Giordano Bruno Cavagna
La dottrina della conoscenza in Enrico Bergson

Capitolo II LA FONDAZIONE PRAGMATICA

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Capitolo  II

LA FONDAZIONE PRAGMATICA

 

            Di fatto, riconosciamo esser critica la posizione che fonda a presupposto l’esame delle condizioni di una conoscenza qualsiasi, ma non sappiamo se e fino a qual punto si possa continuare a designarla così, quando alla staticità, che ne riduce lo studio alla delimitazione numerica e alla descrizione funzionale e morfologica, si sostituisca il criterio del ridurre. Il confine allora fra la teoria del noto e la teoria dell’esistente diviene così tenue e inadeguato da consentire l’invasione reciproca, da richiederla pure, non traendo ognuna delle due da sé sufficiente vitalità per una dignità autonoma. Si richiami l’intera cosmogonia evoluzionistica: vi si ritroveranno frequenti i passaggi e i richiami dall’una parte all’altra, numerosi i sostegni che esse si offrono a vicenda. Ma l’introduzione del concetto di riducibilità, per cui l’esserci della condizione invita alla ricerca di quella che sarà la condizione della condizione, può modificare la dottrina e rimuoverne il giogo di immutabilità, purché fra la condizione originaria e l’altra o le altre derivatene si ponga una differenza di natura e non di grado. E tale è l’assunto di Bergson. Di conseguenza, la condizione originaria apparterrà a una sfera affatto diversa e non avrà nulla che fare con la sfera in cui deve agire la condizione, diciamo così, gnoseologica. Ciononostante fra le due potrà sempre stabilirsi e dimostrarsi la possibilità di un rapporto, quando si sia presupposta una inerenza condizionale, una subordinazione utilitaristica della sfera della conoscenza alla sfera - 95 -dell’esistenza, cui appartiene la condizione fondamentale. Soltanto in questo modo sembra a Bergson che gli si offra il destro di superare le strettoie di una posizione critica, senza alterarne quelle premesse la cui conseguenza era stata dimostrata legittima dallo sviluppo del pensiero: perché, quando si riconosca la realtà di un conosciuto e non si possa non presupporre la fissazione delle norme che lo hanno condizionato, applicando il principio di transizione, si ricerca il condizionamento delle norme stesse; che se poi fra condizionato e condizionante risulta evidente una contrapposizione di natura, non riuscirà difficile trasferirsi dall’una attività all’altra, abbandonando nella prima gli strumenti che la seconda vi ha organizzato nell’istante in cui l’ha asservita a sé, e muovendosi in questa in virtù di una immediata spontaneità di cui essa stessa è in grado per natura di dotare l’individuo.

            Ora, l’applicazione del principio di transizione non era una novità per chi della filosofia aveva voluto fare una critica. Se tale applicazione viene riguardata nelle sue conseguenze più che nella sua essenza, ossia come ricerca di un principio universale ed assoluto di conoscenza – sia come canone o criterio che come condizionamento, essa si può far risalire alle mutate esigenze speculative, per cui la conoscenza viene eretta a campo e con ciò a nota caratteristica del pensiero moderno in generale. Ma quando se ne riguardi l’essenza, per la transitività, e il processo attraverso  cui si è dovuti passare per giungervi, la si deve ridurre a principio specifico di uno solo degli atteggiamenti, a quello che, eretta la conoscenza a problema, aveva identificato e risolto in tale problema il valore e la presupposizione di ogni indagine. Quantunque in Kant il fondamento originario e non deducibile di ogni facoltà trascendentalevale a dire riguardata soltanto secondo  la forma pura – venga argomentato dall’insufficienza del concetto - anch’esso assunto nel suo senso trascendentale – in generale e di tutte le categorie in particolare, onde la transitività sembra celarsi sotto questo che concetto e categorie appaiono mediare tra il fondamento della possibile unificazione e il molteplice dell’intuizione, il fatto stesso tuttavia che all’atto sintetico originario di ogni trascendentalità dello intelletto si pervenga per sillogismo, ci conferma che - 96 -ogni atto logico della sintesi rappresentativa, in quanto attività, determina un criterio universale di condizionamento cui esso stesso deve sottostare. Si richiamerà più oltre l’osservazione che la condizione originaria vien posta analiticamente e ci si chiederà che cosa consegua da tale processo logico di deduzione. Per ora ci limiteremo a determinare il contenuto dell’atto sintetico originario.

Una volta accettata la presupposizione che la conoscenza da un lato abbia come limitazione l’esperienza, dall’altro come possibilità di attuazione l’unificazione della molteplicità empirica, e una volta ancora riconosciuto all’unificazione l’attributo di attività, conseguiva la necessità di un’attitudine gnoseologica diversa dalla sensoriale. Le rappresentazioni, infatti, per Kant per quel che inerisce al loro carattere di molteplicità, sono sempre sensibilità, cioè passività. E la sinopsi a priori di tale molteplicità nell’intuizione concerne sì le forme pure di questa intuizione, ma in quanto esse sono sovraordinate all’ordinamento del molteplice e fissano il modo con cui il soggetto viene modificato secondo il molteplice stesso. Ora, se la conoscenza è per sua essenza unificazione del molteplice e se l’intuizione, in quanto appunto recettività, del binomio non può dare che il secondo elemento, la spontaneità e l’attività rivelate dal concetto di unificare, attestano dell’esistenza di una nuova facoltà o piuttosto grado che dovrà sopportare le esigenze dell’universa condizione trascendentale del pensiero umano. L’unificazione sarà, quindi, un’operazione  dell’intelletto, «che possiamo designare colla denominazione generale di sintesi, anche per fare in tal modo rilevare, che noi non possiamo rappresentarci nulla ridotto a unità nell’oggetto, senza prima averlo già ridotto a unità». L’intelletto, dunque, o secondo grado della coscienza atteggiata alla conoscenza, è la traduzione in termini di linguaggio di un’operazione sintetica, ossia dell’atto «di unire diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità in una conoscenza». L’operazione è sintetica, quindi pura, secondo la definizione generale della Critica, e si attua secondo concetti puri, o principi unitari e irriducibili, sintetizzatori del molteplice delle rappresentazioni di una intuizione, i quali secondo un diverso punto di vista sono pure i modi più generali alla cui norma la coscienza formula il giudizio. Ma i singoli sistemi di- 97 - elaborazione del molteplice non potrebbero condizionare questo stesso molteplice, se non partecipassero tutti ad un solo «principio di funzionamento», ad un solo criterio normativo, che la loro essenza di realtà d’ordine trascendentale non consente di possedere in proprio, ma presuppone, e che essi debbono, quindi, derivare da un qualcosa di superiore, che è tale principio stesso e che tutti li condiziona. L’intelletto, che è sintesi, agisce sul molteplice dell’intuizione, ma ciò può fare soltanto per la presenza di questa rappresentazione pura, che è data prima di ogni pensiero. Ora, in primo luogo la rappresentazione pura, che, come condizione assoluta della conoscenza, cioè di ogni atto della coscienza che sia unificatore di un molteplice, non può non essere unità e non può non accompagnarsi ad ogni rappresentazione che inerisca al soggetto e sia di per sé sintetica, deve per ciò stesso avere, in comune con l’atto di unificazione in generale, la prerogativa dell’attività spontanea e distinguersi quindi dall’intuizione, che è recettiva: ma, in secondo luogo, in quanto non è condizionata da alcun pensiero, bensì condiziona la formulazione di tutti i pensieri partecipa di uno dei caratteri della sensibilità, vale a dire l’intuitività o immediatezza di apprensione. Inoltre, il fatto stesso che essa deve potersi unire a tutte le rappresentazioni rimanendo sempre una e identica a sé, senza trovare fra quelle nessuna atta ad accompagnarla, vale a dire a condizionarla, la erige ad atto originario. Che se poi si considera la sua qualità di condizione della condizione di ogni conoscenza, si deve pure riferirle l’attributo di trascendentale.

Tali sono i motivi per cui Kant la denomina appercezione pura e la definisce come unità sintetica – o trascendentale  - originaria. Ma quando sorge la questione di darle una  consistenza, cioè un corpo e una figura, allora si troverà costretto a derivarli dalla particolare visuale sotto cui fino allora aveva riguardato alla funzione gnoseologica della coscienza. In verità, dal momento che ogni intuizione o immaginazione o rappresentazione in definitiva non sono che dei pensati, e non si può procedere alla loro unificazione se non in virtù di un’ultima norma sintetica che resti per così dire sottesa alla loro indefinita molteplicità, la pluralità degli atti, cioè dei pensati, non sottostà ad altra unità che a quella di un solo - 98 -principio agente, cioè attivo che nel pensato indefinito concretizza l’azione del pensare. Il pensiero, insomma, nell’atto in cui conosce pensa e pensando determina oltre che dei pensati anche se stesso come pensante e – afferma Kant – non potrebbe mai darsi un pensato, ossia un conosciuto, senza che pel fatto stesso della sua esistenza non si lasciasse determinare, appunto come pensato, dalla coscienza immanente al pensiero di se stesso come pensiero. L’appercezione pura, in conseguenza, si identifica con il senso che ogni coscienza possiede di sé, non appena si ponga come tale: è autocoscienza, cioè coscienza dell’unità intrinseca al pensiero e permanente attraverso la pluralità delle rappresentazioni, ossia intuizione di un unico punto di relazione, a cui son da riferirsi il complesso dei rappresentati, che ogni soggetto chiama «miei», vale a dire, insomma, senso di una identità che consente di porre costanza e ripetizione fra rappresentazioni strette in rapporto a costituire un oggetto.

Definiamo - seguendo Kant – l’oggetto come «ciò nel cui concetto il molteplice di una data intuizione è unificato»: da ciò consegue anzitutto che l’oggetto è il termine di ogni conoscenza, poi che tale conoscenza, in quanto sintesi, è funzione dell’intelletto. Ma non può darsi unificazione, cioè possibilità di relazione fra una molteplicità indefinita e variabile, senza l’appercezione immediata dell’unità sintetica e immutabile che costituisce l’unificazione. Quindi, a fondamento dell’intelletto in particolare, della conoscenza in generale, sta l’autocoscienza, da ridursi alla proposizione «Io penso».

Non si contrasterà facilmente che qui ci troviamo di fronte, forse, il cardine di tutta la dottrina di Kant, non solo quando si consideri che la nozione di autocoscienza vien posta alle fonti dell’universalità e assolutezza della conoscenza,vale a dire dell’unico aspetto dell’esistente da cui il pensiero può muovere senza presupposizioni e inciampi, ma soprattutto se ad essa si guarda come al termine che media fra le posizioni iniziali del cosiddetto pensiero moderno e le sue estreme conseguenze. Sarebbe alquanto difficile afferrare e penetrare nel passaggio dall’istante in cui la coscienza erige se stessa a fattore di realtà, non più a termine di valore, a quello in cui - 99 -accentra in sé la totalità dell’essere, per chi non volesse vedere nell’attribuzione trascendentale di Kant il momento della coscienza che pone sé come un reale da cui sgorga la valutazione della totalità dell’essere. Una volta che si riconosca ciò, si comprende per qual motivo a tale esaltazione dell’autocoscienza si rivolgano gli assalti di quanti sono alieni dal mantenere il pensiero nell’equilibrio instabile di un relativismo, e perché chi voglia trarre vantaggio proprio dall’instabilità - come Bergsonconservi il sistema di forze, ma ne recida quella per la cui azione doveva susseguire una sola situazione statica possibile. Tuttavia non si può ricostruire per analogia il sistema, sia pure mutandone la morfologia, ed eliderne ciò che, in definitiva, è il suo sostegno fondamentale, senza aver approfondito quale funzione gli abbia dovuto attribuire Kant e quali motivi di stabilità architettonica ne abbiano imposto la presenza.

Perché il volere assumere isolatamente la coscienza di sé dell’io per farne l’oggetto di un esame al di fuori dell’ambiente stesso in cui essa si è data, presenta non pochi rischi: non ultimo quello di sfiorare soltanto l’effettiva consistenza del problema o addirittura di travisarla. Questo succede, per esempio, a James. Intollerante di un soggettivismo sia pure gnoseologico, comprendendo come il perno di esso sia ancora dato da ciò che Kant chiama l’unità sintetica, si sforza di ridurla ad una interpretazione semplice, tale da poter essere valutata e vagliata da una teoria che, limitata dalle esigenze psicologiche, le dia rilievo tramite una applicazione generale.

