Giordano Bruno Cavagna
La dottrina della conoscenza in Enrico Bergson

Capitolo III L’APPLICAZIONE DELL’IDENTITÀ DI PRASSI E CONOSCENZA

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Capitolo III

 

L’APPLICAZIONE DELL’IDENTITÀ

DI PRASSI E CONOSCENZA

 

            Esaminiamo la coscienza nell’atto con cui  - almeno a quanto siamo abituati a sentire nell’attività immediata – viene a contatto con le cose, senza chiederci né se queste esistono né se il contatto è possibile, senza cioè muovere da alcuna presupposizione dogmatica o dal dubbio accolto per sistema, e limitiamoci alla pura riflessione di quanto appare normalmente, ed usualmente viene accolto dal senso comune. Sorgono e ci si presentano delle immagini, che Bergson indica indifferentemente col termine di «percezioni» o di «sensazioni», e che vengono  considerate come altrettante fotografie che formiamo in noi contrapponendoci agli oggetti. Quando tali immagini sembrano derivare dall’interno nostro, per uno sforzo di rievocazione, e non paiono trovar la loro occasione in un esterno corrispondente, a questi fatti interiori che si danno con un sigillo di soggettività, come quelli il cui senso è estroverso, diamo un altro nome e li chiamiamo ricordi: così fra la percezione e il ricordo non vi è differenza né per la loro realtà formale né per la loro realtà oggettiva, ma si distinguono in virtù di una sfumatura, di una proprietà intrinseca che li accompagna e che loro una determinata nota temporale. Alla percezione, l’immagine attuale, e al ricordo, l’immagine attualizzata, Bergson applica, in quanto fattori di conoscenza, il principio della pragmaticità  gnoseologica.

            Perciò l’interrogativo posto a presupposizione dell’intera interpretazione- 136 -riguarderà non tanto le questioni di genesi e di valore, ossia il rapporto che intercorre fra la percezione e il ricordo da una parte e quel complesso di immagini particolari che chiamiamo il corpo dall’altra, quanto la loro funzione nei riguardi della coscienza e delle cose. Ma che cosa rappresentano di fronte al soggetto che li pone, la percezione e il ricordo? quale interesse rivestono? quale senso assumono non appena si danno? L’intervento del motivo attivistico si impone, data la sua natura di premessa sistematica; ma questa, che ha tutto l’aspetto di una intromissione ipotetica, attende  di ricevere validità della giustezza dell’argomentazione. Alla risposta a quelle domande si giunge, insomma, con un discorso che non appartiene decisamente a nessun tipo di ragionamento. Non si può certo dire che Bergson accolga il principio dell’ come un criterio della cui validità facciano a priori fede o particolari condizioni formali o particolari condizioni gnoseologiche: egli, infatti, è sempre alieno dal fermarsi alle forme delle cose, non tanto perché relativista, quanto perché già dai suoi primi passi si è accorto che quella chiarezza e distinzione che confortano tanto l’intelletto umano sono le caratteristiche meno atte a dargli la sicurezza di un possesso veritiero e scientifico; d’altra parte, il motivo pragmatico ha animato la sua meditazione molto tempo prima che un ulteriore approfondimento lo abbia fatto consapevole della necessità di allacciare il termine del suo cammino ai lontani inizi e di dare nome e cittadinanza a un modo di conoscere di cui egli si è servito senza preoccuparsi della sua validità e inerenza al campo gnoseologico. Non è quindi il caso di parlare né di deduzione né di sillogismi. E neppure si può trovare in Bergson un elenco di osservazioni e di descrizioni fenomeniche che, condotte con omogeneità di metodo e con sereno disinteresse al risultato, finiscano per imporre un’unità: si parla di percezioni, di ricordi, di concetti, di giudizi e di atti istintivi; ma si consideri ogni singolo punto e si cerchi se la sua mente ha condotto un’indagine descrittiva aliena da premesse o da interventi di atteggiamenti preesistenti, e se attraverso tale indagine sia giunto alla scoperta di un punto comune a tutti, e, quindi, alla determinazione originaria, quella che consente la definizione  e la legge; si vedrà che nel bel mezzo di un esame si fa appello a qualche principio o criterio la- 137 -cui presupposizione è evidente, o di cui, se non altro, si può dire esser stato preso di sana pianta da una precedente speculazione e trasportato nell’argomento che interessa sul momento, a costituire il sussidio e il presidio di qualche interpretazione: di conseguenza, il procedimento induttivo non è il tipo puro della sua discorsività. Infine, è difficile dichiarare il principio dell’azione come una pura ipotesi, che la mente abbia comunque raggiunto o per qualche adesione oscura alla propria realtà o in nome di un tentativo a cui la difficile situazione e l’intrico formatisi nel campo gnoseologico la sospingevano, ipotesi sempre pronta a lasciarsi respingere qualora inadeguata alla soluzione dei vari problemi o ad imporsi se trovata atta a chiarire e avviare il ragionamento verso conclusioni che la realtà sottoscrive in pieno: neanche il processo per teoria accetta entro i suoi limiti di classe il discorso di Bergson. Eppure non mancano tracce ora dell’una ora dell’altra via razionale. Qui l’azione, formulata come il fondamento della percezione e della percezione-ricordo, è un’ipotesi da accogliersi dapprima come principio immediatamente accettabile nella sua validità, e il criterio che allora si pone ha tutta la portata di un assioma da cui è dato procedere nel calcolo e nella deduzione, ma la cui assolutezza e validità restano indimostrate; , invece, la funzione pragmatica delle immagini coscienti viene postulata come un’ipotesi che attende verifica; gli argomenti, allora, che dovrebbero richiedersi a sostegno dell’interpretazione teorica, verranno forniti via via che si procede  nell’indagine; la verità e l’accettabilità delle conseguenze estreme testimonieranno della verità e attendibilità della proposizione d’origine, e ciò che da principio vien posto ipoteticamente si modifica a poco a poco in una tesi la cui dimostrazione va cercata nella somma totale delle singole soluzioni dei problemi parziali. In ultimo, non mancano pagine, in cui il giudizio della funzionalità della percezione in particolare  e della conoscenza in generale non assume l’aspetto di un principio che la coscienza accoglie intuitivamente nella sua validità: in esse per ciò che si riferisce all’azione, Bergson non si appella né a lumi naturali né a idee chiare e distinte né a intuizioni primigenie, ma all’azione giunge come a un dato che necessariamente compare come- 138 -elemento e principio dei termini in cui il conoscere può essere frazionato e distinto. In definitiva, abbiamo un intrecciarsi di motivi, di spunti, di vie, il quale finisce col fare apparire l’azione come un fondamento della conoscenza di cui deve ancora esser fornita la convalida decisiva. Da che cosa dipenda, in verità, tale mancanza di un criterio metodico inalterato e preciso non saprei dire con sicurezza; posso tuttavia guardare a tale sovrapposizione e intersezione di tre processi razionali come al risultato di due forze:  da un lato, della tendenza insita nell’animo di Bergson a togliere qualunque confine netto e preciso e a lasciar sempre ogni aspetto in una specie di configurazione dai contorni sfumati, tali da poter facilmente conglobarsi e inserirsi nei contorni di altre entità; dall’altro, della sovrapposizione di un atteggiamento descrittivo e conclusivo al primo atteggiamento indagatore e introspettivo. Infatti, in primo luogo, la consapevolezza costante delle larghe aperture verso la metafisica che si aprono nella sua teoria del conoscere, lo porta continuamente a tener d’occhio non solo l’indagine sul fenomeno, ma anche le conseguenze di tale indagine, e, quindi, a guardare a quel principio pragmatico come a una determinazione dalla quale ci si tiene più a trarre le conseguenze di quanto non ci si preoccupi di dimostrarne la validità di principio; dall’altra, al procedimento meticoloso seguito nell’Essai, per cui il lettore sente costruirsi sotto le sue stesse mani le proposizioni e le definizioni, si viene sostituendo una metodica, sempre più rigida in sé, che tende a comporre più che ad analizzare, a concludere più che a definire. E questo finisce in fondo per dispiacere, sia perché uno avverte nitidamente entro di sé che la proposizione della pragmaticità costituisce, forse, un aspetto reale e fondamentale del conoscere e che essa non è tanto il cardine del sistema di Bergson, ma un punto realmente rivoluzionario e destinato a infiniti sviluppi; ma anche perché si nota che il problema essenziale della funzionalità pragmatica dell’atto conoscitivo ha finito per diventare uno strumento di costruzione, quando ci sarebbe stato e ci sarebbe ancora infinito lavoro da compiere per vedere il come, il se, il donde della sua validità e per applicare la sua inserzione nella gnoseologia non solo nel campo che attorno a questa direttamente si stende,- 139 -ma anche in quello logico che dovrebbe essere riportato e comparato al nuovo criterio, per vedere sino a che punto il principio stesso sia accettabile.

            Rimango, tuttavia, convinto che non abbiamo che fare con una semplice ipotesi, con una teoria eretta a formula generale ed universale. È vero che, nell’atto di determinare la conoscenza attraverso l’azione, ci si vuole opporre a una teoria, la cui premessa aveva condotto a tali antinomie ed oscurità da far dubitare del suo valore; è vero che a un motivo fondamentale che riempie di determinate sfumature la sfera dell’indagine teoretica, si vuol sostituire una nozione sovvertitrice, in virtù della quale il problema gnoseologico ci volga un’altra faccia e ci consenta di accostarlo per altri sentieri; è vero che si vuole o mutare o spostare il perno di una metodologia. Vale a dire, esistono parecchi spunti di natura volontaristica o desiderativa, e si innestano nel processo discorsivo dei fattori che hanno larga attinenza con l’ansia metafisica, quando addirittura non ne scaturiscono. Ma è altrettanto vero che, a fianco, cogliamo delle osservazioni e delle note originali che non sono certo venute a Bergson dal suo bisogno di dar pace a sé e agli altri con una costruzione del mondocostruzione che ha il destino di esser definitiva, anche se lui non vuole ammetterlo; è altrettanto vero che il suo occhio ebbe l’acume, e la tregua necessaria ad esercitarlo, di applicarsi freddo e indifferente a certi fenomeni conoscitivi e di scorgere in essi un aspetto che non solo ne modificava l’essenza e il destino, ma era capace anche di intaccare a fondo certi problemi ormai sepolti, in apparenza, come quello degli universali. In altre parole, nella progressiva descrizione e interpretazione dei vari modi con cui la coscienza conosce, Bergson ebbe la facoltà geniale di scorgere un lato nuovo e, se non rivoluzionario, destinato prima o poi a diventarlo.

