbalizzare la durata interiore se non a patto di frazionarla in stati la cui caratteristica, che li differenzia dalla situazione originaria e immediata, sarà di avere dei confini di divisione e un contenuto di determinazione tale che renda possibile l’applicazione del principio di identità. Lasciamo stare tutte le conseguenze che Bergson trae da questa descrizione del nostro intimo e fermiamoci ad essa. È la somma di quei risultati secondari di cui si parlava prima; e ne è la somma in quanto si riduce a un parallelismo di strutture con cui entriamo in immediato contatto: da un lato, la durata reale, dall’altro, la sua interpretazione riflessa e intellettiva. Questo è un lievito ricco di immense possibilità, perché per la prima volta un uomo, trasportando – con consapevolezza più o meno grande, un problema annoso da un piano di generalità universale ed assoluta a un piano di particolarizzazione empirica e limitata, seguendo -più o meno volontariamente – le nuove vie di indagine psicologica che si stavano aprendo, ha colto un angolo dell’esistente, in cui conoscenza e conosciuto potevano rimaner sdoppiati in due atti distinti, vissuti al tempo stesso in un atto sintetico. È questo, secondo me, quel che Bergson ha creduto di aver colto ed è questo che ha voluto universalizzare. Se uno stesso oggetto, il contenuto di coscienza, può essere colto in sé e insieme può venir pensato dall’intendimento secondo rappresentazioni che son valide in sé, in quanto rappresentazioni, ma che perdono di valore una volta ricondotte al sentimento immediato, è logico che il problema fondamentale, quello della libertà, passa in secondo piano di fronte alle conseguenze della nuova proposizione. La quale, se è destinata a costituire un semplice mezzo di argomentazione fin che la si riconduce alle conclusioni ristrette dell’opera, cambia di ruolo e passa ad assumere la prima parte non appena venga valutata in sé, al di fuori di qualunque sua utilità. Infatti, soppesata nel suo valore assoluto, la proposizione per cui si dichiara inadeguata la rappresentazione linguistica della coscienza alla rappresentazione vissuta di essa, perde i suoi limiti di descrizione psicologica e acquista il nuovo aspetto di considerazione gnoseologica, portandosi in tal modo dal campo psicologico al campo del conoscere, anzi venendo di per se stessa - 90 -a costituire un campo gnoseologico. Lo spostamento di valore sarà un fatto spontaneo, giacché la proposizione, assunta in astratto, è gravida di conseguenze che oltrepassano di gran lunga l’importanza di quante altre, psicologiche o morali, ne derivano. Questa facoltà discorsiva, di cui tanti ci vantiamo, che sa astrarre e catalogare, che fornisce idee delimitate a parole altrettanto definite e insostituibili, quando vuole applicarsi alla coscienza fallisce alle sue pretese di creatrice di valori; e non fallisce certo per supposizioni o disquisizioni o interpretazioni che partano da lei stessa e si sviluppino lungo i suoi stessi sentieri obbligati: essa vien meno alle sue promesse, perché non corrisponde affatto a ciò che immediatamente possediamo di noi stessi. Nel piano psicologico noi siamo costretti a restringere la validità della rappresentazione intellettuale per concetti alla stessa rappresentazione: già in possesso, come siamo, dell’oggetto concettizzato, siamo contemporaneamente padroni dello squilibrio fra oggetto e concezione dell’oggetto. Di qui, una certezza di relatività o di invalidità, ristretta al dato dichiarabile fuori corso al di là del suo territorio, certezza che non ha nulla che fare né con un confronto fra mondo delle sensazioni e mondo dei concetti e dei rapporti, e che neppure nasce dalla riconosciuta insufficienza della posizione che riconduce tutto l’intendimento alla sensazione senza rendersi conto che tale riduzione lascia sempre allo scoperto dell’indefinito ciò che dell’intendimento non può essere spiegato dal senso. Il primo risultato della nuova descrizione psicologica è, quindi, una dichiarazione di relatività delle facoltà intellettive.
D’altra parte questa dichiarazione è privilegiata, se è vero che nasce da un confronto diretto del rappresentabile con il rappresentato: e il privilegio consiste nella possibilità di elencare con precisione quei caratteri i quali costituiscono i componenti della relatività, come quelli che ritrovati nel rappresentato o nell’enunciato non compaiono nel rappresentabile o nell’enunciabile. Se si è giunti a dichiarare valida solo in relazione a se stessa la conoscenza intellettiva, ciò è dovuto al fatto che alla struttura della durata interiore, struttura colta immediatamente e come tale reale, si è visto esser stata sostituita una struttura diversa. Le differenze stanno - 91 -nella contrapposizione, come si è già detto, del continuo al discontinuo, del compenetrato al discreto, del fluido mobile al giustapposto statico. Quantità e molteplicità, coi loro accessori, sono quindi i caratteri e le condizioni della conoscenza riflessa, cosciente e verbale. Ma questa conoscenza è la stessa che portiamo su tutte le cose, sui fatti del mondo esterno, sui dati della vita e sui dati dell’inerte: dovunque intervenga l’idea, la classificazione, la determinazione, ivi interviene il molteplice e il quantitativo. E se molteplice e quantitativo si son dimostrati inadeguati a un aspetto del reale, lo sono con altrettante forza per tutti gli altri: e ciò non solo grazie a un procedimento per analogia, ma anche e soprattutto in virtù della scoperta di alcuni aspetti, presenti in altri angoli del reale, i quali son colti con la stessa immediatezza con cui vien vissuta la durata interiore, ma si piegano alla medesima legge di snaturamento non appena vengano sottoposti all’elaborazione dell’intendimento in particolare, della coscienza discorsiva in generale. In tal modo la relatività del conoscere si allarga a poco a poco, fino a diventare una metodica. E, infatti, poiché anche la sensazione è dominata dal molteplice, si dovrà dichiarare anch’essa relativa. Da una definizione di relatività si passa a una metodica della relatività. Il secondo risultato della nuova descrizione psicologica, consistente nella determinazione del relativo nella conoscenza, diventa un impulso capace di dare universalità alla scoperta stessa del relativo e di farne uno strumento di interpretazione: in tal modo, l’Essai diventa Matière, e il Matière diventa Evolution.