Ora, Kant, definendo e delimitando al tempo stesso la nozione di appercezione – già l’abbiam visto -, ne fa il senso che il soggetto possiede dell’identità con se stesso. James accoglie la norma d identità, ne fa anch’egli un principio, anzi una legge intrinseca ad ogni cognizione che si dia come possibile, ma nega una necessaria correlazione fra il senso e il senziente del medesimo. Per lui, psicologo, la nozione di identico, che resta sottesa al concepimento, non può dichiararsisoggettivaoggettiva: accolta in quest’ultima accezione – che non è quella di ridurre il senso al semplice principio ontologico di identitàesige l’aderenza ad una esplicazione dell’universale, e di conseguenza, una proposizione speculativa. La sua è una legge psicologica che riconosce alla coscienza l’attitudine- 100 -

 

a pensare l’identico in diverse posizioni della corrente del pensiero, e subordina la facoltà di una conoscenza qualsivoglia a questa che non è se non la capacità della coscienza di «sentire» che il fatto psichico A dell’istante presente è il medesimo di un altro fatto psichico B che si diede in un’altra unità di tempo. Ma, se così deve esser considerato, questo «principio della costanza nelle significazioni del pensiero» non sarà altra cosa se non una traduzione, entro la sfera descrittiva che sola può riservarsi allo psicologo, del contenuto del principio di identità oggettiva e non riguarderà null’altro se non il problema del pensamento dell’identico, con l’aggiunta che tale problema è fondamentale per una teoria della cognizione. Si è assunta la nozione di identità, la si è posta in relazione col molteplice di cui consta il conosciuto, stringendo, fra i due, legami di necessità, ma non distinguendo fra l’uno e l’altro, come voleva Kant, sì che l’identità diviene ripetizione incessante dell’identico e la cognizione un condizionato dell’identico che si ripete. L’appunto, quindi, che si muove all’appercezione kantiana, in quanto mosso da un presupposto di riduzione della pluralità alla medesimezza, perdeva di validità per la pretesa di riportare su tutt’altro piano la significazione kantiana; qui,infatti, i legami di necessità impongono la subordinazione, ma non la confusione, e l’identità soggettiva, sottesa alla coesione del molteplice, fa astrazione dalla ripetizione di un medesimo che in questo può darsi. L’identità di Kant è il permanere della coscienza identica a se stessa di fronte e quasi in opposto al susseguirsi, o, se si vuole, al ripetersi, di una pluralità di stati che le appartengono, e non tollera una osservazione  tale, così come la permanenza rigetta la ripetizione, giacché questa, in quanto tale, appartiene all’intuizione sensibile nelle forme dello spazio e del tempo, mentre l’altra è pure soggetto di intuizione, ma di un’intuizione che non accoglie il molteplice, ma l’unità soltanto.

Ora, anche la posizione di Bergson offre premesse adeguate da un lato a ridare il problema nei medesimi termini costitutivi, dall’altro a vagliare la soluzione trattane come unilaterale e troppo uniformata al procedimento in base al quale si son posti i termini stessi, giacché come l’analisi dei termini ha offerto la questione, così da un procedimento deduttivo, cioè ancora analitico, si è - 101 -giunti al chiarimento: la insufficienza della soluzione e la particolare portata delle sue conseguenze, portata tale da renderle inaccettabili, testimoniano di un vizio inerente al processo e derivato da ciò, che in un unico atto logico coincidono la genesi e la dichiarazione dell’incognita. Perché fare dell’autocoscienza un semplice grado dell’intendimento, vale a dire della coscienza ordinata alla conoscenza, sia pure anche il sommo, significa ridurne la natura all’essenza e alle funzioni di tutti gli altri e comporta l’eliminazione dell’ultima via che può aprirsi nella circolarità statica che l’assunzione critica impone. La revisione, quindi, se vuole condurre a un superamento, deve di necessità essere condotta meno sulle forme in cui si è concretizzata la soluzione, che sul procedimento adottato per giungervi. Si tratta ancora di metodica, ossia della postazione dei quesiti ultimi cui un criticismo non può non por capo quando pretende di divenire un’indagine che nega alla propria natura una qualsiasi limitazione intrinseca, e delle presupposizioni atte a convalidare la pretesa e a coonestarla con le premesse. James si era accinto a rivedere Kant muovendo dal punto di arrivo, senza preoccuparsi del cammino percorso e dei mezzi assunti ad orientarne la direzione. Bergson, invece, riconosce l’inutilità di tale procedimento, che distacca una conclusione dai suoi antecedenti, limitandosi a negarla in sé, e vi sostituisce l’interrogativo nuovo, se, cioè, una volta riconosciute da una parte inaccettabili le conseguenze, dall’altra conformi le conseguenze ai presupposti dati, non occorra trasferire il ripudio da quelle a questi e ricondurre il vizio metodologico a un errato fondamento della concezione intera.

Insomma il termine della teoria gnoseologica di Kant è l’autocoscienza, che è condizione di ogni condizionante e che partecipa della natura funzionale e, quindi, sintetica di questo: con ciò si attua il congiungimento dei due bracci della morsa entro cui verrà racchiusa e confinata la coscienza, in una tragica autonomia; ma se questo termine, nella sua problematicità e, contemporaneamente, nella sua dichiarazione, viene dedotto per analisi dagli elementi puri che condizionano e consentono le operazioni sintetiche dell’intelletto, e se, al tempo stesso che non è dato accettare un processo risolutivo in cui tesi e soluzione coincidono, si è costretti a riconoscer- 102 -

 

l’ineluttabilità della coincidenza, si dovrà volgere lo sguardo proprio alle condizioni seconde e vedere se la concezione, corretta e modificata, della loro funzionalità non consenta di risalire a una ben diversa condizione assoluta originaria.

Per Kant l’intelletto, ossia la facoltà che assicura alla conoscenza l’universalità e la necessità, luogo a rappresentazioni sintetiche del molteplice, vale a dire a concetti di oggetti, rappresentazioni che, considerate nel loro contenuto trascendentale, vengon denominate concetti puri, in quanto consentono un’applicazione «a priori» alla pluralità sensoriale. Trascuriamo ora la deduzione dei concetti puri dal numero possibile dei giudizi e non occupiamoci del passaggio dall’intuizione all’intelletto. Ci limiteremo a considerare il concetto puro o categoria, non nella sua quantità o nella sua funzione specifica, ma rispetto all’operazione in genere, di cui non è che la norma.

Come, quindi, l’operazione sarà l’unificazione di un molteplice, cioè, se si vuol determinarne l’appartenenza a una facoltà ben precisa, la sua sintesi, così i concetti puri saranno i modi della sintesi. Ora, l’unificazione è una rappresentazione oggettiva, se considerata nei suoi risultati; ma in realtà è semplicemente un’attività; perché la rappresentazione dell’unità di un oggetto non può assolutamente precedere, ma deve di necessità susseguire all’atto che ne determina l’unità: ciò spiega con quale significato debba assumersi quel contenuto trascendentale che della rappresentazione fa una categoria. L’atto spontaneo e soggettivo determina l’unità, la quale a sua volta, come concetto, entra a lato della pluralità a costituente dell’unificazione. Ciò dato, è facile trarne una definizione fondamentale dell’atto di unificazione: questa è ciò il cui concetto non può esser dato senza i concetti della molteplicità e della sintesi di questa. Ma se la sintesi di una molteplicità non può esser data senza la presenza di una unità che investa la dispersione del molteplice, per crearvi in seno un ambiente di collegamento in generale entro il quale il molteplice si assoggetti alla sintesi, i concetti di sintesi e di molteplice risultano inadeguati a completare la rappresentazione dell’operazione unificatrice, la quale implica, quindi, anche il concetto dell’unità, presupposta dal molteplice e, a un tempo, dalla - 103 -

sua sintesi. E, ancora, una volta che si sia dimostrata la irriducibilità del concetto di unità da qualsivoglia altro concetto, resta acquisito che l’unificazione coinvolge l’unità, ma restandole subordinata come a condizione assoluta. Il molteplice, infatti, in quanto tale, è disperso ed eterogeneo: né i sensi, invero, né le forme dell’intuizione sensibile possono determinare l’unità, giacché in tal caso toglierebbero ragion d’essere alla sintesi e all’unificazione, con la conseguente soppressione dei relativi concetti e del concetto di unità da essi implicato. La sintesi, necessitando del molteplice e presupponendo l’atto dell’unificazione, rinvia anch’essa all’unificazione, la quale a sua volta – già lo si è dimostratonecessita dell’unità e la richiede come elemento a sé estraneo, non diversamente da come implica l’estraneità del molteplice. Né il molteplice di per sé, il quale, organizzato ed elaborato nella sintesi dell’oggetto, vien ridotto ad unità, né l’unificazione, che è la rappresentazione o, piuttosto, il contenuto trascendentale della rappresentazione dell’unità sintetica, danno tale unità, in quanto la presuppongono.

L’unità, quindi, è presupposta da quelli che partecipano alla sintesi, ma non ne è determinata: è una realtà autonoma che partecipa all’attività spontanea dell’intelletto e con ciò si differenzia essenzialmente dal molteplice che a questa attività si offre come oggetto inerte. Il sillogismo è palese: l’unificazione è un’operazione che, in quanto tale, richiede il termine di applicazione dell’atto, il modo dell’applicazione, il presupposto dell’applicazionevale a dire il molteplice, la sintesi, l’unità del molteplice nella sintesi. L’unità è contenuta, non data dall’unificazione. L’unità, quindi, è la condizione suprema di ogni opera intellettiva; irriducibile da questa; tale che, posta l’unificazione, non è dato prescindervi. Ma dedurre dall’unificazione, concetto puro, l’unità significa attribuire all’unità tutte le caratteristiche proprie dell’unificazione: la spontaneità, l’apriorità logica, la funzionalità di atto sintetico, in una parola la trascendentalità. L’unità non può esser altro che il concetto puro supremo e, assieme a tutti gli altri concetti puri che la presuppongono, in quanto presuppongono l’unificazione, si differenzia dai concetti che entrano nel giudizio: non avrà, perciò un contenuto - 104 -ma sarà anch’essa un modo, sia pure il più assoluto e necessario, dell’attività sintetica.

L’autocoscienza, cioè il momento del concretizzarsi dell’unità pura, è ridotta a categoria: dedotta dall’operazione generale, presupposta dalle singole categorie, si adegua ad esse, ne mutua la funzione e, di conseguenza, il limite; diviene fattore, non termine di conoscenza. È sì intuita, perché precede ogni pensiero, ma la sua intuizione resta priva di molteplicità, cosicché non potrà mai penetrare nell’intelletto, vale a dire nella conoscenza, come concetto di oggetto, fin che la sua intuizione non si arricchirà del molteplice. Ma l’intuizione ricca di molteplice è una ed una sola: quella soggetta alle forme spazio-temporali. L’una, la prima, consente la sintesi intellettiva come fattore attivo, l’altra, la seconda, come apporto di dato da elaborare. Perciò la coscienza potrà pensare, cioè conoscere se stessa, appercependosi e intuendosi al tempo stesso: ossia non appena fa di sé un oggetto, si riduce a fenomeno. La appercezione originaria, cioè l’unità sintetica del molteplice, non il molteplice di sé, cioè non si fa termine di conoscenza.

Una volta posta l’attività gnoseologica del soggetto e una volta giunti alla condizione assoluta attraverso una deduzione logica da tale attività, il risultato non poteva esser che questo: la condizione assoluta sarà di sua natura tale qual è la natura dell’attività gnoseologica. Il « principio dell’unità sintetica originaria dell’appercezione», giacché ad esso deve sottoporsi ogni intuizione, onde per la coscienza possa divenire oggetto, non potendo senza tale sintesi un molteplice unificarsi in un oggetto per la coscienza, verrà quindi denominatosecondo la terminologia kantiana - «la prima conoscenza pura dell’intelletto». La coscienza, perciò, non nella sua esistenza, ma nella sua funzionalità relazionale, resta subordinata alle esigenze della conoscenza, anche se per tali esigenze non si contravviene alle direttive del pensiero contemporaneo che l’ha posta alle fonti di ogni indagine.

Kant, s’intende, assunto l’ultimo elemento che sembrava estraniarsi al concatenamento dell’intero reale e trasformatolo nell’anello estremo di un processo di limitazione, ha soddisfatto al suo scopo, che è quello di porre la conoscenza su fondamenti di assoluta - 105 -universalità, senza tuttavia venir meno alle proprie presupposizioni metodologiche, di trattare, cioè, la conoscenza come un’attività di contemplazione, specifica del soggetto, e come un atto di spontaneità, cioè di indipendenza. Si potrebbe definire l’ultima sua deduzione dell’autocoscienza dalle categorie come il tentativo riuscito di dare sufficienza alla coscienza, in quanto pensiero atteggiato alla conoscenza. Ma questa sua estrema operazione speculativa prosegue e conduce al limite una scissione già intrinseca alle definizioni precedenti; il conoscere rigetta e ripudia definitivamente l’essere universale; la coscienza, con l’intuizione della propria esistenza, riunisce il molteplice fenomenico in un cerchio in cui l’essere non può penetrare, appunto perché non interessa l’equilibrio del sistema, capace di ritrovare la propria stabilità permanente nel sostegno esteriore di un essere, che però si manifesta soltanto come proposizione dell’esistere. Quando poi si renderà necessaria l’eliminazione della rottura, ci si ricondurrà ancora al cerchio, ma riducendo l’essere al conoscere con la coincidenza del reale dell’essere con il principio fondamentale autocosciente dell’esistere: la coscienza diviene sufficiente a sé, non più in quanto pensiero volto alla conoscenza, ma in quanto realtà dotata di essere.