            Per rendersi conto di ciò, basta ridurre ad alcuni punti generali la vasta serie di osservazioni che egli fa sulla percezione, sul ricordo e sull’intendimento. Appunto grazie a una tale catalogazione ci metteremo in grado di seguire la strada che egli batté e di capire come in lui mai si possa nettamente distinguere ciò che è- 140 -acquisizione di processi anteriori da ciò che è dato di sviluppo di conseguenze e di conquiste.

            Per la verità, ci si può facilmente accorgere che tutte le note ricavate dal nostro filosofo si raggruppano attorno a tre punti fondamentali ognuno dei quali costituisce il carattere identico e comune su cui è dato introdurre nella varietà una classe. Abbiamo, quindi, tre classi le quali comprendono non solo tutto ciò che riguarda il piano della percezione e della rappresentazione per immagini, ma anche il piano della scienza e della rappresentazione per concetti; e questa identità di caratteristiche non solo non suscita stupore, dal momento che già dovevamo aspettarcelo dal comune atteggiamento relativistico, ma costituisce appunto anch’essa uno dei motivi che consentono di scoprire in Bergson un inamovibile punto di vista sotto cui il problema della conoscenza vien riguardato.

            Il primo punto si riduce a una censura e luogo a una classe che potremmo chiamare storica. Si passano in rassegna le diverse sistemazioni e interpretazioni che son state date del conoscere, razionalismo e empirismo, kantismo e materialismo, e si notano le conclusioni a cui han dovuto di necessità giungere. Di due ordini son queste, secondo che riguardano la facoltà del percepire o quella dell’intendere, e in entrambi gli ordini presentano qualcosa di inaccettabile. Si tratta, allora, di vedere che cosa mai si inserisce tra premesse e conclusioni, qualcosa che non può non essere tale da viziare tutto il processo. L’atteggiamento censorio si applica anzitutto alla definizione di semplice copia che si deve dare della percezione, quand’essa sia ordinata a un conoscere esclusivamente disinteressato e puramente rappresentativo: di qui, incertezze, discordanze, aporie. Lo stesso atteggiamento si ripiega sull’intelligibilità, la cui definizione si vede soggetta a progressiva riduzione, fino a diventare quella di una facoltà i cui modi, le cui strutture, i cui risultati sono un possibile che ha l’atto in sé, non fuori di sé: di qui ancora incertezze, discordanze, aporie.

La seconda classe la possiamo chiamare indagativa come quella che nasce da un impegno di ricerca e di descrizione, il quale prescinde da presupposti soggettivi o da antecedenti storici. Alcune proprietà della natura della percezione e del concetto rivelano, sia- 141 -se prese in se stesse sia se poste in rapporto con ciò da cui gli stati sembrano dipendere, un’identità di funzione: basta, allora, definire quest’ultima e trasferirne l’intima realtà agli stati.

            Ma, come più volte s’è visto, l’animo di Bergson non è per nulla soddisfatto di una freddezza di raziocinio e di una sete di interpretare, sazia di se stessa; c’è in lui il bisogno di dare a sé un quadro che non solo abbracci tutto il mondo, ma possa anche esser vero e fedele specchio del mondo; d’altro canto, urge in lui lo sforzo continuo di tener presente quella corrente interiore che ha descritto ed esaltato nell’Essai, corrente fatta di novità perenne, di attività e di creatività e destinata ad alimentare ed assicurare la libertà umana. E in tutto ciò troviamo il terzo spunto, quello dell’indimostrabile e del metafisico, attorno a cui s’articola la terza classe, quella dogmatica. Si susseguono, così, le affermazioni sul carattere di attività che è proprio della coscienza; continuo è l’appello a un’impossibilità di concepire la coscienza come uno schermo che accetta supinamente immagini o come un aggeggio che accosta e connette, secondo schemi rigidamente meccanici, idee.

            Percezione e ricordo si considerano di solito operazioni psichiche disinteressate: la coscienza riproduce, rappresenta e rievoca, e, rievocando, rappresenta di nuovo: in questi suoi atteggiamenti elementari appare priva di ogni finalità. L’attitudine cognitiva sarebbe per sua natura aliena da qualsiasi teleologia, intendendo con ciò che l’atto con cui si conosce ritrova le ragioni di essere, e di darsi, in se stesso, appunto in quanto atto di contemplazione. Nel termine di rappresentazione è racchiusa l’ipotesi di giudizio sulla dignità della conoscenza; se rappresentazione significa quadro o pittura del reale, ossia traduzione in un linguaggio di alcunché che esiste in altro linguaggio, senza l’aggiunta di nulla di nuovo, l’uomo conosce appunto e soltanto perché riproduce, e la sua riproduzioneammesso che tale sia la percezione – si origina semplicemente dal bisogno affatto disinteressato di conoscere. Possono le immagini entrare in rapporto con le esigenze dell’azione, ma in tal caso nulla vi è di più che una interferenza reciproca di due sfere autonome, essendo un altro modo, un’altra attività della coscienza a far ricorso alle immagini, ad appropriarsene, diciamo così, per adattarle alle- 142 -proprie determinazioni: qui si ritrova meno una esigenza di differenziazione o un giudizio di priorità dell’una sfera sull’altra, che il riconoscimento al pensiero in generale della indipendenza e dell’autosufficienza.

            Ora - afferma Bergsonreputare atti disinteressati le operazioni semplici della conoscenza, farne dei dati alieni da tutto ciò che non sia contemplazione, significa fare del modo dello spirito un duplicato, una copia più o meno conforme del mondo della materia, sia che entrambi sussistano l’uno accanto all’altro, sia che a materia dia luogo alla coscienza come a suo fenomeno, sia che essa venga ridotta a pura costruzione cosciente. Le difficoltà che il problema della conoscenza offre, quando non lo si riguardi dal punto di vista logico, ma lo si intenda come ricerca delle condizioni per cui la coscienza può attingere la realtà e agire su di essa e, quindi, entrare a far parte attiva della materia e, viceversa, consentire che la materia entri in gioco reale e concreto entro di lei, nascono appunto dall’aver preteso di ridurre lo psichico e il materiale, tramite la percezione e il ricordo, a delle riproduzioni e a dei duplicati l’uno dell’altro. Le diverse interpretazioniinterpretazioni, le quali vengono denominate, a seconda del valore attribuito al rapporto che si stabilisce fra la coscienza che conosce e il termine che è conosciuto, materialismo, dualismo volgare, idealismo, nelle due differenti sistemazioni di Berkeley e di Kant – sono tutte caratterizzate dall’accettazione di un comune criterio di giudizio che è presente nel momento in cui si assumono percezione e ricordo come i dati primi su cui si deve esercitare il proprio lavoro. La indagine sulla percezione e sul ricordo, sul loro valore e sulla loro natura, si ferma al lato esterno, alla forma sotto cui si presentano. Si potrebbe dire che le diverse correnti che posero in sé un campo del conoscere non si discostano affatto dal senso comune, in quanto sia le une che l’altro procedono astraendo la percezione e il ricordo da quell’unità cosciente in cui si danno: e, poiché una volta astratti, la percezione si presenta come un’immagine attuale, il ricordo come un’immagine attualizzataimmagini, quindi, entrambe di cui tutt’al più si può dire che si accompagnerebbero a una certa sensazione di estraneità in un caso, mentre nello- 143 -altro ne andrebbero esenti - , percezione e ricordo non possono divenire altro che la riflessione di ciò che esiste fuori di noi. E il problema, allora, diventa questo: se, come e fino a che punto la riproduzione sia esatta o valida. Ma in ciò si è inserito un processo di astrazione, che, come  tutti gli atti del tipo, ha spezzato una unità, quell’unità in cui percezione e ricordo vivevano non come stati della coscienzasecondo un modo in cui la coscienza avrebbe potuto vivere senza la loro rispettiva  presenza, ma come atteggiamenti della coscienza; la rottura dell’unità ha condotto a ignorare il rapporto che deve pure esistere fra il motivo della presenza nella coscienza di un fenomeno del tipo ricordo e del tipo percezione, e il carattere fondamentale della coscienza che è l’azione e il comportamento. Al contrario, una volta che si sia ricostituita tale unità e si siano riguardati la percezione e il ricordo come atteggiamenti della coscienza, secondo un vincolo che non consente  né astrazioneconsiderazione autonoma, si dovrà ristabilire un rapporto fra la percezione, come immagine attuale, e l’azione, come potenzialità pragmatica presente, fra il ricordo, come immagine attualizzata, e la condotta, come potenzialità pragmatica presente arricchita dalla esperienza passata.