Riesce difficile rendersi pienamente conto del relativismo gnoseologico, eretto a metodo, di Bergson, se non [[si]] coglie lo spunto psicologico in esso sempre presente. E si badi che alla base della sua teoria del conoscere ci sta la psicologia, non solo sotto forma di rapporto genetico, ma anche sotto l’aspetto di un continuo riferimento a quella prima proposizione il cui tramutamento ha dato origine al campo del conoscere. Infatti, il raggiungimento di una metodica del relativo non esaurisce affatto il problema in lui; ne costituisce solo il primo momento: il secondo momento sta nello sforzo, nell’ansia continua, di portarsi al di là del relativismo, sforzo che sempre animerà tutta la meditazione e costituirà il movente di gran - 92 -parte delle definizioni che del reale egli ci ha dato. Ma se il primo momento non è che il contrapposto simmetrico di quell’inadeguatezza del mondo intellettivo al mondo psicologico, il secondo momento, che è di natura metafisica, rappresenta la risonanza di quel possesso di realtà che offre la donazione immediata della coscienza di sé all’uomo. La durata reale della psiche è un possesso che abbiamo al di là del relativismo gnoseologico; lo slancio vitale è una visione che ci giunge al di fuori dello schematismo di giustapposizione del senso e dell’intelletto. Così, la psicologia penetra a grandi ondate nella gnoseologia, fino a costringerla a diventar metafisica; e la metafisica ritrova se stessa nella psicologia, allo stesso modo che un problema del conoscere era nato nel momento in cui una proposizione psicologica si era spogliata del suo abito di pura e semplice descrizione.
Che, però, le cose vadano tutt’altro che lisce, nonostante questo sottile scivolare di campo in campo, lo si può notare facilmente: basta considerare il passaggio della dichiarazione di relatività dal ristretto campo psicologico a quello universale. È vero che quando si è trattato di ampliare la relatività del discorsivo e del rappresentativo e di estenderla ad altre zone del reale, si è preso lo spunto da dei fatti nei quali inerisse una condizione analoga a quella privilegiata della psicologia, vale a dire la contemporanea simultaneità di due aspetti diversi e contrapposti dei medesimi fatti; è vero che dall’inettitudine della rappresentazione per molteplicità e quantità a riprodurre nella sua oggettiva essenza un particolare fatto che la coscienza era in grado di acquisire sotto diversa forma si è voluto tentare di argomentare direttamente, come valido per il tutto, quella relatività gnoseologica che sul piano della psicologia era apparsa tanto evidente; è vero, infatti, che si è tentato di creare per tutti gli aspetti del reale quelle favorevoli condizioni di confronto tra fenomenico e assoluto che l’introspezione aveva riservato al puro contenuto di coscienza. Ma non si può disconoscere che l’argomentazione del relativismo, per ciò che riguarda aspetti estranei alla psicologia, non si fonda su nessuna proposizione che goda di pari universalità quale ne godeva la proposizione in cui si contrapponeva la durata interiore alla riflessione della durata. L’erezione di uno - 93 -spunto felice a principio di metodica, se volessimo veramente classificarla, dovremmo chiamarla frutto di un procedimento per analogia, e frutto di identico procedimento dovremmo chiamare l’altro passaggio dalla descrizione di un reale psicologico, che è in sé, a un reale universale che dovrebbe essere altrettanto in sé. E, ancora, la proporzione relatività-durata, relatività-reale biologico, relatività-reale materiale, è tanto vacillante che Bergson deve fare appello a un nuovo strumento di conoscenza: che la necessità sia derivata e non primaria – nasca, cioè, da un ampliamento delle considerazioni originarie, da una trasposizione di una situazione data a una situazione diversa – lo si può cogliere da questo, che l’introduzione di tale strumento non è neppure lontanamente preaccennata in quell’Essai, vale a dire fin che la proposizione di relatività era rimasta ristretta al piano da cui era scaturita. Le nostre, di prima, sono state parole più di rappresentazione di un processo mentale, che di esaltazione di una nuova posizione. Tanto più che gli interrogativi che la nuova metodica comporta non si limitano solo al momento in cui di uno spunto si fa uno strumento, ma, se si vuole, si possono anche far sorgere a proposito del concetto stesso di durata, in quanto rimane pur sempre in sospeso se sia veramente inutile fissare delle condizioni di validità a quella acquisizione immediata che la coscienza ha di sé, o se piuttosto non sarebbe necessario procedere nei confronti di questa acquisizione con quello stesso comportamento fiscale che la povera coscienza intellettiva ha dovuto finora sopportare.