Dal momento che, quindi, la circolarità completa della sfera della conoscenza, circolarità che è relativismo assoluto, ritrova la sua genesi nell’assunzione dell’autocoscienza sul piano d’indagine, soggetto alla metodica della trascendentalità, a Bergson non restano che due vie alle quali attenersi, per sottrarsi al rischio di essere trascinato all’unica meta per gli sviluppi da Kant.

In primo luogo, è necessario sottrarre l’intuizione originaria alle condizioni generale della conoscenza, servendosi di essa come dell’unico mezzo che si offre al superamento della separazione essere-conoscere, sia pur questo autocoscienza, ma mediante la coincidenza immediata dell’essere e del conoscere. All’intuizione dell’appercezione Kant aveva negato un qualsiasi passaggio alla conoscenza, come a quella che non offre una pluralità da sintetizzare ad oggetto del pensiero. Ne deriva da una parte che, se l’autocoscienza viene riguardata come fonte di conoscenza, lo deve essere per una - 106 -differenziazione di natura dalla forma che non può dare conoscenza se non in riferimento ad una molteplicità; dall’altra, che sorge il problema se la cognizione, che ha a proprio fondamento la molteplicità, non possa fare oggetto di conoscenza, coincidente con l’essere, la coscienza, perché l’appercezione intuitiva di questa è una conoscenza pura e agisce, per ciò stesso, come tutti i concetti puri di cui parla Kant, o se piuttosto non è proprio il fatto che il possesso che la coscienza  ha immediatamente di sé, offre qualcosa che non è né molteplicitàunità, a togliere al pensiero la capacità di inquadrarla entro i propri schemi senza farne una categoria o un fenomeno, cioè una molteplicità, se assunta in qualità di virtuale oggetto da ridursi a concetto, o un’unità, se eretta a fattore spontaneo di creazione di oggetti.

In secondo luogo, conviene considerare l’appercezione originaria di cui parla Kant, e nelle conseguenze che derivano dal suo essere una proposizione rigidamente deduttiva, e nei rapporti che di necessità intercorrono fra premesse e risultato, una volta che si sia riconosciuto che la deduzione è stata imposta dal rigore di un presupposto metodico, non dalle esigenze di dimostrare ossia di convalidare a posteriori ciò che poteva essere assunto soltanto come un apriori. Kant identifica l’unità sintetica originaria con l’«Io penso», non tanto per far intervenire nelle operazioni soggettive la coscienza da parte del soggetto di queste stesse operazioni, quanto per vera necessità, essendo tale coscienza l’unica e l’ultima categoria che nel mondo kantiano potesse essere chiamata ad adempiere le funzioni di grande e sostanziale unificatrice: in una sfera in cui quanto può darsi è già stato considerato e in cui non può assumersi null’altro che non si adegui alle sue condizioni contemplative e trascendentali, soltanto la coscienza del soggetto offre ancora qualcosa che dia concretezza e materia all’unità; e giacché nella coscienza stessa tutti i possibili fattori di una condizione di rapporto già sono stati assunti, vale a dire quanti precedentemente avevano costituito  oggetto di problematica, ad esclusione del senso immediato che la coscienza possiede di sé, si demanda a questo sentimento dell’identico esistenziale di sottendersi ad ogni eventuale sintesi, cioè alla conoscenza in generale. Ma se Kant è - 107 -[[Nel testo a stampa sono inserite a questo punto per errore pagine che devono essere inserite dopo. Vengono qui riportate in corsivo, e sono da espungere. Peraltro sono state reinserite da noi più avanti al punto giusto, alla pagina 115:

esistenza: l’esistenza in generale, al contrario, determina l’essenziale identità e, quindi, una pura differenza morfologica dei vari atti della cognizione. Ma se il pensiero è manifestazione di esistenza, non è difficile passare alla deduzione che questa si serva di quello e lo postuli ogniqualvolta pretenda attuarsi secondo la determinazione che, sostituita al pensiero, viene assunta come la più conseguente e, di conseguenza, la più alta di ciò che esiste.

Ora, gli effetti di un tale processo sono evidenti:

            a) In primo luogo,il pensiero non potrà dare la Determinazione dell’esistenza, non già perché sia costretto a modificare l’esistente e ad adattarlo al suo ambiente onde farne un proprio oggetto, bensì perché fra pensiero ed esistenza intercorrono rapporti di un mezzo a un fine; si pone certo una relazione fra l’uno e l’altra, quella però della parte al tutto. 

b) Qualora, inoltre, si riconosca che la Determinazione modella il pensiero come un proprio strumento, questo, che appare in sé sufficiente, svela la propria inadeguatezza, non appena al fatto della dipendenza si aggiunge il risultato dell’esame di quella: essendo essa non soltanto determinazione, ma condizione di esistenza, e postulando un punto di applicazione, che non potrà essere ciò che è risultato ridursi a suo strumento, il pensiero coi suoi modi e le sue forme risulta incapace di definire l’essere, non solo perché riduce l’essere a un pensato - in tal caso, infatti, il pensato, in quanto pensato, delimitando se stesso, non consentirebbe né l’accenno a una conformità o meno all’essere, ma neppure l’esistenza di un essere che non sia pensiero -, ma soprattutto perché la Determinazione esige un essere cui applicarsi, sì che l’esistere viene a interporsi fra la conoscenza e la realtà, essendo la conoscenza una determinazione dell’esistente, la quale tuttavia deve adattarsi alla sua struttura strumentale.

c) Ora poi, da un lato il rapporto, così definito, fra cognizione ed esistenza chiarisce, giustificandola, l’impossibilità di adeguazione fra il pensiero e l’essere, dall’altro consente di annullare l’insufficienza, attraverso il superamento dei limiti della coscienza

  ……………      - 108 -riflessa, superamento che Kant nega per coerenza alle presupposizioni intolleranti di differenti deduzioni, e che non è se non metafisica. Infatti la valutazione critica dell’atto cognitivo impone tale squilibrio nel sistema, che le condizioni dell’attività spontanea della coscienza non possono non far capo a un fondamento assoluto, o che tale fondamento soddisfi alla necessità di mediare fra i modi dell’atto e le rappresentazioni che all’atto si offrono, consentendo di conseguenza l’operazione, o che voglia invece erigersi a ragione prima della conoscenza come spontaneità, introducendo quindi il concetto di esistenza di un reale cui la cognizione si applica, e giustificando il dissesto imposto immediatamente dall’affermazione relativistica. Il criterio deduttivo, dal quale ci si è di necessità lasciati guidare nel primo caso, fa del fondamento una pura condizione delle condizioni; ma, nel secondo essendosi identificata la ragione prima con la Determinazione, onde adattarla alle necessità di una coscienza, che si come condizionata, ed essendosi ad essa giunti per via induttiva, si è distinta nettamente la spontaneità della cognizione da quella che ne rappresenta la norma condizionante: questa è una determinazione dell’essere, quella è una determinazione del conoscere; la prima invero condiziona la seconda, ma in modo tale  da risultarne eterogenea e , di conseguenza, da consentire una conoscenza priva di alcuna determinazione, ogniqualvolta si riesca a sottrarre l’essere della coscienza dalle imposizioni della sua esistenza, cioè dalla Determinazione che la riduce a pensiero.

Questa Determinazione, dunque, è estranea alla coscienza, in quanto pensiero; non è autocoscienza, perché questo termine coinvolge sempre una cognizione e quindi appartiene alla sfera del pensiero, sia che si voglia limitare questo a un semplice sentimento di esistenza, sia che lo si voglia assumere nel suo quadro totale di conoscenza riflessa e con ciò lo si riduca a una molteplicità fenomenica. Bergson pone a fondamento della possibilità gnoseologica un’aderenza immediata al reale, la quale si rende attuale in virtù di un modo dell’esistenza: la presupposizione di un’autocoscienza, sottesa o all’attività dell’intelletto in particolare o a tutta la vita del pensiero in generale, viene respinta in quanto la coscienza pensante è una modificazione che l’essere provoca in sé sotto l’influsso - 109 -di un modo cui non può sottrarsi, perché l’essere, in quanto tale, partecipa dell’esistere. Questo, o meglio una sua Determinazione, non il pensiero, definisce l’essere, risolvendolo «anche» in coscienza.

Per la verità, lo sforzo compiuto da Bergson al fine di allacciare le incognite del reale alla definizione dell’atto cognitivo appare in un primo tempo destinato al successo in grazia appunto del fatto che si tratta questo come un sistema incapace di ritrovare unicamente in se stesso gli elementi del proprio equilibrio e, con ciò stesso, vincolato all’essere totale. Si riconosce da una parte che, qualora se ne faccia un aspetto del pensiero puro, questo diviene non più solo uno fra i dati dell’esistente, ma un essere assoluto, entro i cui confini la conoscenza deve ricercare le leggi e le condizioni che determinano meno la sua essenza che la sua esistenza; dall’altra, che, dato il legame che vincola l’uno all’altro il pensiero cosciente al fatto del conoscere, quando si voglia condizionare la conoscenza ad una determinante di esistenza che non abbia nulla che fare con il pensiero, si è condotti a subordinare l’intera coscienza riflessa, negandole l’assolutezza dell’essere, o, se si vuole, la capacità di adeguare l’assolutezza dell’essere.

Nel primo caso, poiché l’essere non può fondarsi indipendentemente dall’esistere, e poiché solo il pensiero viene assunto come presente alla coscienza, esistenza e pensiero si determinano l’uno l’altro, si condizionano reciprocamente in una proposizione che incide fino a tal punto sulla teoria del conoscere, da consentire unicamente due conclusioni: o la si assume immediatamente come l’unica che dia i requisiti dell’universale e dell’assoluto, e allora, se non si vuol costringere se stessi a dedurre dal fondamento soggettivistico la soggettività della conoscenza, si deve introdurre nel cerchio del pensiero un fattore cui si deve attribuire la medesima universalità e assolutezza senza derivarle dall’immediatezza richiesta da tali qualità; oppure, unicamente preoccupati del conoscere nella sua problematica funzionale, si fa un universale ed assoluto della cognizione, e, in virtù di una presupposta coincidenza dei concetti di universale ed assoluto con quello di autosufficiente, si pone l’autosufficienza, facendo capo come a limite estremo alla - 110 -medesima proposizione ed affidando ad altra indagine la problematica dell’adeguazione dell’atto cognitivo, come realtà di rapporto. Sia nell’una che nell’altra posizione risulta un relativismo gnoseologico, che l’appello ad una esistenza di ordine superiore non è sufficiente ad elidere e che appunto nella condizione essenziale dell’autocoscienza deve ricercare la propria genesi.

Nel secondo caso, invece, scissi l’uno dall’altra pensiero ed esistenza, o piuttosto ricercati i presupposti fondamentali dell’esistenza in ciò che, lungi dall’essere pensiero, esplica l’esistenza del pensiero stesso, l’autocoscienza non potrà più intervenire come condizione suprema del conoscere o come sua presupposizione. Infatti, si riconduca pure ancora la conoscenza al pensiero, si faccia  di quella una determinazione di questo: se il pensiero riflesso non è in grado di offrire la propria esistenza in quanto pensiero, ma può darla solo come determinazione particolare dell’esistenza in generale, essendo la cognizione vincolata al pensiero e, quindi, soggetta alle medesime condizioni, e negandosi all’autocoscienza quella reciproca determinazione fra esistenza e pensiero, il conoscere non potrà sostenersi su ciò che è soltanto relativo e che riceve validità solo se riferito a se stesso, a un se stesso che non si unico, ma fra altri elementi; e dovrà ricercare la propria condizione assoluta oltre la sfera del cosciente riflesso, di cui l’autocoscienza è l’espressione distintiva. Con ciò si pone il problema della realtà di un essere di ordine alogico e della ricerca dello strumento atto a darlo, cioè delle possibilità che la filosofia possiede di raggiungere l’essere, una volta che si dichiari il pensiero manifestazione delle condizioni di esistenza dell’essere e si descrivano tali condizioni, presupponendole nella loro realtà assoluta.