             L’attribuzione di una finalità alla conoscenza, l’imposizione di un limite a cui tendono incessantemente le varie determinazioni gnoseologiche, comportano un nuovo indirizzo nella visione dei rapporti fra coscienza e materia e consentono di rendere reciprocamente complementari gnoseologia e metafisica e, conseguentemente, di affrontare il problema dell’essere. Quanto allo stretto problema della conoscenza, non appena accettiamo percezione e ricordo nella loro finalità pragmatica, rimuoviamo le incertezze o le discordanze cui le differenti teorie danno luogo, senza che siano in grado di eliminarle. Si consideri la coscienza un fenomeno contingente della materia, un fenomeno cioè che può non verificarsi, ma la cui presenza in ogni modo non è causa efficiente, vale a dire non è atta ad intervenire e a modificare il complesso fenomenico fondamentale ai cui margini vive. Chi potrà, allora, di esso dare la ragione, la causa, la finalità o la modalità? Ma, se gli stati elementari della coscienza, particolarmente quelli riguardanti la funzione cognitiva- 144 -sono o antecedenti o proseguimenti di una determinata situazione delle cose e, sia nell’uno che nell’altro caso, tendono ad atteggiare una parte di esse nei confronti del tutto, a prepararla e a dotarla di mezzi idonei a dominarlo e a servirsene, una tale concezione, pur non rispondendo a tutte le domande, rinnega la pregiudiziale materialistica, che, una volta riconosciuta l’esistenza di una coscienza, pretende relegarla in un confine donde può solo assistere e accompagnare il processo fenomenico. La finalità pragmatica della conoscenza postula una coscienza indipendente dalla materia, ma tuttavia capace di inserirvisi e di parteciparvi attivamente. L’idealismo si pone di fronte al mondo come di fronte a un complesso di immagini e, allo stesso modo del materialismo, vi distingue due piani od ordini, l’ordine delle immagini soggettive e l’ordine delle immagini oggettive. Le prime godono di un’assoluta libertà, in quanto si succedono le une alle altre senza che sia dato scoprire al di sotto nessun schematico canone che ne regoli la successione, e senza, quindi, che sia dato introdurre né la previsione né la possibilità di procedere da un’immagine data [[alle*]] altre successive, o a ritroso o in avanti. Le seconde, invece, paiono soggette a un vincolo reciproco tale per cui, posta l’una, è sempre possibile ricavare da essa l’ordine delle altre che l’hanno preceduta o di quelle che la seguiranno. Le immagini della classe soggettiva presentano un’altra caratteristica, di essere tutte vincolate a un’immagine privilegiata, quella del corpo, una volta posta la quale si immediatamente la serie discontinua e indeterminata di tutte le soggettive. D’altra parte, il corpo, a sua volta, si inserisce sul piano delle immagini oggettive con le quali si lega in quella catena di cause ed effetti che consente la scienza, che è quanto dire la previsione  del futuro e la deduzione dal passato. Ma, mentre il materialismo si limita a ignorare il problema delle percezioni come stuolo di immagini che non son soggette ad alcuna legge e ne riduce la realtà a un’esistenza periferica, con tutte le conseguenze di cui sopra, l’idealismo inverte la direzione di marcia e si sofferma su questo gruppo di indeterminati, sforzandosi di ridurre ad esso tutto l’esistente. Il che andrebbe benissimo, se nella loro indeterminatezza fossero in grado di accogliere il determinismo e la successione regolare che regna in esse- 145 -allorché trapassano al piano oggettivo. Ma, poiché resterà sempre fermo che, data un’immagine, se la si riporta al piano della coscienza e ne si fa una percezione, essa di per sé, in quanto percezione, vincolata all’immagine corpo, darà sempre luogo a un’altra immagine la cui esistenza non ritrova affatto la propria ragione nella precedente, mentre se la si proietta sul piano dell’extra-cosciente, e ne si fa un’immagine autonoma, di per sé darà sempre luogo a un’altra immagine e a una sola, le cui ragioni son tutte nella sua  antecedente e la cui realtà non può essere altra da quella che è, l’idealista è necessariamente portato a ridurre progressivamente il valore di questo determinismo all’indeterminismo del piano soggettivo. E ciò non provocherebbe alcuna reazione, se ciò che si è voluto negare in sede di astratta teoria, vale a dire la validità della scienza concepita come manipolazione delle immagini indipendentemente dalla loro soggettività o relazione all’immagine privilegiata del corpo, non continuasse imperterrita a mantenere in sede pratica intatta la propria consistenza e a conseguire risultati la cui portata vittoriosa non si lascia affatto scalfire dalla censura di un ragionamento che è partito da particolari presupposti. E questi, in definitiva, non son altro che la pretesa di voler conservare alle percezioni il loro ruolo, vagheggiato dal senso comune e, più o meno  consapevolmente, accettato dalla meditazione, di figure specchiate di altre immagini, vale a dire di atti disinteressati della coscienza. I quali presupposti conducono, da un lato gli idealisti a volere, forse con maggiore aderenza al reale, partire dall’immagine riflessa e considerare questa come l’unica realtà, con la conseguenza di dover ridurre l’intelligibile – ossia la contemplazione delle immagini in sé – a qualcosa che ha tratto alimento dal mondo della percezione, dall’altro a dover ricorrere immediatamente a dei provvedimenti per coonestare le conseguenze cui sono giunti  con l’imperturbabile sicurezza di questo mondo di intelligibili che continua a sostenere le sue pretese e a confermarle con le sue conquiste. In altre parole, l’idealismo, per quanto si sforzi di eliminare l’abisso fra sensibile e intelligibile, cade in difficoltà ancor più gravi di quelle in cui ha finito per trovarsi il materialismo: questo, con beata semplicità, ha chiuso gli occhi sulla percezione e si è affidato all’intelligibile e alla- 146 -scienza, per trovarsi poi più tardi alle prese con uno choc morale, quando dovette fare i conti con quella esigenza di libertà che l’uomo, nonostante tutti i possibili ragionamenti, continuava a sentire; quello, in seguito al persistente ridursi dell’intelligibile al sensibile, si accorse di aver fatto solo un bel gioco di parole, perché la realtà continuava a mantenere in sé la divisione e questa non risultava affatto spiegata e superata dalla riduzione: proseguì, allora, lungo due strade divergenti. O inserì fra i due piani il concetto di possibilità, facendo delle immagini oggettive delle sensazioni possibili e delle immagini soggettive delle sensazioni reali, il che però ridonaautonomia al piano che si era voluto assorbire, ma non spiega affatto come possa un’entità vivere secondo la determinatezza fin che resta sul piano del possibile, mentre si trasforma in qualcosa di indeterminato non appena trapassi al piano dell’attuale; oppure fece dei due piani due mondi distinti, il primo dei quali ricco della sua libertà e della sua alogicità, il secondo invece destinato a perderle entrambe in virtù dell’intervento attivo di qualcosa che preesiste e coesiste ad entrambi e che, reale  deus ex machina, entra in opera non appena una stessa immagine sale dall’uno all’altro piano. Le tre posizioni dell’idealismo, quella che riduce l’intelligibile al sensibile, quella che inserisce il fattore possibilità fra i due e quella che fa dell’intelligibile un sensibile arricchito di entità che non dipendono da esso, o battono contro lo stato reale dei fatti o con le proprie rappresentazioni non adeguano quanto intendono rappresentare, o debbono far ricorso a degli elementi estranei che introducono come strumenti sovraggiunti, affinché il loro rappresentato adegui il reale. E sia nell’uno che nell’altro caso la loro soluzione non è che un tentativo di deviare la marcia di fronte a un’aporia invalicabile: l’inintelligibilità della percezione intesa come rappresentazione disinteressata e la incapacità di adeguare sensibilità a intelligibilità fin che l’una e l’altra vengono considerate facoltà di compiti e finalità esclusivamente speculativi. L’idealismo, particolarmente quello inglese, conservando alla percezione il preteso compito speculativo, «non riesce a passare dall’ordine che si manifesta nella percezione all’ordine  che [[si*]] manifesta nella scienza, vale a dire dalla contingenza- 147 -con cui le nostre sensazioni sembrano succedersi, al determinismo che lega i fenomeni della natura». Per questo, come si è visto, finisce con l’introdurre la nozione di «sensazioni possibili». Kant, d’altra parte, la difficoltà l’incontra nel passaggio dall’intuizione sensoriale all’intendimento intellettivo, dando l’una il libero e vario succedersi delle immagini, legandole l’altro in una successione e in un condizionamento reciproco in cui l’effetto è rigidamente commisurato alla causa: e qui all’eterogeneità si ovvia con l’intervento di principi logici. Ma forse che anche Kant non riguardò alla percezione come a un fattore di cognizione puramente speculativa, cioè disinteressata?