Da tutte queste considerazioni ci viene quindi offerto il mezzo di ravvisare nella dottrina di Bergson un tentativo di scostarsi dalla traiettoria naturale che forze virtuali hanno impresso al pensiero tradizionale, nulla di più tuttavia che un tentativo, perché in definitiva si procede lungo una delle infinite tangenti di quella curva le cui origini si continua in certo modo ad accettare. Ma di ciò più oltre. Per rendersi appunto conto di questa filiazione, non credo che sia inutile richiamare, prima di chiudere questa trattazione, uno fra ]]

  ……………  - 111 -indotto, quasi trascinato dal suo stesso ordine progressivo, a fondare l’autocoscienza e a sovraordinarla nella scala gerarchica dei fatti puri, nella sua stessa «ragione» deve ricercarsi la fonte della inaccettabilità delle conclusioni.

E, di fatto, non tutto è dato alla coscienza: per la verità, quando essa conosce, agisce spontaneamente, ma qualcosa si sottrae alla sua spontaneità, sì che questa si riduce alla libertà di ordinare, di disporre, di relazionare, di manipolare, infine, coi suoi mezzi e nei suoi modi ciò che le si offre e su cui non ha libertà alcuna, se non ancora quella di ordinamento. L’intuizione è recettività, cioè capacità di ricevere e quindi di subire; la forma dell’intuizione è attualità di coordinamento secondo determinati rapporti, è, cioè, modalità di recezione: il molteplice, quindi, si impone e sovrappone alla coscienza, sia quando intuisce sia quando concepisce; e nell’uno e nell’altro caso la conoscenza è ancora dipendenza da ciò che è estraneo alla coscienza. Onde si crea uno squilibrio che deve ricevere compenso da un’ulteriore dipendenza da ciò che la coscienza possiede con immediatezza. Un residuo di estraneità, che nessuna delle proposizioni gnoseologiche giustifica, ma che tutte queste proposizioni accettano, turba la coerenza della metodologia, e con ciò, di fronte all’esigenza di giustificarlo, non resterà che contravvenire ai propri presupposti. La molteplicità precede il pensiero ed è indipendente da esso: il principio generale, che erige la cognizione ad attività di soggetto, resta limitato all’applicazione dell’attività al fenomeno, trova una limitazione del fenomeno stesso, che non già è frutto di una disposizione attivistica, ma di un semplice imposizione di quel che non si può non ricevere.

Dunque, Bergson raccoglie il presupposto di un’attività come condizionante la conoscenza, ma nell’urto contro il molteplice, impernia tutto il relativismo gnoseologico su di esso, in modo tale che fra pluralità e coscienza non si ponga indipendenza, ma subordinazione e condizionamento della prima alla seconda: il pensiero stesso crea la molteplicità, in quanto forma dell’esistente inquadrato nella cognizione; nulla di ciò che trova in sé gli è indipendente, non rispetto all’esistenza, ma al modo della conoscenza; nulla lo precede, ma tutto gli si subordina. Il criterio trascendentale, che - 112 -in Kant sembrava essere limitato all’unica determinazione della forma, della grandezza e delle reciproche relazioni, è esso stesso attività, cioè creatività del molteplice.

Kant non riesce a liberarsi completamente dai residui del razionalismo, e, perciò, stabilisce una differenza di natura fra il dato  intuitivo e il dato intellettivo – l’uno  essendo recettivo, l’altro spontaneo -, ossia fra oggetto dei sensi e oggetto di ragione.

Bergson, in quanto coglie come indice della soggettività, o limitazione alla coscienza della cognizione, appunto la molteplicità, stabilendo tutto il dato conosciuto in funzione della maniera conoscente, riduce ad unico denominatore i gradi gnoseologici e fissa una semplice differenza di grado fra percezione e concetto, essendo l’uno e l’altro pluralità distinta e giustapposta ed entrambi ordinati ad una funzione di attività, che sola costituisce la conoscenza. La forma che in sé accoglie la molteplicità e la ordina secondo i criteri della reciproca relazione e della quantità, al tempo stesso che le una disposizione, la modifica, la elabora, la impronta, dandole il suo carattere di molteplicità. L’intuizione, quindi, scompare come facoltà di recezione, per rimanere con la sua funzione di attività spontanea, di creatività liberalibera, s’intende nei riguardi della sfera gnoseologica. L’intelletto, d’altra parte, in quanto sede di concetti, accoglie la molteplicità, ma come fattore non diverso da quelli che esso stesso elaborerà. Venuta meno, di conseguenza, l’eterogeneità funzionale, in virtù di una omogeneità di elaborazione si stabilisce, nell’ambito della coscienza che conosce, una unità la quale consente un unico trattamento dell’intero problema. Infatti, l’attività gnoseologica non crea una sfera che racchiude in sé tutto il dato dell’esistente, per due motivi: anzitutto, se la conoscenza, attraverso la forma che la consente, crea la molteplicità, non si riduce a qualcosa che è fine a se stesso e non resta in sé chiusa e perfetta: determinare, infatti, secondo una molteplicità significa subordinare alle proprie condizioni qualcosa che non è molteplicità, in quanto la riduzione a molteplicità presuppone la presenza di un esistente - e di questo esistente non ci preoccupiamo, ora, di stabilire l’estraneità o meno alla sfera che lo elabora come molteplice - di cui la riducibilità attesta la realtà amolteplice, come suo opposto; - 113 -d’altra parte, se la spontaneità cognitiva luogo a un molteplice che è riduzione da un reale eterogeneo alla molteplicità, conviene giustificare tale attività, nel senso cioè che occorre stabilire la giustificazione della relazione fra l’uno e l’altro reale, mediante la presenza del fattore che sottende la traduzione del reale nel molteplice. Kant, pur nella pretesa di rendere autosufficiente la ragione, appunto perché conserva una eterogeneità funzionale alle facoltà  della cognizione, ha lasciato penetrare un elemento di estraneità nella coscienza, o meglio ha eretto uno dei fatti coscienti a fattore ingiustificato, cosicché si pone automaticamente il problema del rapporto fra le due differenti facoltà.

In Bergson, al contrario, la coscienza è veramente sufficiente a sé per la cognizione, almeno fin che ci manteniamo entro i limiti della realtà che è sua, ed il problema della giustificazione del rapporto sorge soltanto quando si pone l’esigenza del rapporto stesso, quando, cioè, si riconosce nella posizione relativistica una scissione fra l’essere e il conoscere, rottura che l’assoluta autonomia della coscienza, cioè il suo assoluto distacco dal reale, consente di superare per tutt’altra via e con tutt’altri risultati. Perché – si noti – nel pensatore francese è vivo il sentimento della soggettività della conoscenza e della conseguente relegazione dell’essere in un mondo extra-soggettivo di cui l’uomo, però, non può non far parte, essendo e l’uno e l’altro dotati dell’esistenza. Che anzi chi voglia approfondire le ragioni per cui in Bergson non si può definire la cognizione, senza aver prima compreso le esigenze poste dall’esistere, occorre muova da questo: l’esistere determina il conoscere, l’esistenza impone la conoscenza e la giustifica soltanto perché la subordina a sé come a scopo essenziale. Anche nel criticismo kantiano l’esistenza della coscienza determina la cognizione, ma solo in quanto quell’unità dell’«Io penso» è l’intuizione, non la determinazione di una esistenza. La proposizione dell’«Io sono», che si era riconosciuta intimamente connessa a quella dell’ «Io penso», rivela subito la sua funzione esclusivamente esistenziale, non appena si riconosca l’incompatibilità di una rivelazione dell’essere a causa della dipendenza da un pensare che non adegua l’essere. Ma pur restava potente in essa la dimostrazione di una unificazione - 114 -di essere e di esistere nell’«Io sono» e, accanto ad essa, l’impossibilità di derivarli l’uno dall’altro.

Il filosofo tedesco si trova dinanzi ad una diversità essenziale fra il conoscere per sensazione e il conoscere per intelletto: la passività ordinatrice della coscienza, che intuisce e perciò accetta un molteplice senz’altra preoccupazione se non di farlo rientrare in quello la cui mancanza impedirebbe al molteplice di divenir cosciente, è per sua natura in opposizione con l’attività unificatrice della coscienza che pensa organizzando la pluralità sparsa e disordinata in concetti, e che, di conseguenza, deve ritrovare nel molteplice una coerenza, che il senso di questo pensiero unicamente può darle. Pel fatto stesso che si pensa, si sa immediatamente di pensare, cioè si sa di esistere come pensiero, perché il pensiero non può darsi che la propria esistenza, la quale si inserisce fra il molteplice e le categorie, riconoscendo alla propria unità – e, quindi, alla propria identità – il possesso dell’una e delle altre. Ma Bergson non ha da inserire nulla fra la sensazione e il concetto: la coscienza percepisce in maniera per nulla diversa da come pensa, e le ragioni per cui le è consentita una percezione son le medesime per cui riesce a costruire un concetto. Essa sa di esistere, ma tale intuizione le proviene dal pensiero e al tempo stesso dal sentire: una identica determinazione di conoscenza sottende un unico atteggiamento della coscienza, sia quando è intelligenza sia quando è percezione; questo, perché la conoscenza non esige per attuarsi il senso dell’esistere, così come l’esistere non richiede per sentirsi di conoscere. Kant ha introdotto l’intuizione dell’esistere perché deduceva l’esistere dal pensare: la coscienza esiste perché pensa, e il pensiero diviene la più alta manifestazione dell’esistere.

 Ma si capovolgano i termini e ci si proponga la questione se il pensiero non sia essenzialmente una funzione dell’esistere e, anziché imporne, non si sottoponga alle condizioni di questo. Il pensiero, allora, o la cognizione divengono una determinazione fra le tante di un esistente, e la coscienza per pensare necessita di esistere, ma non di sentire di esistere, così come non ricorre all’intuizione esistenziale quando in lei si danno le percezioni. La differenza di natura fra i gradi della ragione impone l’intuizione della propria

 

[[si riporta di seguito in corsivo la parte del testo a stampa inserita per errore di impaginazione precedentemente alle pagine  107-110, e da inserire invece correttamente a questo punto. Minime varianti sono dovute al fatto che per questa parte si è risaliti al testo dattiloscritto.

esistenza: l’esistenza in generale, al contrario, determina l’essenziale identità e quindi una pura differenza morfologica nei vari atti della cognizione. Ma se il pensiero è manifestazione di esistenza, non è difficile passare alla deduzione che questa si serva di quello e lo postuli ogniqualvolta pretenda attuarsi secondo la determinazione che, sostituita al pensiero, viene assunta come la più conseguente e quindi la più alta di ciò che esiste.

 

            Ora, le conseguenze di tale processo sono evidenti:

a) In primo luogo il pensiero non potrà dare la Determinazione dell’esistenza, non già perché sia costretto a modificare l’esistente e ad adattarlo al suo ambiente, onde farne un proprio oggetto, bensì perché fra quello e questa intercorrono rapporti di un mezzo a un fine; si pone certo una relazione fra l’uno e l’altra, quella però della parte al tutto.

b) Qualora inoltre si riconosca che la Determinazione determina il pensiero come un proprio strumento, questo, che appare in sé sufficiente, svela la propria inadeguatezza, non appena al fatto della dipendenza si aggiunga il risultato dell’esame di quella: essendo essa non soltanto determinazione, ma condizione di esistenza, e postulando un punto di applicazione, che non potrà essere ciò che è risultato ridursi a suo strumento, il pensiero coi suoi modi e le sue forme, risulta incapace di definire l’essere, non solo perché riduce l’essere a un pensato - in tal caso, infatti il pensato, in quanto pensato, delimitando se stesso, non consentirebbe né l’accenno a una conformità o meno all’essere, ma neppure una esistenza di un essere che non sia pensiero – ma soprattutto perché la Determinazione esige un essere cui applicarsi, sì che l’esistere viene a interporsi fra la conoscenza e la realtà, essendo la conoscenza una determinazione dell’esistente, la quale tuttavia deve adattarsi alla sua struttura strumentale.

c) Ora poi, da un lato il rapporto, così definito, fra cognizione ed esistenza chiarisce, giustificandola, l’impossibilità di adeguazione fra il pensiero e l’essere, dall’altro consente di annullare l’insufficienza, attraverso il superamento dei limiti della coscienza riflessa, superamento che Kant nega per coerenza alle presupposizioni intolleranti di differenti deduzioni e che non è se non metafisica. Infatti la valutazione critica dell’atto cognitivo impone tale squilibrio nel sistema, che le condizioni dell’attività spontanea della coscienza non possono non far capo a un fondamento assoluto, o che tale fondamento soddisfi alla necessità di mediare fra i modi dell’atto e le rappresentazioni che all’atto si offrono, consentendo di conseguenza l’operazione, o che voglia invece erigersi a ragione prima della conoscenza come spontaneità, introducendo quindi il concetto di esistenza di un reale cui la cognizione si applica e giustificando il dissesto, imposto immediatamente dall’affermazione relativistica. Il criterio deduttivo, dal quale ci si  è di necessità lasciati guidare nel primo caso, fa del fondamento una pura condizione delle condizioni: ma, nel secondo, avendo identificato la ragione prima con la Determinazione, onde adattarla alle necessità di una coscienza, che si come condizionata, ed essendo ad essa giunti per via induttiva, si è distinta nettamente la spontaneità della cognizione da quella che ne rappresenta la norma condizionante: questa è una determinazione dell’essere, quella è una determinazione del conoscere; la prima invero condiziona la seconda, ma in modo tale da risultarne eterogenea e conseguentemente da consentire una conoscenza priva di alcuna determinazione, ogniqualvolta si riesca a sottrarre l’essere della coscienza dalle imposizioni della sua esistenza, cioè dalla Determinazione che la riduce a pensiero.