             Qualunque pensatore si sia posto a considerare la percezione in sé e l’abbia isolata dall’elaborazione e dalla particolare situazione in cui viene a trovarsi quando sia inserita in un vincolo di rapporti intelligibili, ha dovuto riconoscervi due caratteri particolari che non possono trovare nessuna giustificazione e nessuna intelligenza fin che si assuma tale percezione nel suo carattere puramente formale. Nella percezione in sé non c’è nulla che ne ponga necessariamente l’esistenza e non c’è nulla al tempo stesso che l’escluda: se s’immagina una linea a mo’ di circonferenza, si darà necessariamente l’equidistanza di tutti i suoi punti dal centro e, al contrario viceversa, l’equidistanza di tutti i punti di una linea da un centro darà necessariamente una circonferenza; ma se nell’istante A e nel luogo B percepisco una circonferenza, né l’istante né il luogo sono tali da imporre necessariamente la percezione di una circonferenza, tanto più se questa è di un particolare colore e suscita un certo numero di sensazioni tattili e olfattive: la percepisco senza che nella circonferenza percepita vi sia nulla che imponga o precluda il suo essere, non in quanto circonferenza, ma in quanto percezione. D’altra parte, la percezione non costituirà mai un susseguente necessario, e non c’è catena di percezioni che possa stabilire il proprio ulteriore anello in un modo e soltanto in quel modo, e non in un modo diverso: ogni atto futuro compiuto su di una circonferenza luogo a una situazione necessaria, a una situazione cioè che rispetto a quell’atto non può essere altro da quella che è e che perciò può essere prevedibile,- 148 -in funzione sempre di quel determinato atto; se tracciamo un segmento che, toccando il perimetro, passi per il centro, otteniamo due spazi uguali entro il cerchio e due segmenti uguali sulla circonferenza; l’uguaglianza degli spazi e dei segmenti è necessaria e non può essere altra da quello che è, una volta che sia stata provocata. Ma se in una successione di istanti An e di luoghi B n ricevo una serie di percezioni, non c’è necessità alcuna che nell’istante A + 1 e nel luogo B + 1 nella mia coscienza si dia una percezione tale da poter essere preceduta dalla catena antecedente, vale a dire nella catena non c’è nulla che ponga necessariamente tale percezione e non un’altra. Infine, non esiste  nessuna situazione complessa nel cui quadro debba necessariamente inserirsi una sensazione ed una sola; quando giungo al quadrivio che debbo attraversare tutte le mattine, so di trovarmi di fronte a due arterie che s’incontrano e s’intersecano, e so, di conseguenza, che uno dei quattro angoli dell’intersezione rimarrà sempre delle stesse dimensioni che aveva nella situazione passata, dimensioni che non saranno se non la differenza fra un angolo giro e la somma dei restanti tre; ma anche se ogni mattina la quarta arteria offriva un determinato colore che spiccava in un particolar modo rispetto a quello delle altre tre, non posso affatto dedurre che tale colore rimanga identico e dell’identica differenza, dal fatto che quegli altri tre non son cambiati. E, poiché chiamiamo contingente ciò che non in sé necessariamente la propria esistenza e che, d’altra parte, non ha tale esistenza necessariamente imposta da uno o più antecedenti cronologici, e che, infine, di tale esistenza non riceve la necessità dalla situazione in cui si trova, dichiareremo contingente la percezione, sapendo che contingente volta a volta significa possibile, indeterminata e libera. Ora, dati tali caratteri, nessuna dottrina che faccia della conoscenza un atto disinteressato e, con ciò, la riduca a se stessa, ritenendo il conoscere una semplice acquisizione di noto, riuscirà mai a giustificare ai propri occhi e agli altrui la percezione, sia presa in se stessa che riportata all’altra manifestazione gnoseologica dell’intendimento. Già abbiam visto che cosa succede a voler mettere d’accordo un fenomeno di contingenza, quale la percezione, con un dato di necessità, quale l’intellezione. - 149 -Ma si prenda pure la percezione in sé: è logico che si dovrà finire per toglierle qualunque validità. Infatti, se si può dire di conoscere solo quando si può necessariamente prevedere tutti i componenti di una situazione, vale a dire solo quando la rappresentazione ottenuta attraverso la conoscenza è necessaria, universale, eterna – e questa, si noti, è l’esigenza che è insita in tutti coloro che pongono il campo della conoscenza, idealisti o materialisti o criticisti che siano - , un atto cognitivo, quale la percezione, che ha, come sue, tutte le caratteristiche contrarie a quelle assunte per definizione, non potrà affatto essere assunto come un valore gnoseologico. Ed è questa la conclusione a cui giungono sia gli empiristi, i quali per aver dovuto, date le premesse, ridurre l’intelligibile al sensibile, hanno tolto dignità alla conoscenza, sia i materialisti che si son salvati da questo pericolo relegando la percezione in un limbo in cui, unica fra tutte le cose che esistono, non ha alcuna ragione d’essere, sia i criticisti, i quali apparentemente han lasciato una ragion d’essere alla percezione, ma per farne un semplice strumento dell’intelletto. Ma, a parte questo, nessuno riesce a definire non tanto la percezione, quanto quei suoi caratteri di possibilità, di indeterminismo, di libertà, e, quindi, nessuno riesce a inquadrare la percezione nell’universo. Il che è ancora imputabile a quel significato letterale con cui il conoscere viene assunto: se conoscere significa acquistare del noto, un’entità che ha in sé solo della possibilità, non sarà affatto fonte di notorietà, non tanto per la più o meno dimostrabile corrispondenza all’oggetto di cui è rappresentazione, quanto per lo squilibrio che si inserisce fra l’oggetto che dovrebbe essere necessario nell’ambiente in cui si trova e la sua immagine che ce lo solo come possibile; così, se conoscere vuol dire stabilire una determinatezza tale che, data una catena, ogni anello debba essere ciò che è in virtù dell’essere dei suo antecedenti, è logico chiedersi quale dignità si possa attribuire a un atto conoscitivo la cui caratteristica è quella di non poter mai divenire anello di nessuna catena e stato il cui essere è determinato dagli antecedenti e determinante i susseguenti. E, ancora, se la conoscenza è l’individuazione immutabile di un dato la cui fissità è in funzione della fissità di una situazione, non si saprà mai in che modo inquadrare - 150 -un atto che non sarà mai funzione di alcuna cosa diversa da sé. Ma se si sposta la definizione data del conoscere, o meglio se si muta la determinazione generale di ogni atto del conoscere, e al disinteresse gnoseologico si sostituisce l’interesse pragmatico, è possibile forse rendersi conto delle caratteristiche della percezione e, al tempo stesso, ridonare alla percezione quel valore in campo di conoscenza  che le tradizionali premesse non riescono a conservarle. In primo luogo, l’indipendenza della percezione dalla situazione, ossia la parzialità della percezione, dipenderà allora dalla parzialità dell’azione, ossia dal limitato interesse che un’azione prende per un’intera situazione: un’immagine che entri in contatto con un complesso d’immagini con lo scopo di agire su di esse, dovrà necessariamente operare  sul complesso una selezione che sarà in funzione degli scopi e degli strumenti del suo agire, e se parte della sua azione sarà la percezione, questa non potrà non essere selettiva, e, quindi, parziale. In secondo luogo, se fra tutti i tipi di azione l’immagine fa suo quello che pone fra l’impulso e l’attuazione un certo lasso di tempo, e tale intervallo mette al servizio di una facoltà di scelta fra un certo numero di attuazioni, è logico che le percezioni, divenute strumenti di azione distanziata nel tempo e libera negli strumenti, godranno di una possibilità e di un indeterminismo che non sono se non i concomitanti caratteri formali che simmetricamente rispondono alle profonde proprietà sostanziali.

            La fondazione consueta del conoscere, la fondazione che potremmo chiamare amorfa in quanto fa della cognizione un complesso di atti che non sono passibili né di determinazione né di indeterminazione – come quelli che non ritagliano la propria struttura e consistenza in una sfera più ampia di quella che essi stessi costituiscono – se la si pone di fronte alla percezione, riguardata sotto il punto di vista del secondo dei due caratteri che le son propri, si trova costretta ad accettare lo stato delle cose senza riuscire affatto né a chiarirlo né a giustificarlo, senza, in altre parole, essere in grado di inquadrarlo in quell’universo che è la coscienza: e, ciò facendo, vien meno a uno dei grandi bisogni del pensiero, che è al tempo stesso uno dei grandi pilastri indirettamente delle teorie gnoseologiche e direttamente del giudizio e della valutazione che- 151 -esse danno degli strumenti del conoscere, intendo la necessità di sistemare un rapporto di una qualunque natura, causale teleologico strumentale, fra un dato e una situazione parziale la quale a sua volta sia inserita nel tutto; infatti, solo allora il dato è conosciuto, quando, attraverso la determinazione analitica dei vincoli che legano la sua esistenza a quella di una parte del tutto, sia possibile per la mente trascorrere dal tutto al dato e dal dato al tutto, come se fra dato e tutto esistesse un’unità, e la differenziazione consistesse in una semplice disgiunzione operata per analisi dalle abitudini cognitive della coscienza. Cominciamo col considerare tutto ciò che esiste, e sia per non avventurarci in una terminologia fondata su presupposti metafisici sia per rimanere aderenti alle cose così come sembrano a un primo sguardo, chiamiamo ogni elemento che fa parte della totale esistenza immagine: immagine è la percezione, immagine l’oggetto percepito, immagine il corpo che percepisce. Consideriamo, ora, una stessa immagine che non sia il nostro corpo, sotto i due punti di vista di percezione e di oggetto percepito: sotto il primo punto di vista essa ritrova  le proprie ragioni di essere in un’altra immagine e in una sola, quella del corpo, sotto l’altro punto di vista le ritrova nei vincoli di causa e di effetto che la legano all’universo delle altre immagini. Nel primo caso la percezione A, che è immagine trae esistenza sia dalla posizione del nostro corpo, sia dalla direzione dei sensi del corpo, sia dall’attenzione con cui tutto l’essere vivente si lega ad essa, nel secondo caso l’oggetto A’, che corrisponde alla percezione A e che è anch’esso immagine, vien concepito esistente al di di qualunque corpo e di qualunque posizione di esso, al di di un qualunque atteggiamento di un altro oggetto e di un qualsiasi interesse che quest’ultimo possa sentire per esso. Abbiamo, dunque, che fare con una duplice forma di esistenza di uno stesso dato, duplice forma che non è se non la traduzione in termini causali di quell’opposizione contingenza-necessità che abbiam visto sopra, da un punto di vista puramente descrittivo e non genetico, esser la prima delle due caratteristiche della percezione. Infatti, se nella prima forma di esistenza la percezione è in funzione del corpo, è chiaro che nell’ambiente percettivo e in un complesso di percezioni avremo sempre una successione di funzioni,- 152 -vale a dire un susseguirsi di immagini che saranno ognuna quel che è, non in relazione alla precedente e alla seguente, ma in rapporto al corpo del cui atteggiamento, disposizione, attenzione, son frutto, e ognuna di esse non costituirà per nulla un anello di una catena, ma il raggio di un ventaglio, facente capo a un medesimo centro che ha in comune con gli altri raggi: lo spostarsi di questo centro o il suo modificarsi in un qualunque modo avrebbe di necessità dato luogo a raggi e a ventagli differenti; per questo, la ricostruzione scientifica sul piano della pura percezione è un assurdo. Ma, di contro a questo ventaglio, o meglio a questo numero indefinito di ventagli, si pone una vera catena in cui immagine si sussegue a immagine secondo un criterio di filiazione causale e con una possibilità di previsione, che nella prima posizione manca completamente o è attuata con l’intervento della memoria; e nella catena non compare nessuna immagine che abbia la facoltà di attrarre e raggruppare attorno a sé, capricciosamente, le altre a mo’ di ventaglio, perennemente oscillante e mutevole. Nello stato di percezione, quello a ventaglio, l’immagine giustifica la propria esistenza non da sé e in sé, e la sua situazione è, in fondo, quella che il corpo le ha scelto; nello stato di condizione a catena, l’immagine giustifica la propria esistenza da sé e in sé, in quanto la propria natura e struttura rivela nella propria composizione quei fattori che ne consentono, in virtù del rapporto di causa e di effetto, l’inserzione nella catena, e la sua situazione è quella che le viene dalla sua stessa entità interiore, in quanto questa, per i suoi vincoli di filiazione e di genitura, la pongono in quel punto e solo in quel punto dello spazio e del tempo.