Questa Determinazione, dunque, è estranea alla coscienza, in quanto pensiero, non è autocoscienza, perché questo termine coinvolge sempre una cognizione e quindi appartiene alla sfera del pensiero, sia che si voglia limitarlo a un semplice sentimento di esistenza, sia che lo si assuma nel suo quadro totale di conoscenza riflessa e con ciò lo si riduca a molteplicità fenomenica. Bergson pone a fondamento della possibilità gnoseologica un’aderenza immediata al reale, la quale si rende attuale in virtù di un modo dell’esistenza: la presupposizione di un’autocoscienza, sottesa o all’attività dell’intelletto in particolare o a tutta la vita del pensiero in generale, viene respinta in quanto la coscienza pensante è una modificazione che l’essere in sé provoca sotto l’influsso d’un modo cui non può sottrarsi, perché l’essere in quanto tale partecipa dell’esistere. Questo, o meglio una sua Determinazione, non il pensiero, definisce l’essere, risolvendolo “anche” in coscienza.

 

Per la verità, lo sforzo, compiuto da Bergson, al fine di allacciare le incognite del reale alla definizione dell’atto cognitivo, appare in un primo tempo destinato al successo in grazia appunto del fatto che si tratta questo come un sistema incapace di ritrovare unicamente in se stesso gli elementi del proprio equilibrio e con ciò stesso vincolato all’essere totale. Si riconosce da una parte, che, qualora se ne faccia un aspetto del pensiero puro, questo diviene non più solo uno fra i dati dell’esistente, ma un essere assoluto, entro i cui confini la conoscenza deve ricercare le leggi e le condizioni, che determinano meno la sua essenza che la sua esistenza; dall’altra, che, dato il legame che vincola l’uno all’altro il pensiero cosciente al fatto del conoscere, quando si voglia condizionare la conoscenza ad una determinante di esistenza, che non abbia nulla a che fare col pensiero, si è condotti a subordinare l’intera coscienza riflessa, negandole l’assolutezza dell’essere.

Nel primo caso, poiché l’essere non può fondarsi indipendentemente dall’esistere, e poiché solo il pensiero viene assunto come presente alla coscienza, esistenza e pensiero si determinano l’un l’altro, si condizionano reciprocamente in una proposizione che incide fino a tal punto sulla teoria del conoscere, da consentire unicamente due conclusioni: o la si assume immediatamente come l’unica che dia i requisiti dell’universale e dell’assoluto, e allora, se non ci si vuol costringere a dedurre dal fondamento soggettivistico la soggettività della conoscenza, si deve introdurre nel cerchio del pensiero un fattore cui si attribuisce la medesima universalità e assolutezza senza derivarle dalla immediatezza richiesta da tali qualità; oppure, unicamente preoccupati del conoscere nella sua problematica funzionale, si fa un universale ed assoluto della cognizione e, in virtù di una presupposta coincidenza dei concetti di universale e di assoluto con quello di autosufficiente, si pone l’autosufficienza, facendo capo come a limite estremo alla medesima proposizione, ed affidando ad altra indagine la problematica dell’adeguazione dell’atto cognitivo, come realtà di rapporto. Sia nell’una che nell’altra posizione risulta un relativismo gnoseologico, che l’appello ad una esistenza di ordine superiore non è sufficiente ad elidere e che appunto nella condizione essenziale dell’autocoscienza deve ricercare la propria genesi.

Nel secondo caso, invece, scissi l’uno dall’altra pensiero ed esistenza, o piuttosto ricercati i presupposti fondamentali dell’esistenza in ciò che, lungi dall’essere pensiero, esplica l’esistenza del pensiero stesso, l’autocoscienza non potrà più intervenire come condizione suprema del conoscere o come sua presupposizione. Infatti, si riconduca pure ancora la conoscenza al pensiero, si faccia di quella una determinazione di questo: se il pensiero riflesso non è in grado di offrire la propria esistenza in quanto pensiero, ma può darla solo come determinazione particolare dell’esistenza in generale, essendo la cognizione vincolata al pensiero e quindi soggetta alle medesime condizioni, e negandosi all’autocoscienza quella reciproca determinazione fra esistenza e pensiero, il conoscere non potrà sostenersi su ciò che è soltanto relativo e che riceve validità solo se riferito a se stesso, a un se stesso che non si unico, ma fra altri elementi, e dovrà ricercare la propria condizione assoluta oltre la sfera del cosciente riflesso di cui l’autocoscienza è l’espressione distintiva. Con ciò si pone il problema della realtà di un essere di ordine alogico e della ricerca dello strumento atto a darlo, cioè delle possibilità che la filosofia possiede di raggiungere l’essere, una volta che si dichiari il pensiero manifestazione delle condizioni di esistenza dell’essere e si descrivano tali condizioni, presupponendole nella loro realtà assoluta.

 Da tutte queste considerazioni ci viene quindi offerto il mezzo di ravvisare nella dottrina di Bergson un tentativo di scostarsi dalla traiettoria naturale che forze virtuali hanno impresso al pensiero tradizionale, nulla di più tuttavia che un tentativo, perché in definitiva si procede lungo una delle infinite tangenti di quella curva le cui origini si continuano in certo modo ad accettare. Ma di ciò più oltre.

Prima di chiudere questa trattazione, vogliamo richiamare uno fra]]- 115 -i primi pensatori moderni, che, quasi accecato da quella che gli era sembrata unna conquista innovatrice, l’aveva assunta come fondamentale e aveva con ciò gettato il seme dei tormenti e degli estremismi dei suoi eredi. Quando Descartes detta il primo dei suoi precetti logici, di non accettar nulla per vero senza averlo prima riconosciuto tale per la sua evidenza, enuncia in sintesi la struttura del suo pensiero, in quanto da un lato ogni verità per sé evidente può essere assunta come un principio, cioè come un fondamento di ogni conoscenza, conosciuto senza il sussidio di null’altro e senza cui nulla può venir conosciuto, dall’altro il limitare l’accettazione significa rigettare tutto ciò che non presenta il requisito necessario: e non si può rifiutare senza un mezzo, un’arma che tolga validità, e senza una facoltà atta a riconoscere e a giudicare ciò su cui l’arma può esercitare il potere. Il criterio metodico, poi, racchiude in nuce le medesime osservazioni: non si può dubitare se non si dichiarino esistenti il dubbio e il potere d’assenso, ma si rischia di ridurre il dubbio a conclusione limite, se non si presuppone, prima ancora di servirsi del dubbio, che esista qualcosa su cui il dubbio non può aver presa dinanzi a cui esso fa la parte di semplice strumento di ricerca, non essendo allora altro la filosofia anzitutto che la ricerca di ciò che è alieno di per sé da ogni dubbio, poi la deduzione di tutto il reale da quel che è risultato indubitabile. Perciò il dubbio è criterio di metodica: e con ciò non diciamo nulla di nuovo; ma, ancora, è già frutto di premesso razionalismo, senza la cui presupposizione decadrebbe dal suo ruolo di norma logica.

            Non si riesce ad afferrare la normatività del dubbio e a comprendere come da una sua metodica applicazione al contenuto della coscienza si passi alla cosiddetta «retta percezione delle cose», se non dopo essersi convinti che al dubbio è sotteso un tale potere di illuminazione, da far risultare inutili i vari tentativi o processi che il pensiero può condurre onde giustificare il motivo per cui su un dato oggetto si esercita la dubitazione. Non è un procedimento logico ben definito che vien preso a punto di paragone, per gettare ogni contenuto e ridurre la coscienza ai suoi principi evidenti: il ragionamento non serve; ciò che vale è la possibilità di dubitare. - 116 -Ma il fatto che il dubbio è uno strumento, che alla sua luce possa emettersi un giudizio e che, di conseguenza, si limitino le sue funzioni a una mera mediazione, chiarisce come, al tempo stesso che ci si serve in così ben precisa maniera di esso, qualcosa sfugga al dubbio stesso: la ragione che deve negare o concedere l’assenso. Il dubbio richiede ante rem non solo l’attività dubitante, ma quel che si piega sul dubbio e ne raccoglie i risultati. Accogliendo come norma il dubbio, il pensiero limita già l’esistenza e il criterio di valutazione dell’esistenza a se stesso, più di quanto non faccia con il «Cogito»: un razionalismo e un soggettivismo sono immediatamente impliciti nel dubbio elevato a criterio, cui in seguito subentrerà la proposizione che dona la massima evidenza al sentimento che la coscienza possiede in ciascuno dei suoi atti, in virtù del secondo postulato, sotteso alla metodica, per cui il dubbio sistematico trae seco, quasi in qualità di premessa, l’esistenza di atti che si sottraggono ad ogni dubitazione. Il fatto che il dubbio sia meno una posizione speculativa, che un semplice fattore, anche se il fondamentale, di una filosofia ad indirizzo critico, dimostrerebbe non tanto che si deve, secondo logica, giungere a qualcosa di necessariamente indubitabile, ma piuttosto che già il dubbio sottrae sé a se stesso, trasferendo poi, in un secondo tempo, le caratteristiche di realtà, vale a dire di esistenza, che gli sono proprie, alla facoltà che di lui si serve.

            Il binomio dubbio-ragione si pone e, ponendosi, racchiude ciò che solo può essere oggetto di cognizione entro la propria circoscrizione: e se anche ulteriori presupposizioni, che dovevano fissarsi nei successivi tre punti programmatici, rivestono il sistema di un abito razionalistico, in quanto si accordano alla speculazione soltanto alcuni procedimenti logico-matematici, prescindendo da questa che è pura valutazione personale della realtà, resta acquisito che la coscienza d’ora in poi avrà la facoltà di darsi un oggetto e un oggetto soltanto, cioè se stessa. Che se poi dalla coscienza, che di sé fa la sola verità, si voglia passare alla proposizione che da un atto della coscienza ne deduce il senso dell’esistenza, l’autocoscienza appare allora sì come un atto immediato, frutto di una intuizione e non conclusione di un processo logico, ma presupposta in certo - 117 -modo dalla premessa critica da cui soltanto apparentemente doveva dedursi, non fa che rendere esplicito alcun po’ di ciò che vi era di implicito, e, dichiarata come il primo e il più assoluto dei principi di ragione evidenti, indirizza il movimento in un senso in cui il problema della conoscenza avrebbe dovuto cercare la propria soluzione al di fuori delle presupposizioni medesime, sottese alla metodica.

            Una volta, dunque, che si muova dal dubbio alla realtà, come da punto di partenza, e si pretenda di procedere dal dubbio alla realtà, l’indubitabile deve ricercarsi in seno al dubbio stesso: poiché al dubbio è inerente l’impossibilità di ripiegarsi su se stesso, ne deriva che esso offrirà un terreno su cui si eserciterà, per così dire, il privilegio del diritto d’asilo. Ma in quanto il dubitare è espressione di un’attività generale di cui costituisce un particolare stato, il reale sotteso al dubbio si trasferirà a tutto ciò che agisce conformemente all’atto della dubitazione: che se poi reale è sinonimo di esistenza, e azione, secondo il processo del dubitare, è pensiero, vale a dire coscienza, la coscienza e l’esistenza coincidono in totalità, nel senso che non può darsi la prima senza la seconda. L’«ergo» della proposizione dell’autocoscienza è, quindi, indice di una coincidenza, vale a dire di un dato immediato: implicando la sua negazione contraddizione, vien rigettato ogni passaggio logico di deduzione e il principio, come quello che non necessita di alcun ulteriore fondamento, può assumersi a primo principio.

            Ora, Cartesio non ha completo sentore di quel che significhi e comporti procedere speculativamente dall’autocoscienza: per la verità, è coerente a se stesso quando dal suo primo principio vuol dedurre tutte le conseguenze, ma queste non saranno per lui tutte le possibili, in quanto del «Cogito» si prende il valore rispetto all’ordine logico e gnoseologico, non il valore rispetto all’ordine metafisico.

            La morfologia della proposizione, infatti, sarà in grado di porgere, come dato mediato, una norma che potrà erigersi a secondo principio di una logica la cui applicazione condurrà a risultati tali da esigere che quanto era di sua natura sufficiente decada ad inadeguato, e che lo iato fra i dati, ricavati secondo il metodo del primo - 118 -principio, e i dati, impliciti formalmente in esso, venga colmato mediante l’introduzione di un fattore estraneo alla gnoseologia, onde stabilire la congruenza fra ciò che il «Cogito» non tollera e che viceversa l’applicazione della norma comporta, e ciò che il «Cogito» impone, ma che la norma applicata trascura. Si può in tal modo comprendere perché quell’autocoscienza, che già aveva fatto il suo ingresso nell’ambito della speculazione sia attraverso Agostino che attraverso Campanella, abbia in sé forza sufficiente ad apportare un capovolgimento di posizioni, qualora venga assunta a fondamento e non già ad elemento dell’universale concezione – il che non era dei due pensatori suddettisaprei affermare se da essi fosse stato più evitato che trascurato. In secondo luogo, da ciò si coglie che nell’autocoscienza, assunta a parte essenziale o meno, di un’indagine risolutiva del problema della conoscenza, sussistono motivi atti a convogliare il pensiero sia verso quella rivoluzione copernicana di cui Kant ha ritenuto essere il primo propugnatore, senza avvertire che il suo compito si riduceva a togliere i viluppi, orditi dalle pregiudiziali cartesiane, sia verso quell’immanenza assoluta che si schiude come a unico limite a chi, rigettando le interferenze tradizionali, attribuisca valore unicamente alle presupposizioni kantiane. Se nella proposizione dell’autocoscienza, la coscienza e l’esistenza coincidono, se cioè dove sia una coscienza – sotto qualsivoglia aspetto si dia a se stessa – non può separarsi la sensazione immediata della propria esistenza, non appena la proposizione si ponga come principio assoluto e supremo di certezza, come quello dalla cui validità tutti gli altri dovranno derivare la propria, riesce impossibile ampliare il concetto di esistente oltre i limiti di ciò  che si attua come cosciente.

            La coscienza è l’esistenza. Ricercare un elemento di sicurezza nel senso che la coscienza possiede della propria esistenza significa puramente riconoscere impossibile la negazione di esistenza a un fatto della coscienza; ma fare di quel senso l’unico fattore che noi possediamo per l’evidenza, per attribuire la realtà a qualcosa, significa  non solo limitare il pensiero a se stesso, ma circoscrivere l’esistenza al solo pensiero. Perché se nel «Cogito» ciò che pensa non può negare di essere, almeno come pensiero, nell’istante in cui - 119 -pensa, nella dichiarazione che fa del «Cogito» un criterio normativo, sotto uno qualunque dei modi o logico o gnoseologico, ciò che pensa è inetto a cogliere una qualsiasi esistenza che non sia pensiero. Allora la coscienza viene a coincidere con l’esistenza molto meno di quel che l’esistenza non debba identificarsi con la coscienza. Tanto Cartesio quanto Kant credono di ovviare, limitando la nozione di essere, che di necessità interviene nella proposizione dell’autocoscienza, alla sola accezione esistenziale, e con ciò suppongono di soffocare ogni sua portata metafisica, l’uno nella semplice normatività della logica, l’altro nella funzionalità del processo cognitivo. Ma tale tentativo è dimostrato vano e insussistente, non appena si debba riassumere il concetto di esistenza per servirsene in altre proposizioni in cui il cosciente non può far sentire la propria esistenza. Ciò non è difficile da dimostrarsi.

Infatti, se non si può non introdurre nell’unico termine di essere la duplice nozione di esistenza e di essenza, e se l’erezione a criterio dell’autocoscienza comporta una transitività di dipendenza fra coscienza ed esistenza, riuscirà impossibile attribuire esistenza a qualcosa d’altro dalla coscienza in nome di un’essenza - sia essa conoscibile ovvero inconoscibile – che non sia cosciente. Ci si ritiene in possesso di elementi sufficienti a scindere nel termine essere l’esistenza dall’essenza, e, poiché una essenza non può andare separata dalla propria esistenza, si suppone che basti parlare di una essenza non cosciente per affermare reale una esistenza non identificantesi con la coscienza. Ma perché ciò fosse evidente, sarebbe necessario che il concetto di esistenza potesse essere autonomo rispetto a quello di coscienza. Ma quando si assuma a fondamento assoluto di qualsiasi indagine il principio del «Cogito» o quelli che se ne possono derivare, ciò non è definibile in alcun modo, perché per parlare di una essenza extra-cosciente, occorrerebbe fornire argomenti per un essere la cui esistenza fosse di ordine non cosciente, cioè per una esistenza che non può darsi; l’essenza quindi non dovrebbe non esistere, il che ripugna, cioè pecca contro il principio di contraddizione.

             Assunto il «Cogito» a criterio, sia che si voglia stabilire l’essenza sia che ci si voglia ridurre a un relativismo, la conseguenza - 120 -è una sola e di ordine metafisico: nell’«è» essere ed esistere si identificano, come si identificano nel «Cogito» coscienza ed esistenza, stabilendo nel primo caso la realtà di tale cosciente, togliendo nell’altro caso all’esistere della coscienza la sufficienza a fondarne l’essere.

            Ma Cartesio non vuole accettare il«Cogito» in tutta la sua dignità metafisica. Dopo aver posto in rilievo la necessità e validità che accompagna ogni atto della coscienza, sì che ogni fatto non si può dichiarare reale se non nella misura in cui può dirsi inerente all’ordine dei fatti coscienti, si preoccupa meno degli effetti che delle condizioni, sottostando alle quali il «Cogito» presenta i suoi caratteri di dato immediato, cioè di dato certo ed evidente di per sé. La proposizione, quindi, si riduce a termine di confronto, a tipo delle eventuali altre che la coscienza può accettare come costitutive o rappresentative del reale: nulla più, perciò, di un atto particolare, dalla cui analisi si può passare alla definizione astratta generale di quelle caratteristiche che potranno rinvenirsi in altri atti derivanti la quantità dell’infinito dalla loro qualità del possibile. Dal piano della conoscenza ci si porta al piano della logica, trasferendo al secondo ciò che era apparso valido soltanto nel primo, senza appellarsi a nessun argomento che ne giustifichi il passaggio. Si è estratto dal dubbio ciò che non può tollerarne l’azione, e, colpiti dall’evidente immediatezza dell’acquisito, gli si riconosce il titolo di intuitivo, non avvertendo di trovarsi con ciò di fronte a un problema di conoscenza che non può ricondursi alla problematica in generale, ma che è già tale di per sé e richiede, di conseguenza, una soluzione propria: la quale soluzione soltanto in un secondo tempo potrà interessare l’intera questione gnoseologica, perché per ora resta circoscritta la particolare problema per cui è data. Ora, l’erigere il quesito dell’evidenza dell’autocoscienza a rappresentativo dell’incognito criterio della certezza universale, significaassumerlo sotto il punto di vista logico, ma comporta anzitutto che il problema venga posto sotto termini di relazione non già fra il criterio di realtà e quel contenuto che fa del «Cogito» un fatto particolare e privilegiato, bensì fra il medesimo criterio e quanto nel «Cogito» vi è di meno specifico ed essenziale. In altre - 121 -parole, Descartes abbandona ogni premessa ed ogni presupposto, ma nondimeno riesce a qualcosa se sa immediatamente della propria esistenza pel fatto che non può dubitare senza pensare. Ma del «Cogito» egli si interessa meno per sancire in una definizione il rapporto intercorrente fra questo possesso cognitivo – che non abbisogna di assenso – e i suoi termini – in virtù dei quali la coscienza si identifica con l’esistenza -, che per scoprire un criterio che leghi la forma del «Cogito» alla possibilità di una conoscenza in generale. A ciò si aggiunga che quella esaltazione di primo principio, per cui il pensiero, che conosce se stesso, non dubita di sé ed è certo della propria esistenza e conseguentemente della propria necessità e sufficienza, implica il trapasso da un semplice giudizio di esistenza a un giudizio di valore, in cui già è in sintesi il pensiero moderno sin nelle sue ultime conseguenze.

             Noi affermiamo che l’intuizione del «Cogito» era un acquisto nel puro campo della conoscenza e che nel fatto di non averlo assunto come tale nel suo contenuto, ma nella sua forma logica, è da ricercarsi lo squilibrio gnoseologico che si riassetterà in Descartes soltanto con l’appello alla trascendenza. E come è vano ricercare la sorgente del suo razionalismo nel puro «Cogito» della proposizione, non significando esso se non la generalità del contenuto di coscienza, piuttosto che nel pancriticismo, fondato sulla dubitazione, così è inesatto riferire gli elementi del suo cosiddetto realismo più all’impulso di non romperla con la tradizione che all’adesione ad una indeterminata formula: il rapporto, allora, fra questa e i dati di una metafisica dell’essere sarebbe stato giustificato solamente quando fosse stata soddisfatta l’opposizione della definizione dell’evidenza al valore del nuovo principio fondamentale. Il bisogno perciò di attribuire validità al primo e l’inesistenza di alcuna dimostrazione logica per la seconda, impongono l’interposizione del fattore teologico. Poiché, dunque, per lui il problema del conoscere ha da essere risolto prima del problema dell’esistere e poiché l’uno è stato posto in modo tale che l’altro non può ricevere che una sola soluzione possibile, si vedrà il dio cartesiano intervenire nella gnoseologia e nella metafisica e l’intera concezione rinviare via via - 122 -l’uscita dal dilemma al limite estremo in cui si erge insuperabile il dualismo delle sostanze. La progressione è evidente:

) La conoscenza, che è possesso della verità, non può offrire come dato immediato se non l’autocoscienza: la chiarezza e la distinzione, d’altra parte, sono argomenti di verità e quindi regola di cognizione. Il rapporto fra i due principi è tale che l’evidenza intuitiva dell’autocoscienza partecipa della verità in quanto chiara e distinta, ma non tutto ciò che appare chiaro e distinto può dirsi fornito della medesima evidenza intuitiva. Se si vogliono accettare entrambe le norme, ma a un tempo scinderle l’una dall’altra, onde il principio logico non si confonda con quello psicologico, si impone di sostituire l’evidenza immediata con la testimonianza divina, anche se limitata a dotare di realtà la chiarezza e la distinzione delle idee apprendibili come tali.

) L’applicazione della norma logica alle idee, rappresentative di un reale che col pensiero non sembra mantenere relazione alcuna di esistenza, vale a dire alle cosiddette idee avventizie, ha dato luogo ad elementi concettuali chiari e distinti, in virtù dei quali tale realtà nella sua essenza appare costituita di determinazioni intelligibiligrandezza, figura, moto, modi simili -. Ma non usciamo con ciò da quei confini che la proposizione dell’autocoscienza ha fissato attorno al pensiero: rinasce ancora il motivo idealistico. Affermare, infatti, che la conoscenza sensoriale dell’oggetto è esclusivamente relativa alla coscienza in cui si verifica e che solo l’atto cognitivo razionale può adeguarne la realtà, significa ancora una volta ricondurre tale realtà all’io la cui conoscenza è intuitiva e la cui facoltà essenziale, il pensiero, è l’unico certo ed indubitabile che l’uomo possiede. Quindi, sia negando validità all’immagine percettiva sia attribuendone alla rappresentazione del puro intelligibile, la conoscenza dell’oggetto permane soggettiva né viene risolta la questione della sua essenza: la questione della sua esistenzialità autonoma e della corrispondenza dell’esistente al pensato, in quanto richiede un processo dal pensare all’essere e dall’essere all’esistere, processo che tuttavia dovrebbe liberarsi da quella coincidenza del- 123 -pensare e dell’esistere che attuerebbe nell’essere in nome del primo principio, deve di necessità risalire a un fondamento teologico; la necessaria veracità intrinseca alla divinità si sostituisce anche qui all’esigenza immanentistica del «Cogito», coonestando la corrispondenza a un razionale di un reale la cui esistenza è indipendente dalla coscienza. La nozione di una essenza, che esiste di un’esistenza sufficiente a se stessa senza necessitare di alcun atto autocosciente, non è di natura razionale, non risponde cioè al criterio della norma logica e su di essa quindi potrebbe esercitarsi la dissoluzione del dubbio.

) L’elaborazione del «cogito, sum» prova la sufficienza del pensiero nei confronti della propria esistenza, il che, in termini di razionalismo, si esprime mediante l’attribuzione dei distintivi di chiarezza e distinzione. Non vi può essere sufficienza di esistenza se non dove è una entità o cosa che attraverso la manifestazione di un proprio attributo essenziale, quindi in certo modo mediante se stessa, fonda la propria realtà esistenziale: il pensiero, adeguando nell’intuizione originaria se stesso, si presenta come attributo di una res, che non sarà che res cogitans. D’altra parte le idee chiare e distinte della realtà corporea, partecipano della medesima sufficienza all’esistere, in virtù di un fondamento teologico che subentra in metafisica all’immediato psicologico. Applicando il medesimo criterio della metafisica dell’essere, si ottiene una seconda entità che manifesta i propri attributi nelle determinazioni intelligibili. Le due entità o sostanze, pel diverso fondamento di esistenza, non tollerano alcun reciproco rapporto: l’essenza dell’una coesiste all’essenza dell’altra in virtù della sufficienza di attributi, tali da rendere inconcepibile l’interdipendenza e gnoseologica e pragmatica. E qui il dilemma è perfetto: o l’ingerenza della divinità e il conseguente determinismo teologico oppure la salvaguardia del concetto di libertà e la dogmatica  mediazione della ghiandola pineale.