            Il secondo carattere, quindi, di cui debbon tenere conto coloro che fanno oggetto di studio la percezione, è quello della sua  dipendenza ed eteronomia. Ed è a questo secondo carattere che ci si deve rifare se si vuol intendere a fondo il primo, quello della contingenza. Chiunque osservi se stesso nel momento in cui diventa centro di percettività, nota il sorgere di un numero più o meno grande di immagini, la cui quantità, la cui qualità, i cui mutamenti sembrano tutti dipendere dallo stato e dai movimenti del proprio corpo. L’atteggiarsi in un modo o in un altro di questo, il suo spostarsi,- 153 -il suo trovarsi in una certa condizione o in un’altra, costituiscono dei fatti a cui si ricollegano necessariamente l’essere e il modo delle percezioni. La percezione, allora, appare strettamente vincolata al corpo in generale, e, in particolare, a quella parte di esso che è il sistema nervoso; con un’immagine di similitudine potremmo paragonare il corpo a una sorgente di un campo magnetico e le percezioni ad oggetti capaci di risentirne l’influsso: l’esercizio del campo suscita la disposizione degli oggetti, come un mondo che si articola attorno al centro che è la sorgente; le sue variazioni trovano immediata corrispondenza nella variazione di disposizioni e di aggregazione degli oggetti. La percezione diviene, dunque, uno stato eteronomo, in quanto conforma la propria esistenza e il proprio stato all’esistenza e allo stato di un’immagine, che, pur potendo anch’essa diventar percezione, si distingue da tutte le altre per la capacità che ha di influire su di esse, capacità che queste non posseggono non solo nei loro rapporti reciproci, ma anche nei confronti dell’immagine corpo. D’altra parte, se pensiamo che la presenza del corpo, la sua sistemazione, la sua struttura particolare, consentono alla percezione di esistere, e che, al contrario, o all’assenza del corpo o a un’alterazione della sua struttura e della sua sistemazione corrisponde la non esistenza della percezione, dobbiamo riconoscere come la percezione debba andare a ricercare le ragioni della propria esistenza al di fuori della propria essenza. E ancora, se una serie successiva di modificazioni del corpo trova riscontro in una catena di percezioni, ognuna delle quali non allaccia nessun rapporto con la precedente, e se, data una serie di percezioni, quella immediatamente susseguente non può esser dedottaprevista in quanto una qualunque deviazione nel comportamento del corpo può riflettersi o in un arresto o in una deviazione della serie ordinata delle sensazioni, l’impossibilità di preordinare lo stato futuro del piano percettivo in funzione delle condizioni attuali non è che la traduzione in termini sensoriali della variabilità delle condizioni percettive in virtù della facoltà che è data ad una di modificare tutte le altre. Infine, se data una situazione particolare in cui più percezioni entrino regolarmente in rapporto l’una con l’altra, non potremo mai asserire che la presenza- 154 -costante di tutte, ad esclusione di una, assicuri alla situazione l’esistenza e l’esistenza secondo il modo in cui sempre si è data, ciò ancora è da attribuirsi al fatto che la permanenza di un rapporto reciproco nel piano percettivo non è che la corrispondente simmetrica della permanenza di vari atteggiamenti e mutamenti corporei che conservino inalterate le loro modalità e la loro reciproca relazione. In altre parole, le tre condizioni per cui dobbiamo dichiarare contingente la percezione non sono che l’effetto della sua eteronomia. Perciò il problema della contingenza della percezione si trasforma nel problema del rapporto fra le percezioni e quell’immagine privilegiata che sembra condizionarle tutte.

            Si potrebbe obiettare che a noi è realmente dato solo il primo modo di esistenza delle immagini, mentre il secondo è posticcio e supposto. L’obiezione ha il suo peso come quella che fa appello alla banale impossibilità del soggetto-corpo di uscir di se stesso per cogliere l’immagine inserita in una catena e non in un ventaglio. Ma si tenga presente che l’obiezione è in fondo corrotta da due errori: in primo luogo, la presunzione che quando si parla di immagini si  intenda dire percezioni, o, almeno, stati del tutto analoghi o identici a quello di una percezione; in secondo luogo, l’uso bivalente di uno stesso vocabolo, «esistere», sotto due forme distinte. Se la percezione è immagine raggruppata attorno ad altra immagine e in certo modo calamitata da questa, non è possibile applicare il principio di commutazione che è valido per tutte le uguaglianze: qui, infatti, non si ha che fare con un’uguaglianza, ma con una somma, essendo la percezione un’immagine sì, ma un’immagine più qualcosa. D’altra parte, quando sopra si diceva che esistono le immagini organizzate attorno al corpo e quelle organizzate su se stesse, il verbo esistere non aveva altra portata che quello di «esserci», mentre per chi fa l’obiezione precedente, esistere significa nell’un caso «esserci entro di noi», nell’altro «esserci fuori di noi». L’argomentazione di Bergson è, in fondo, più semplice: in un modo, il primo, le immagini si piegano a una dipendenza soggettiva di situazione e di esistenza, nell’altro a una dipendenza oggettiva di situazione e di esistenza. È questa la riduzione ai minimi termini di un intreccio complesso di materi aedi spirito, coscienza e oggetto,- 155 -sensazione e intendimento, in cui le varie componenti intrecciantisi hanno sempre fuorviato la postazione del problema. E il problema è questo: perché una stessa immagine è percezione, mentre contemporaneamente resta immagine? Le dottrine della conoscenza che si son mosse dalla base della contemplazione, necessariamente debbono escludere dal loro calcolo l’immagine-percezione se vogliono salvaguardare a se stesse una certa validità; oppure, viceversa, se con giusto processo non si sentono di chiudere gli occhi su di un dato di fatto reale, debbono ridurre tutto il conoscere alla percezione, con la conseguenza di spogliarsi di ogni valore. Quella dipendenza soggettiva di esistenza e di situazione, propria dell’immagine che sia percezione, appare qualcosa di strano: non si riesce a capire perché una delle immagini si dia a organizzare attorno a sé, secondo il suo capriccio, le altre. Ma se questa organizzazione  non è un capriccio, ma un bisogno, e se il bisogno non è che un impulso a stabilire un particolare tipo di rapporto fra sé e il resto che sta fuori di sé, è chiaro che l’immagine-corpo trasformerà le immagini in immagini-percezioni non per contemplazione, vale a dire per un atto che risulterebbe inutile e ingiustificato al livello gnoseologico della percezione, ma per una finalità, cioè per un interesse particolare. L’identificazione dell’interesse con la prassi, cioè con la creazione di nuovi rapporti, al di di quelli genetici, è la caratteristica che ha posto la teoria della conoscenza di Bergson.

            La teoria che fa della percezione cosciente un dato pragmatico, come quella che delle cose accoglie quanto possa interessare una «virtuale» azione o di esse sulla coscienza o della coscienza su di esse, giustifica la contingenza dell’immagine sensoriale; questa, infatti, non riguarderà né la riproduzione della cosa nel linguaggio della coscienza né un rapporto speculativo fra essa e gli oggetti, ma soltanto una relazione che, essendo interessata, toccherà non il tutto, bensí una parte.

            Sinora, o riflessioni di ordine teorico o il tentativo di un nuovo criterio metodologico sembrano sottendersi alla funzionalità pragmatica della conoscenza. Ma l’aderire nel giudizio ai confronti e riferimenti storici trascura premesse più vive e aventi maggior attinenza con la originalità del pensiero. La dottrina contemporanea- 156 -del parallelismo psico-fisico, racchiusa entro il limite dell’interesse psicologico, serve, se non altro, a dimostrare l’esistenza di una certa connessione fra le condizioni di particolari organi somatici e lo stato del fatto cognitivo elementare, o meglio la dipendenza reciproca che può verificarsi fra le rispettive condizioni. Che risulti difficile mantenere a tale teoria un carattere empirico o convenzionale, senza che a mano a mano trascorra in un principio metafisico, è indubitabile: di ciò si accorge Bergson, e la sua costruzione muove appunto dalla negazione di un qualsiasi uso che di essa possa farsi nell’interpretazione del fatto di coscienza. Tuttavia non può non riceverne quanto di positivo e di meno speculativo contiene: non è dato negare un’attinenza dell’immagine percettiva cosciente con quel gruppo di immagini che chiamiamo il nostro corpo, e in particolare con quell’immagine della cui variazione o modificazione la percezione cosciente sembra funzione. Questo nondimeno non comporta affatto una dipendenza né nell’un senso né nell’altro: la dottrina del parallelismo dell’attinenza argomenta la relazione, mentre invece non è per nulla necessario stringere legami di corrispondenza di condizione, ma è sufficiente postulare un’identità di funzioni o piuttosto di tendenza, di modo che se fra coscienza e sistema nervoso è da supporsi una relazione, la relazione non dovrà essere genetica. Dal momento che l’esperienza ha appreso che la successiva complicazione del complesso sensorio-motore si accompagna da un lato a una coscienza sempre più ricca, dall’altro a un’azione sempre meno determinata, la contingenza, a cui si impronta la percezione, e il progressivo indeterminismo, di cui l’essere fisiologicamente evoluto appare dotato, si manifestano come complementari l’uno dell’altro. Una innegabile correlazione o dipendenza intercorre, in secondo luogo, fra il sussistere della percezione cosciente e il permanere di una indefinita pluralità di modi nel compimento dell’azione. Se, di conseguenza, l’indeterminismo pragmatico ha luogo grazie ad una facoltà di scelta fra infiniti atti, tutti ugualmente virtuali, e se tale facoltà può essere fornita da un’organizzazione nervosa dotata di una particolare complessità di organi, i quali si differenzieranno non per la natura dei compiti, ma per la gradualità di un’unica funzione, il fatto che il sistema nervoso- 157 -