La gnoseologia di Descartes, dunque, non può non mettere capo alla divinità, appunto perché la nostra cognizione, considerata sia nella sua assolutezza che nella corrispondenza del concetto intelligibile ad un reale  razionalmente ordinato, necessita di una garanzia- 124 -che non possiede: di qui l’introduzione degli argomenti teologici. Ora, che cosa può ricavarsi dall’esperienza cartesiana, se non che la necessità di fondare la conoscenza su di un fattore alogico di trascendenza è in funzione dell’impossibilità intrinseca alla coscienza di fuoruscire da sé con i medesimi mezzi di cui si è valsa per riconoscersi, una volta che il pensiero pretenda di muovere da se stesso come dall’unica realtà assoluta? Si vuole che non si dia cognizione che non si fondi sull’autocoscienza? Allora delle due l’una: o la proposizione dell’«Io sono», riconosciuta intimamente connessa a quella dell’«Io penso», rivela tosto la sua funzione esclusivamente esistenziale, quando se ne riscontri incompatibile  la rivelazione dell’essere con la dipendenza da un pensare che non adegua l’essere; ovvero palesa una inscindibile unificazione di essere e di esistere nel pensiero e conseguentemente dimostra che la medesima unificazione si verifica altrove solamente a patto che, contraddicendosi, si pretenda ritrovare nella coscienza l’esistenza di un’entità che non è coscienza. Nell’uno e nell’altro caso il pensiero pone se stesso come dato che non può essere superato.

            Bergson, allorché nella sua opera dimostra di accettare la filosofia come la scienza delle nozioni di tutto il reale, il cui centro è un asse di rotazione identificantesi con una dottrina gnoseologica, si prefissa con ciò stesso una direttiva nella quale si debbono radunare gli sviluppi precedenti del pensiero: in primo luogo, non è lecito applicarsi all’esame della cognizione da una posizione che presupponga la conoscenza come rapporto di termini noti, ma si impone di assumere soltanto i dati che la coscienza possiede immediatamente; d’altra parte poi, dal momento che riesce difficile non attribuire all’atto della cognizione il carattere relazionale, l’evidenza dei soli fattori soggettivi si giustappone al concetto di relazione e lo corregge in quello di relatività. Come conseguenza della prima premessa si ha il soggettivismo gnoseologico, come superamento della seconda si ha la negazione di ogni conoscenza, nella sua autonomia di problema: giacché la conclusione relativistica, nonostante la perfetta organizzazione delle sue membra, non è in grado di giustificar se stessa, non resta che elidere il trascendentalismo mediante- 125 -una metafisica dell’immanenza, in cui la soggettività dell’essere si sovrapponga alla soggettività del conoscere.

            Ma quantunque – giàlo si è detto – anche Bergson si prefigga di dare soluzione al problema cognitivo muovendo da quelli che unicamente si danno come fattori noti, vale a dire dai dati della coscienza, nondimeno vengono poste presupposizioni tali che la trascendentalità e delle forme e degli oggetti, acquisiti tramite le forme, riesce sufficiente a spiegare non soltanto la relatività gnoseologica, ma anche la conoscenza medesima, come fatto di rapporto. In altri termini, se la coscienza si ripiega su di sé a cogliersi nell’atto in cui conosce, dovrà ammettere la propria autonomia di fronte al conosciuto, e nella sua natura e addirittura nella sua esistenza, ma non potrà confutare che, qualora l’autonomia risulti autosufficienza solo nei riguardi del termine da conoscere,  non già nei confronti dell’atto stesso del conoscere, si verificheranno condizioni atte da un lato a giustificarne la natura, dall’altro a superarne il relativismo. Che se poi appare evidente doversi raccogliere i dati della conoscenza sotto i due principi del molteplice e dell’unità, tanto il molteplice quanto l’unità parteciperanno alla relatività dell’acquisito, né sarà lecito estendere la loro azione  o meglio la loro facoltà di illuminazione oltre i limiti della comprensione intellettiva. Questa allora trova la sua dignità soltanto nell’essenza della condizione che fa della cognizione un rapporto, ma da essa riceve pure i limiti di una sua possibile applicazione, postulandosi quindi un atto del conoscere che non sia rapporto e che, come tale, si sottragga alle esigenze di molteplice e di unità, che si impongono al reale ridotto a intelligibile.

            Infine, se le categorie dell’unità e della molteplicità attestano colla loro presenza della relatività del conoscere, ogni facoltà la cui azione sia da esse condizionata, dovrà assumersi sotto il medesimo punto di vista, e, quindi, non potrà in alcun modo differenziarsi l’intelletto dalla sensibilità né per l’apprensione del reale – in quanto  questo deve  di necessità sottrarsi all’una e all’altro – né per le condizioni della funzione, se è vero che tanto i dati di quel che riguarda la sensibilità quanto i dati di quel che interessa l’intellezione, partecipano delle medesime caratteristiche di distinzione,- 126 -di indipendenza reciproca e di individualità: concetto e percezione saranno complanari, cioè dotati del medesimo ufficio dinanzi al reale e soggetti alle medesime forme.

 Da tutto ciò è dato capire che il superamento del soggettivismo gnoseologico, nei suoi due aspetti di evidente esistenza del cognito e di apprensione della sua natura, la negazione di una qualsivoglia relazionalità dell’esistente, la riduzione delle condizioni trascendentali ad un’unica forma, che impronterebbe sia la percettività che l’intelligenza e ne renderebbe i dati definibili secondo i principi logici del molteplice e dell’unità, non possono assumersi come immediati, se non a patto di flettere il tutto all’incontrovertibile dogmatico. Sono tutti in realtà subordinati a una definizione dell’insieme gnoseologico, nella quale appunto si riscontrano proprietà atte a salvaguardare la vitalità del problema della conoscenza.

            Questa, che noi chiamiamo definizione, in quanto non si limita a stabilizzare il gioco che le forme compiono manipolando il reale, ma investe l’atto cognitivo completo e di riflesso lo stato psichico di esso, quello che suole denominarsi cosciente, soddisfa alla duplice esigenza che l’ha richiesta: da un lato, invero, riesce a determinare i motivi della trascendentalità, dall’altro vi aggiunge una sfumatura per cui la trascendentalità pone se stessa e al tempo stesso il proprio superamento. Riducendo l’elaborazione gnoseologica del dato alla suprema condizione dell’«Io penso», cioè all’autocoscienza, Kantripetiamo – si vede costretto: a) a richiudersi entro una barriera di soggettività insuperabile; b) a dare fra le forme pure e la condizione da esse postulata una relazione che è di identità di natura; c) a fondare, come conseguenza estrema, uno stato che non è bastevole a se stesso, almeno per la relatività, la quale non può non consistere in un rapporto.

 L’appello invece di Bergson a quel che, pur coinvolgendo l’intera cognizione, non interviene tanto nel meccanismo, quanto nella determinazione delle condizioni che debbono soddisfarlo, e perciò non partecipa come grado gerarchico alla funzionalità, gli consente per l’opposizione o, se si vuole piuttosto, per l’estraneità di natura: a) di offrire a scopo di equilibrio la condizione del condizionante; b) di dotare di autosufficienza la propria relatività; c) di ritrovare- 127 -nel termine stesso supremo gli elementi per spezzare l’assolutezza de soggettivismo.  

            Il travaglio che affanna Descartes e Kant, è di ritrovare nell’ambito della coscienza, che essi si son posta come unico dato assoluto, un fattore che li conduca al di dello stesso pensiero. Anche Bergson muove dal pensiero: ma nella coscienza non ricerca fattori che argomentino dell’esistenza formale di ciò che nell’idea è oggettivo; ritiene sufficiente, al contrario, ad attestare tale esistenza il modo della forma del pensiero. L’intera coscienza allora sarebbe argomento per l’esistenza di qualcos’altro dalla coscienza.

             Ma qual è la valutazione che Kant e Descartes in particolare, la filosofia moderna in genere fanno dell’atto cognitivo? I termini, in cui lo risolvono e i criteri che gli sovrappongono non sono forse da ritenersi in funzione di quella particolare determinazione di valore di cui lo investono? Si è definita critica una filosofia che ridà autonomia al problema della conoscenza. Ora, l’autonomia, di cui parla il criticismo, significa indipendenza e priorità del contenuto della sua soluzione su qualsiasi altro dato, mediante il quale si pretenda dichiarare il reale; significa ancora antecedenza logica del problema del conoscere sul problema dell’essere e, di conseguenza, soggezione di questo a quello: il termine distintivo possiede, quindi, una dignità che va limitata alla procedura delle argomentazioni. Di fatto, se si considera l’essenza o la natura della cognizione e il punto di vista da cui possono riguardarsi, anche le filosofie che non vogliono riconoscerle una autonomia in quanto problema, non gliela negano in quanto atto, nel senso cioè che non ritengono possibile definire la conoscenza con altri mezzi che non siano quelli teoretici. Che se autonoma va definita la condizione di chi determina di persona lo stato in cui costituirsi e manifestarsi e le leggi cui sottomettersi, non sarà difficile ammettere che, quando si l’atto cognitivo fine a se stesso, lo si erige ad autonomo. Si sottopongano i criteri o le forme o i modi con cui la coscienza conosce alla formula secondo la quale si concepisce il tutto, e dalla diversità di questa mutuino quelli la loro differenziazione: il dato gnoseologico ha pur sempre la sua finalità in questo che rende noto l’ignoto o stabilisce un rapporto di corrispondenza sicura ed evidente fra sé e ciò - 128 -di cui è rappresentazione. Si dichiari, al contrario, che la formula, lungi dal determinare un criterio, è schiava di norme che la mente umana è incapace di rigettare, perché conoscere significa imporre un ordine o un sistema secondo le norme: la conoscenza è ancora significazione dell’ignoto al pensiero, senza alcun altro fine che quello di rendere il pensiero ricco di nuovo possesso, anche se la sua ricchezza è rappresentata da una moneta il cui corso è valido soltanto per i suoi domini. In entrambi i casi conoscere vuol dire - per usare un’espressione cara a Bergson - contemplare. Per questo la autonomia essenziale può, in Kant, accordarsi con l’autonomia funzionale in virtù dell’autocoscienza, nella sua duplice azione contemplativa e trascendentale. Sfera della pratica e sfera della teoria vengono scisse violentemente, le conseguenze di questa non infirmando le condizioni di quella. Per questo l’autonomia essenziale, in Cartesio, si sottrae all’autonomia funzionale, grazie al fondamento teologico, che limita l’autocoscienza alla semplice azione contemplativa. E, nel pensatore, grande è lo sforzo di distinguere la contemplazione dalla pratica, in quanto il criterio della sua speculazione metodica riguarda solo la conoscenza. Dovunque interviene una finalità, inficiata di elementi di attivismo pratico, ivi trova confine ogni certezza e dignità teoretica. Perché alla coscienza si riconosce competere la contemplazione e l’attività pratica, ma tale è la loro indipendenza reciproca che il pensiero, volto alla pura speculazione, è signore di sé ed è atto a servirsi di mezzi che in modo alcuno possono riguardare l’azione.

            Il circoscrivere le funzioni della coscienza e in particolare della ragione all’ambito rigidamente esclusivo della pura contemplazione e il farne a un tempo l’unico termine e immediato delle nostre cognizioni, inducono in tal modo Descartes a ricercarvi i criteri della logica e parimenti il presupposto assoluto che li convalidi.

            In Bergson, al contrario, si ritrova come presupposto che la relatività o autonomia funzionale dell’atto conoscitivo respinge l’adeguazione della rappresentazione al reale in nome di una norma metodica, al tempo stesso che non tollera accordo alcuno con l’autonomia essenziale. L’eliminazione del «Cogito» dall’elaborazione del dato comporta la fondazione di una eteronomia essenziale- 129 -del problema gnoseologico, di un’eteronomia cioè non come la intende Kant quando la rinfaccia come vizio alle posizioni dogmatiche in genere, ma presa nel senso che, se la condizione assoluta che è cagione di inadeguatezza del cognito al reale, pone fra sé e le norme che ne regolano la sistemazione e l’ordinamento un’opposizione di natura, l’intero mondo della conoscenza viene a gravitare e a dipendere da una legge che non può esser ricavata dalla sua stessa sfera e a costituirsi in uno stato che è tale meno per la sua finalità che per la sua funzionalità.