così conformato non possa disgiungere ogni sua modificazione da una coscienza, vale a dire dall’atto cognitivo della percezione, luogo a due interpretazioni opposte: o la percezione è l’equivalente del movimento e allora il rapporto non può non venir riguardato sotto un punto di vista metafisico, il movimento, di per se stesso, essendo causa ovvero occasione ovvero corrispondente  dello stato di coscienza; o la percezione è un elemento interessante l’indefinitezza stessa di un’azione, preparatasi attraverso il sistema sensorio-motore, e allora la condizione che il mutamento fisiologico ha operato, appare inadeguata al fine cui tende, dell’indeterminazione pragmatica, senza l’intervento di un fattore attivo che manifesta la propria intromissione mediante lo stato percettivo. La coscienza, quindi, non è geneticamente dipendente dalla funzione nervosa e, d’altra parte, le è collegata, se per rivelarsi deve attendere che si verifichi quella libertà di scelta che essa soltanto può rendere completa.

            La prima concezione, in quanto attribuisce in qualsiasi caso una indipendenza al fenomeno fisico, è costretta ad assicurare la medesima indipendenza allo stato di coscienza, sia che l’uno si riduca ad effetto dell’altro in un condizionamento essenziale o semplicemente esistenziale, sia che la proporzionalità imposta dal principio causale si riduca alla pura realizzazione simmetrica. La coscienza e la materia, qualunque ne sia la definizione metafisica, prescindono reciprocamente, almeno rispetto allo stato cognitivo, la cui esistenza troverà la propria ragione nella contemplazione. Il secondo punto di vista, al contrario, pone la coscienza a complemento della situazione in cui viene a trovarsi il complesso delle immagini, denominate corpo, sotto l’influsso di una determinata sua costituzione, e, giacché il quadro si completa con la presenza di un’immagine cosciente, la percezione, questa, che in tal modo viene imposta dalla finalità e non già dalla sola esistenza della modificazione nervosa, impronta la propria natura a quella e si orienta alla virtualità dell’azione, così come il movimento cerebrale ne attua i presupposti. La funzione disinteressata della sensazione e la finalità contemplativa attribuita alla conoscenza debbono di necessità incidere sul binomio che ha a un estremo lo stato di coscienza- 158 -e all’altro estremo il fenomeno sensorio-motore: il primo fa dell’oggetto un punto di applicazione che non potrà essere quello del secondo. E una volta accettato empiricamente il condizionamento che la percezione riceve dallo stato fisiologico, vale a dire lo stretto rapporto per cui la modificazione di una determinata immagine cagiona lo sconvolgimento di tutto l’assieme delle immagini di cui pure quella privilegiata fa parte, il presupposto, che fa dello stato cognitivo un puro atto di contemplazione, induce sia a soprassedere alla relazione, misconoscendola ovvero rendendola inintelligibile, sia a definirla subordinandola a una delle leggi che regolano i rapporti delle varie immagini fra di loro. Quando al contrario si supponga  una pragmaticità, inerente a tutti i dati della conoscenza, si può ancora assumere il medesimo problema, con la differenza  fondamentale, tuttavia, che l’ipotesi, posta come premessa, identifica l’attitudine della coscienza, nei confronti delle infinite immagini, con l’atteggiamento che una di esse assume di fronte al tutto. Non si dirà, allora, che quest’ultima condizione va unita alla coscienza, nel qual caso non si farebbe che riconoscere uno stato di fatto, ma si attribuirà al privilegio di cui l’immagine appare in possesso, di stabilire cioè un’indeterminazione, la facoltà di accompagnarsi a ciò che non può sussistere se non dove si dia contingenza. Il difetto di una complessità adeguata del sistema sensorio-motore o una imperfezione che intervengano nel suo funzionamento, debbono, di conseguenza, annullare la coscienza, come quelli che elidono le condizioni favorevoli a un suo intervento. Ma in ciò non si introduce alcuna proposizione di genesi. Solo un’identità di atteggiamento, quello della pragmaticità, impronta la presenza dell’una all’organizzazione dell’altra. Perciò la percezione è la manifestazione di una  tendenza all’azione e si solo quando si verifichino  le condizioni sufficienti.

            La conoscenza tuttavia non si arresta alla sfera del sensibile: all’immagine che si mediante la funzione dei sensi, si giustappone il concetto, la cui presenza induce a riconoscere alla coscienza l’attitudine particolare dell’intelletto, in quanto è volta a cogliere l’intelligibilità nelle cose.

            Quando si aderisca all’indirizzo critico, si deve di necessità- 159 -abbandonare la contrapposizione del sensibile all’intelligibile e misconoscere un qualsiasi valore a un principio di intelligibilità universale, in virtù del quale l’esistente trovi la propria ragione nel lasciarsi ridurre alle leggi dell’intelletto. Queste leggi – qualunque ne sia il numero che si considera – si riducono a dei rapporti che la coscienza impone alle cose, così come le si manifestano nella rappresentazione. L’attitudine a fare delle cose degli intelligibili – la si chiami intelletto o intendimento o intelligenzarisulta coincidere con la funzione di «stabilire dei rapporti».

            Bergson con ciò rimarrebbe aderente alla tradizione del soggettivismo gnoseologico, col ritenere appunto il principio del rapporto implicito alla natura della stessa coscienza, se di contro non se ne discostasse oltrepassando il limite della dichiarazione e definizione del principio e innalzando a problema non la funzione, ma l’essenza del rapporto. Chi fa della conoscenza un’operazione disinteressata, non può, per coerenza, non vedere nell’intelligenza una facoltà tesa alla pura speculazione, a quella contemplazione cioè che fa di sé il proprio fine. Il disinteresse, di cui appare dotata, l’intelligenza nel suo compito, si accompagna alla specifica definizione di quest’ultimo, che si dimostra attuarsi attraverso l’unificazione, vale a dire con l’introduzione di un’unità nella diversità dei molteplici fenomeni; la conseguenza può essere una soltanto: l’assolutezza degli schemi, entro i quali ha luogo l’unificazione delle immagini nella reciproca relazione, e, quindi, l’irriducibilità loro. I rapporti eretti a principi formali logici, costituiscono qualcosa di insuperabile; di essi non si può dare spiegazione alcuna, se non per ciò che riguarda la loro forma e la loro funzione; il loro complesso, che è stato chiamato la «ragione», appare come il grado supremo cui la coscienza può giungere nella dichiarazione della propria realtà. L’intelligenza, dunque, è una facoltà di conoscenza che esplica il proprio ufficio raccogliendo una molteplicità entro l’unità di un rapporto logico: essa agisce solo per conoscere e per conoscere unifica. Da tutto ciò può derivare solo una relatività della conoscenza, se è vero che l’intelligenza non dipende da null’altro che dagli schemi formali, mentre tutto il reale è costretto a sospendersi ad essa e, quindi, ai suoi criteri, e nulla impedisce di ritenere che questi avrebbero- 160 -potuto essere altri da quel che sono. «E così per aver posto l’intendimento troppo in alto, si finisce per porre troppo in basso la conoscenza che esso ci ».

            Una volta, al contrario, che si riconosca valida la relazione che intercorre fra intelligenza e sensibilità, come quella che consente alla molteplicità sensoriale di organizzarsi e sistemarsi nell’unificazione del concetto, si stabilisce, è vero, fra le due facoltà una differenza che non è più di natura, ma semplicemente di misura. Un unico e medesimo carattere si sottende alla conoscenza che delle cose si ottiene mediante la rappresentazione per immagine e la rappresentazione per intelligibile, potendosi la funzionalità della percezione trasferire alla natura del concetto. La conoscenza, quindi, che delle cose, fornisce l’intelligenza, partecipa di quella pragmaticità, vale a dire di quella subordinazione ai fini dell’azione, che abbiam visto consentire la realizzazione della percezione cosciente. E se l’ufficio di unire, caratteristico dell’intendimento, si esplica  per mezzo di schemi formali da adattarsi al molteplice fenomenico non appena l’unificazione si dichiari una delle manifestazioni di tendenza all’azione, quelle che prima apparivano pure esigenze della conoscenza, si riducono ora a condizioni necessarie di un determinato tipo d’azione. In tal modo, quantunque la cognizione, che da essi dipende, permanga relativa, tuttavia la ragione cesserà di apparire assoluta e irriducibile, e il dato intelligibile resterà sospeso meno all’intelligenza che a una modalità complessa dell’azione, come già il dato percettivo dipendeva meno dallo stato fisiologico che dalla virtualità pragmatica che un particolare stato di un’immagine delineava nelle proprie relazioni con la totalità delle restanti immagini.

            Anche l’intendimento o intelligenza rivela  nei propri atti una finalità pragmatica e, nelle sue funzioni, una tendenza all’azione, sia per i rapporti che di necessità si stabiliscono fra esso e la sensibilità sia per la norma fondamentale che dello stato di coscienza cognitivo e dell’esigenza attivistica fa due aspetti di un’unica attitudine. Il criterio generale della posizione critica riduce la conoscenza a un movimento la cui direzione è volta dal concetto alla- 161 -cosa e non dalla cosa al concetto: donde un relativismo gnoseologico.