            Non possiamo seguire il suo processo interpretativo, se prima non avvertiamo l’urto, che egli ha colto, fra l’autosufficienza del conoscere come problema e la conseguente vanità del conoscere come risultato, e il successivo tentativo di ricercarne le cause profonde sia nella riduzione dell’indagine alla proposizione dell’autocoscienza sia nell’assunzione autonoma del fatto cognitivo. Che egli ricerchi e rinvenga un’unica formula, che da un lato interpreti e giustifichi il nostro pensiero, quando conosce, e dall’altro lo sorregga e lo completi nella sua funzione elaboratrice, non si può spiegare in maniera diversa: per lui la trascendentalità richiama sino a tal punto la eteronomia essenziale che, se la proposizione critica è l’unica conseguente a se stessa, non soltanto non si può dare l’una senza l’altra, ma la prima impone la seconda. Il relativismo gnoseologico impone che il fatto di conoscere ritrovi la propria finalità in una sfera opposta a quella in cui sembra attuarsi. D’altra parte, questa, che rispetto alla natura dell’atto è semplice descrizione, è destinata ad assumere la caratteristica di suprema norma condizionante, non appena si presenti il problema kantiano dell’insufficienza delle forme trascendentali che chiameremo intermedie.

La Condizione per eccellenza, da cui dipendono tutte le forme elaboratrici, il principio che fonda l’eteronomia della cognizione, coincidono nell’azione, come in quella che interessa l’unica sfera che si contrapponga all’atteggiamento riflessivo e teoretico, la sfera della pratica. Togliamo alla nozione di attività in genere, di azione in particolare, ogni sfumatura che tenda a renderla immanente  alla coscienza e ne limiti la portata alla semplice modificazione conforme alla natura dell’essere. Non resta  allora che accettarla nella sua- 130 -significazione normale di mutamento che si opera su di un altro essere. In tal modo la concepisce Bergson. Di conseguenza, se l’uomo entra in un rapporto di conoscenza per stabilire e soltanto per stabilire fra sé e ciò che conosce una relazione pratica, la sfera della cognizione, assieme a tutto ciò che la riguarda, appare in funzione di un interesse attivistico e quelle, che sotto un punto di vista  sono le condizioni del conoscere, si dimostrano essere, sotto il punto di vista assoluto, le esigenze dell’agire.

             Non sarà più lecito parlare di un trascendentale nel relativismo bergsoniano, se è vero che il termine riguarda un atteggiamento disinteressato della coscienza. E la relatività gnoseologica non potrà più giustificarsi semplicemente con l’adottare una organizzazione di strumenti logici, il cui risultato è fenomenico, vale a dire adeguato al soggetto, ma inadeguato all’oggetto. Lo strumento della coscienza produrrà ancora il fenomeno: ma questo, che è tale in relazione ai mezzi dati per la contemplazione, qui si dichiara non potersi comprendere, come fenomeno, se non riferito a un atteggiamento pragmatico. Il fenomeno, per Bergson, media fra l’oggetto e la necessità intrinseca alla coscienza di ripiegarsi sull’oggetto e di possederlo, per asservirlo ai propri bisogni esistenziali. La forma condizionante cessa di essere un assoluto e diviene un relativo, se considerata quale mezzo che l’uomo possiede per impadronirsi delle cose, in vista di uno scopo che nulla ha che fare con la conoscenza delle medesime. Se conosciamo soltanto per conoscere e se le vie che il dato percorre sono di tal fatta da modificare la struttura di ciò che accolgono  non appena esso vi penetra, la coscienza, che col suo occhio può spaziare solo sul reticolato di quelle vie, non è in grado né di assicurare che i suoi dati non sono tali quali vi entrarono né di provare il contrario.

            Il fenomeno non offre argomenti per la propria assolutezza, ma, d’altra parte, non prova neppure, la propria discordanza da ciò che è stato chiamato noumeno, in vista appunto di una  siffatta polarità. Ma si stabilisca, al contrario, che la legge fondamentale della dottrina gnoseologica sta nel definire la conoscenza e l’azione come due attività legate l’una all’altra, in una dipendenza di mezzo a fine. Le condizioni sembrano immutate: ma si tratta soltanto di - 131 -un’apparenza. Di fatto, nel primo caso la coscienza appare avvinta alle sue condizioni, perché queste, non potendo ricevere giustificazione da null’altro che da se stesse, mancheranno di un qualsiasi punto di riferimento da cui si possa mirarle, erigendosi quindi ad assoluto ineliminabile. Nel secondo caso, quantunque la relatività sia tale da non potersi definirerealeapparente e il fenomeno continui a sussistere nella sua indeterminatezza essenziale, nondimeno la dipendenza o, piuttosto, l’identificarsi della sfera della contemplazione con la sfera della pratica consente da un lato una certezza di esistenza, in quanto il rapporto in sede di attivismo deve essere reale, dall’altro la possibilità di un giudizio sul fenomeno, che è quanto dire la possibilità di una conoscenza assoluta, che adegui la natura dell’oggetto. Infatti, se la conoscenza, che chiameremo  fenomenica, è di fatto un aspetto, quello cosciente, di una delle tendenze esistenziali, e se questa tendenza attesta dell’esistenza di qualcosa d’altro dalla coscienza, ci sarebbe forse data la facoltà di istituire un rapporto diretto con questo qualcosa d’altro, qualora trovassimo il modo di entrare in relazione  con esso indipendentemente da ogni finalità pragmatica.

L’identificazione di cognizione fenomenica e di azione non elide la nozione di contemplazione: potrà, tutt’al più, attribuirle un significato nuovo. La pragmaticità della conoscenza stabilisce il relativismo, inteso come accettazione del dato senza facoltà di assenso o di giudizio, ma, oltre al fatto che non racchiude la coscienza in se stessa, in quanto rende certa l’esistenza  dell’oggetto su cui deve applicarsi, ci avverte che indagando su di essa non esauriamo tutta la realtà del soggetto: qualcosa di questo ci sfugge, qualcosa però che non ne è il noumeno,vale a dire l’inconoscibile essenza, ma semplicemente quell’oscuro, quell’indistinto, quell’incosciente, da cui si levavoce assoluta e indubitabile – l’urgenza dell’azione. Questa organizza e sistema secondo i propri fini ed esigenze quella parte su cui può esercitarsi la riflessione, ma, con ciò stesso, ci avverte che il tutto non si esaurisce in essa, ma semplicemente se ne serve. Superare l’atteggiamento della riflessione significherà abbandonare la prassi che l’esistenza ci impone.

Ora, far ciò  sarebbe impossibile, se tutti gli elementi che la psicologia- 132 -ha rinvenuto e catalogato nella coscienza fossero entrati a far parte del meccanismo della conoscenza pragmatica; un dato, però, ne è rimasto escluso, perché non necessario. La molteplicità dispersa e caotica della percettività si organizza, dice Kant, nei concetti secondo l’elaborazione che subisce da parte delle categorie. Ma ciò non sarebbe possibile se la diversità e dispersione, insite nella pluralità sensibile, non si raccogliessero lasciandosi sottendere dal senso di identità che la coscienza possiede nell’atto del pensiero, vale a dire dalla certezza che noi abbiamo in noi stessi di esistere sempre identici nei successivi istanti in cui pensiamo. L’autonomia essenziale del fatto della cognizione richiedeva l’ulteriore intervento dell’autocoscienza, perché fosse fondata l’autonomia funzionale.

La funzione pragmatica, invece, della cognizione non necessita del senso di identità cosciente, affinché la pluralità dei dati si organizzi e costituisca nella succedentesi diversità in cui si presenta, una conoscenza. Se è l’azione che determina la conoscenza e se quelli che divengono i dati della conoscenza costituiscono, in definitiva, ciò che nell’oggetto interessa il soggetto ai fini della prassi, avremo una molteplicità in vista della pluralità delle esigenze che possono muovere all’azione, ma il raccogliersi di questi molteplici impulsi attorno all’unico centro che agisce, la coscienza, - vale a dire il senso di identità che la coscienza ha di sé non come pensiero, ma come pura attività pragmatica, ovvero la permanenza  immutata  di un centro biologicamente organizzato i cui bisogni di esistenza si traducono in impulsi all’azione – è sufficiente ad adempiere alle funzioni demandate all’autocoscienza.

La coscienza, racchiusa entro la sfera della pratica, pensa per agire, e nell’azione ritrova la propria identità di esistenza, così come la molteplicità degli atti di pensiero si giustifica con la pluralità delle esigenze, che sono altrettante determinazioni funzionali o modi dell’azione, in funzione della diversità del punto di applicazione in cui la sua unità sostanziale deve frazionarsi. Le forme condizionanti assettano la pluralità o addirittura la determinano in vista dell’azionedonde la eteronomia gnoseologica; questa, d’altra parte, con la sua unicità, sottesa alla diversità delle determinazioni, e col senso di identità che dona alla coscienza che l’esercita, si erge a punto di- 133 -riferimento della molteplicità dei dati fenomenici, e consente l’esplicazione della funzione delle formedonde il suo compito, diciamo così trascendentale.

            Questo, dunque, è il fondamento della dottrina della conoscenza di Bergson: che se poi o che ci si soffermi su questa in particolare e vi si rinvengano i motivi non solo di una limitata teoria della conoscenza, ma di una dottrina ricca di psicologia e di metafisica, oppure che ci si attenga alla pura presupposizione che riduce ogni indagine alla pregiudiziale di una risoluzione del problema gnoseologico, sia nell’uno che nell’altro caso l’indirizzo pragmatico sembra a Bergson l’unico atto a fornire premesse sufficienti a una concezione dell’universale. La definizione data dell’istinto e dell’intelligenza, l’organazione delle molteplici determinate vitali  in una visione evoluzionistica, la cosmologia che è al tempo stesso cosmogonia e l’incentrarsi delle varie definizioni sulla teorica della durata, vanno debitori della loro genesi all’indirizzo pragmatico, per cui «conoscenza e azione sono… soltanto due aspetti di un’unica e medesima attività». Conoscere un oggetto vuol dire saperne l’eventuale od attuale rapporto di azione che intercorre fra noi ed esso: per raggiungere tale sua conoscenza si deve pensarlo. Pensare, quindi, non vuol dire conoscere, se per conoscenza si intende la contemplazione o, meglio, il possesso disinteressato del vero. Il relativismo, per conseguenza, diviene in lui sinonimo di pragmaticità. Fra la soggettività della cognizione e l’anelito al possesso del reale, vale a dire alla metafisica, si frappone un fattore che determina la prima e partecipa a un tempo della seconda. Questo fattore, che è l’azione, ci dice che la traduzione in termini concettuali dell’esistente non adegua l’originale, ma contemporaneamente ce ne fornisce la ragione, cioè la determinante logica, e ci illumina di nuova luce quel lavoro di pensiero che il criticismo kantiano si era limitato a definire e a descrivere. Che cosa sarà allora la metafisica se non un’adesione disinteressata alle cose? se non un loro possesso immediato, alieno da ogni finalità esistenziale?

             I grandi sistemi dogmatici sono andati dal pensiero alle cose, ritenendo quello un fedele specchio di queste. I criticismi, empiristici o trascendentale, rivelano che la specularità del pensiero è applicabile - 134 -soltanto a lui stesso. Per gli uni e per gli altri il concetto è un assoluto e spetta alle cose adeguarglisi o meno.

            L’indirizzo pragmatico per la virtualità ad esso inerente di trascendere se stesso, sancisce un rapporto fra la metafisica e il pensiero, rapporto che è di estraneità e a un tempo di superabilità, se il compito di quella è di muovere dalle cose al concetto per riconoscere la coincidenza che in esso si attua della relatività con l’ufficio pratico. Il pensiero, dunque, non offrenega una metafisica: l’una è indipendente dall’altro, sia pel modo con cui entrambi si applicano all’oggetto sia per gli strumenti di cui tutt’ e due si valgono. L’azione si incarica di mantenere fra di essi una relazione di polarità che non degeneri in dualismo.

            Un platonismo latente ha pervaso ognora la concezione e la soluzione del problema cognitivo: la coscienza contempla e, immobile nella sua attitudine, coglie qualcosa, o che queste siano ombre suscettibili di ritrovare il loro corpo in virtù di un criterio qualsiasi immanente o trascendente, o che siano corpi destinati a smaterializzarsi in ombre a causa di una ineluttabile deformazione subita nell’atto.

            Si neghino questo disinteresse, questa inerzia, questa passività e si senta nell’atteggiamento gnoseologico uno sforzo doloroso contro una resistenza tenace. Molti, che furon detti problemi, riveleranno la loro inconsistenza o assurdità, molte, che rimasero incognite, troveranno la loro soluzione. Tale è la certezza di Bergson.


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