            L’universale intelligibilità delle cose è da intendersi, dunque, non come indefinita possibilità del reale di tradursi in fenomeno e di unificarsi nelle varie relazioni che il pensiero stabilisce, ma come ineliminabile esigenza insita nella coscienza di agire sulle cose, di impadronirsene, di servirsene. L’esistere della coscienza impone un rapporto pragmatico fra essa e il reale, qualunque ne sia la natura; ma il rapporto, d’altra parte, non si attua se non grazie ad un adattamento del reale a schemi tali che consentono alla coscienza di inserirvisi. Questo adattamento non è in definitiva altro che la coscienza medesima.

            D’altra parte, la diversità delle relazioni d’azione, vale a dire le varie o addirittura opposte modalità, secondo cui può attuarsi un’azione, richiedono una differenza nell’assunzione del reale alla coscienza  [[ refuso di stampa da togliere: di inserirvisi. Questo adattamento non è in definitiva altro]] [[da sostituire con la seguente dicitura del dattiloscritto: e  di conseguenza varie ed opposte finalità cognitive. In]]fatti, l’azione per effettuarsi può seguire due vie: una immediata, per cui si applica direttamente all’oggetto, si serve senz’altro e soltanto di esso; una mediata, per cui la sua attuazione coinvolge un numero vario di oggetti implicantisi a vicenda. Nel primo caso, l’esigenza che pone l’azione e che in vista dell’esistenza dell’individuo non è se non la soddisfazione di un bisogno, è di tale natura che un unico mezzo soddisfacente può adeguare la semplicità del bisogno; nell’altro caso, l’esigenza ha raggiunto tale complessità da aver bisogno di una soddisfazione altrettanto complicata. il rapporto fra il soggetto agente e il termine dell’azione consente che il mezzo coincida con un solo oggetto; qui il medesimo rapporto impone che una moltitudine di oggetti costituiscano il mezzo. Ora, se dove l’azione si applica a un solo oggetto avremo tanti tipi d’azione quante sono le necessità che investono l’esistenza posta di fronte all’oggetto, e a ciascuno di essi potrà corrispondere solamente un determinato oggetto, dove, viceversa, l’azione si attua attraverso una unificazione di più elementi, l’uno complementare dell’altro, in vista dell’unicità di uno scopo, noteremo ancora una dipendenza dei tipi pragmatici dalle determinate esigenze esistenziali, ma essi saranno molto meno legati alla presenza e alla natura- 162 -degli oggetti da cui la coscienza è circondata. In questo caso, invero, l’azione per realizzarsi non necessita dell’esistenza presente di un oggetto specifico, ma le è sufficiente che si verifichino condizioni atte all’uso delle relazioni formali che determinano la genesi dell’unità indipendentemente dalla diversità dei molteplici che vi intervengono.

            La prima modalità pragmatica lega la soddisfazione di un bisogno alla realtà di un oggetto corrispondente e di conseguenza da un lato limita il numero dei bisogni a una quantità immutabile, impedendo un qualsiasi sviluppo progressivo della specie, dall’altro sopprime qualsiasi rapporto di libertà fra la coscienza e le cose, in quanto è la natura specifica di ognuna di queste a iniziare l’azione e a proseguirne lo sviluppo. La seconda modalità, al contrario, impronta la soddisfazione dell’esigenza alla virtuale realizzazione di determinati rapporti nella realtà cui l’azione è rivolta, e con ciò stesso non solo lascia indeterminata la quantità dei bisogni che urgono l’individuo alla prassi, non essendo più l’attività stabilita dall’essenza dell’oggetto, bensì dai suoi possibili riferimenti ad altri infiniti oggetti, ma conferisce alla coscienza una libertà di relazione con ciò su cui essa agisce, giacché dall’indeterminatezza delle cose che vengono a riempire l’identico schema formale e dalla variabilità indefinita che gli schemi consentono deriva una varia virtualità di posizioni del soggetto d’azione rispetto all’oggetto d’azione e viceversa, virtualità che è contingenza.

             Proseguendo, se si accetta che la conoscenza non è se non un aspetto dell’azione, di fronte alla duplice modalità pragmatica sussisteranno due modi di conoscenza: uno adeguato alla prassi immediata, l’altro rispondente alle necessità della prassi di relazione. L’istintosecondo Bergsonrappresenta il primo modo di cognizione: la caratteristica pragmatica che gli è sottesa non gli consente alcuna rappresentazione cosciente; ne fa, in altre parole, una sfera priva della luce della coscienza, come quello che va accompagnato da necessità di genesi e di sviluppo di un’unica azione possibile dinanzi all’esistenza dell’oggetto. Esso è un’applicazione diretta al mondo delle cose di un soggetto che per agire non sente- 163 -il bisogno di rappresentarsi, appunto perché su di lui grava la necessità dell’attuale.

            L’intelligenza, d’altro canto, come attività formale, che mediante la relazionalità degli schemi unifica il molteplice, adempie all’ufficio che le demanda l’azione che non si lascia condizionare dall’oggetto; ma fra l’esercizio della sua formalità e la virtualità d’atteggiamento pragmatico si inserisce la necessaria presenza di una rappresentazione cosciente che traduca in immagine, vale a dire dia consistenza a tali rapporti di contingenza. L’istinto è alieno dalla coscienza, l’intendimento non può non accompagnarsi al senso cosciente. La percezione, allora, non solo apporta coscienza all’attività intellettiva, costituendo un elemento di virtualità pragmatica che si manifesta nell’immagine sensoriale, ma luogo a quella molteplicità che l’intelligenza non è in grado di fornire a se stessa e di cui non può privarsi, per esercitare le proprie funzioni formali.

            È certo, tuttavia, che Bergson per poter rimanere aderente al generale fondamento del relativismo gnoseologico e per ricondurre tutte le forme di conoscenza umana all’unico principio  che le condiziona e le modella, all’azione, deve compiere nei riguardi dell’intendimento quel superamento di descrizione formale che ha operato a proposito della percezione. E nel far questo rimane in certo modo aderente al presupposto, comune ad ogni relativismo, della differenza di grado e non di natura esistente fra percettività e intelligibilità e all’impegno di oltrepassare il limite di relatività attraverso l’indagine e la scoperta di quello che è il nucleo genetico della relatività stessa. Il procedimento è analogo, anche se diversi sono necessariamente i risultati. Data come oggetto la percezione, se ne è riconosciuta la relatività, per ciò che in essa vi è di parziale, di statico, di immobile; insieme, se ne è dichiarata la validità grazie all’introduzione di un terzo termine tra i due, quello del rappresentato e quello della rappresentazione, terzo termine che è la funzionalità pragmatica di quest’ultima: [[dividendo]] divenendo*  la percezione il segno di un’indeterminatezza o contingenza nei rapporti di azione e reazione della coscienza col mondo, assumendosi la sensazione come un effetto di quella che è la condizione di esistenza della coscienza stessa in cui la sensazione si opera o meglio di cui- 164 -la sensazione è fatta, come un effetto cioè della differenza fra un’immediatezza e necessità d’azione e una possibilità e libertà d’azione, sensazione e percezione divengono traduzioni particolari che la coscienza opera entro di sé di quanto le si vien squadernando davanti: e le traduzioni è logico che siano delle libere interpretazioni. Non si ha allora, l’impegno di elencare i motivi per cui una percezione si debba dichiarare relativa, e neppure c’è il bisogno di sistemare la percezione nei confronti dell’organo che le è correlativo e simultaneo, nel primo caso perché il relativismo sgorga necessariamente dalla finalità e funzionalità della percezione stessa, nel secondo perché il cervello diviene non già lo strumento creatore di coscienza, quanto, invece, un meccanismo montato in modo tale da consentire una situazione di indeterminatezza di cui la coscienza approfitta per atteggiarsi a percezione. Nessuna problematica, quindi, di descrizione; una volta posto il presupposto dell’azione, la percezione viene necessariamente dedotta senza che ci sia bisogno di soffermarsi né su una fenomenologia della percezione né su un rilievo dato al confronto fra percezione e termine percepito, rappresentato, però, sotto l’aspetto in cui l’intelletto può coglierlo al di della percezione stessa. Ricondurre la percezione al suo primo principio della funzione pragmatica libera Bergson dal bisogno sia di indagine psico-fisiologica sulla sensazione e, quindi, di una sua descrizione formale, sia di considerazioni su di essa condotte dal punto di vista dell’intelletto, funzionante sotto l’impulso di un qualsiasi criterio razionale. Uguale è la strada che si batte per giungere alla comprensione e alla sistemazione dell’intelligenza. Una volta enunciato l’aspetto più semplice dell’intelligenza, quello universalmente accettato di facoltà di conoscere per rapporti, invece di addentrarsi in profondità nella struttura del suo telaio di rapporti, invece di soffermarsi sulla catalogazione e quantificazione della molteplicità dei rapporti, ci si limita a ricercare il fatto più semplice, la cui  manifestazione attesti  della presenza di un’intelligenza.

             Sarebbe stato da attendersi che dalla dichiarazione di principio di un’unità naturale fra intelligenza e percezione, si passasse senz’altro a un’estensione alla prima del principio primo della seconda e che, perciò, automaticamente le si applicasse la funzionalità

  ……………  - 165 -pragmatica. Ma Bergson è un animo vigile e attento, pronto a cogliere tutti gli aspetti della realtà su cui indaga: non gli sarebbe potuto sfuggire che tale estensione avrebbe avuto tutti i caratteri di un apriorismo, destinato ad offrire i fianchi non solo alle obiezioni più semplici che ogni enunciazione a tipo di presupposto solleva immediatamente, ma anche a quelle promosse dall’evidente  carattere di teoreticità, di astrazione e di attitudine allo svincolo dalla prassi, di cui l’intelligenza si dimostra fornita a un primo sguardo. Di qui la necessità di rifarsi all’esperienza o meglio a quel complesso di fatti molteplici e connessi, che è il mondo, complesso di cui l’intelligenza [[refuso di stampa da togliere; non compare nel dattiloscritto: è il mondo, di cui l’intelligenza]] è una parte [[refuso di stampa da togliere; non compare nel dattiloscritto: e su cui…una parte]] e su cui l’esperienza chinandosi può raggiungere l’intelligenza, per dir così, dal di fuori, tentandone la conoscenza con un moto che dalle cose porti all’intelligenza, non dall’intelligenza alle cose. E poiché si dichiara presente l’intelligenza dove si presenti il montaggio di un meccanismo, il cui valore non dipenda tanto dalla maggiore o minore complessità della sua costituzione, quanto dalla sua esteriorità e indipendenza dall’organismo che l’ha montato e dalla sua capacità di prolungare e ampliare le facoltà di azione dell’organismo stesso, si deve dichiarare che l’intelligenza è una facoltà atta a costruire macchine che l’individuo cosciente utilizzerà nella sua lotta per la vita e che saranno dei veicoli artificiali, dei canali sovraggiunti, sui quali e lungo i quali scorrerà la sua azione sulle cose. L’intelligenza in tal modo trova la sua ragion d’essere nell’azione, e, viceversa, l’azione diviene il primo principio dell’intelligenza, la condizione della sua struttura e del suo modo d’essere. D’altra parte, come la percezione non può trovare la propria ragion d’essere in se stessa, in quanto, immagine in un mondo di immagini, potrà trovare comprensione solo attraverso un’opera di indagine che riporti la parte al tutto e colga la parte immersa  nel tutto, così l’intelligenza non può essere compresa, giustificata, spiegata, con un moto che faccia centro solo in essa e non si preoccupi di coglierla nell’unione col mondo assieme al quale e sul quale opera. E si badi che alla base di questo primo passo verso l’interpretazione dell’intelligenza vi è lo spunto permanente di tutta la filosofia di Bergson: capire  le cose significa anzitutto giustificarle- 166 -e giustificarle significa coglierle nella loro genesi; qualcosa di simile, se non di identico, era stato alla base del pensiero di Kant, solo che il Tedesco aveva voluto giustificare l’intelligenza cogliendola come un momento della coscienza e astraendo tale momento come identificato con la totalità della coscienza stessa, con la conseguenza che il problema della genesi doveva essere per lui risolto entro l’intendimento stesso e coincideva con il problema dell’unità, o sentimento di identità e di permanenza, della coscienza. E, inoltre, come il riportare la percezione, considerata come immagine, entro la totalità delle altre immagini costituenti il mondo, ne ha posto in rilievo la differenza e ha consentito di giungere a una soluzione della sua essenza sia nei confronti dell’individuo, dai cui spostamenti dipendono le modificazioni dell’atto percettivo, sia nei confronti del percepito, di cui la percezione diviene un aspetto privilegiato come quello su cui l’individuo è in grado di esercitare la propria azione senza esser costretto ad attuarla, così l’inserzione  dell’intelligenza nel complesso degli intelligibili consente da un lato di vedere nella facoltà un’attitudine a manovrare quegli intelligibili, a spostarli, a variarli, a coordinarli secondo schemi fissi, dall’altro a scorgere negli oggetti che soggiacciono alla facoltà, degli enti cui è adattabilissimo lo schema secondo il quale si attua lo spostamento, la variazione, la coordinazione. L’intelligenza appare così un atteggiamento della coscienza capace di spostare degli oggetti e di sistemarli  nell’armonia di un piano; e, poiché lo spostamento e la sistemazione avvengono attraverso una serie di movimenti pari ad altrettante esplosioni di energia che pongono in moto meccanismi che si son montati entro l’organizzazione stessa dell’individuo vivente, si delinea non solo il rapporto fra intelligenza [[a]] e* materia, ma anche quello che lega  l’intelligenza  alla volontà, agli organi motori e alla percezione. L’unità della vita, infatti, si attua attraverso una gamma più o meno vasta di azioni la cui possibilità e indeterminatezza si riflette nella rappresentazione cosciente che l’individuo si degli oggetti su cui può agire, attraverso una scala di sforzi più o meno riusciti il cui esercizio rappresenta la volontà di vivere quale si manifesta tramite una serie di impulsi che sono altrettante reazioni di realizzazione a quegli inviti all’azione costituiti- 167 -dalla percezione, e attraverso una serie di modalità di azione che costituiscono i vari metodi con cui la volontà tesa all’azione tenta di trasformare gli inviti in realtà agente ed efficace. L’intelligenza riesce un semplice mezzo di inserzione fra l’invito e la realizzazione, o meglio uno dei sistemi con cui l’azione può essere attuata, e perciò trasportata dal piano della possibilità al piano dell’essere: di conseguenza, diviene, per dir così, una delle branche con cui la coscienza, in quanto azione, tenta di inserirsi e di attuarsi nel mondo, e, come tale, non è che una manifestazione delle condizioni non già del modo con cui la coscienza conosce, ma dei mezzi che alla coscienza si offrono per diventare azione vissuta. Solo sotto questo aspetto l’intelligenza è la prosecuzione della percezione, e solo da questo suo fondamento genetico si possono ricavare motivi atti  a far comprendere sia le identità sia le differenze che intercorrono fra percezione e intendimento.

            Percepire e intendere si accostano l’uno all’altro e divengono l’uno il proseguimento dell’altro nei caratteri comuni della selettività e della discontinuità, del libero e del cosciente: si potrebbe, anzi, dire che queste note distintive che compaiono come semplicemente caratteristiche nella percezione, divengano predominanti ed esclusive nell’intelligenza, quasi l’intelligenza costituisse il compimento e l’esasperazione di ciò che nella percezione era semplicemente abbozzato. Se in quella sintetica unità che costituisce l’universo, in cui non si parteelemento in quanto infiniti scambi di interazioni allacciano zona a zona in una progressione continua, determinati corpi riescono a celare a se stessi le catene unitarie creando, dove esistono dei continui, degli intervalli di vuoto e di non sentito che son, per dir così, i campi di separazione fra percezione e percezione, l’intelligenza prosegue quest’opera selettiva e la conduce al limite, in quanto in primo luogo nell’interno della sensazione opera una suddivisione fra l’identico e il comune  da una parte, il personale e il differente dall’altro, in secondo luogo annulla questi ultimi e lascia vivere solo i primi, dando così diritto di cittadinanza solo al concetto, il quale non è che la selezione operata sulla selezione: di qui la possibilità di un linguaggio le cui colonne reggitrici sono appunto costituite  dai sostantivi, dagli aggettivi,- 168 -dai verbi, che non sono se non un modo o un aspetto di tale selezione e che nella propria applicabilità ad enti personali e ad individui di una stessa classe riproducono la struttura dei concetti di oggetto, di qualità, di mutamento, concetti che sono la risultante di un secondo grado di selezione. Riportata questa descrizione dal piano formale o esteriore di ciò che appare alla superficie  della coscienza, al piano essenziale o genetico di ciò che la coscienza produce in sé per l’intervento dei suoi comportamenti naturali e fondamentali, spiegato cioè il fenomeno dal punto di vista della funzionalità pragmatica, l’opera selettiva dell’intelligenza si manifesta come una prosecuzione della finalità insita nel percepire: come la selezione per immagini è la risultante dell’inserzione di uno stato di possibilità nel campo d’azione dell’individuo vivente, così la selezione per concetti è l’effetto dell’inserzione di un particolare modo di attuazione nella sfera di tale possibilità; poiché tale modo consiste nel montaggio o costruzione di organi d’azione artificiali che siano il prolungamento degli organi d’azione naturali e biologici, e poiché la costruzione deve avvenire con un accostamento di oggetti la cui unificazione in vista di un’azione deve aver luogo grazie a una possibilità di porsi in una particolare relazione l’uno con l’altro, è necessaria la prima selezione, quella della percezione, che consente l’identificazione dell’oggetto, ossia la sua erezione da aspetto inscindibile di un tutto a parte autonoma e discreta di un insieme la cui struttura sia meno una fusione che un incastro di elementi separati e distinti, e, d’altro canto, s’impone la seconda selezione, quella che attraverso il rilievo dato al puro fattore di identità consente di maneggiare e di montare gli oggetti indipendentemente dalle differenze che costantemente la percezione vi ritrova e sottolinea  [[e*]] in funzione di una permanenza in essi di una o più attitudini a porsi in relazione con altri oggetti, che questi trattati allo stesso modo. Sotto tale aspetto macchina e linguaggio, strumento di lavoro e parola, sono la manifestazione visibile di uno stesso comportamento dell’intendimento, che proviene da quel fondamento pragmatico che è sotteso ad intelligenza  e percezione nello stesso modo e secondo direttive analoghe.

            Dal momento che, poi, la selezione che s’opera in vista della- 169 -percezione e la selezione che s’opera in vista del concetto, consistono entrambe nell’annullamento di tutto ciò che del reale non interessaazione possibileazione per macchina o per strumento artificiale, e dal momento che all’annullamento consegue una conoscenza per distinti, è chiaro che percezione e intelligenza tendono entrambe alla discontinuità, o, per dir meglio, che l’intelligenza conduce alla sua perfetta sistemazione quella tendenza alla discrezione che era già implicita nella percezione. Infatti, nella percezione la discontinuità è più qualitativa che geometrica ed è frutto più di attenzione, cioè di intervento attivo della coscienza tesa ad utilizzare la percezione, che di realtà intrinseca; la percettività, massimamente quella che s’opera in correlazione all’organo della vista in piena efficienza, è un continuo variopinto e multiforme, mentre anche la percettività che si lega alle altre manifestazioni eterogenee del tatto e dell’olfatto, lo sono potenzialmente e potrebbero sempre raggiungere la continuità qualora l’attenzione alla vita interessasse organi dei sensi e coscienza a quei continui qualitativi che anche nel mondo dell’olfatto e del tatto sussistono ininterrotti. Ma è appunto grazie alla multiformità e molteplicità qualitativa di questo continuo che vi si può instaurare una discontinuità che non sarà di separazione, ma di giustapposizione. L’intervento dell’intelligenza stabilisce di fatto quella discrezione che la percettività serrava in sé solo di diritto. E se nella percezione si può anche ignorare la continuità di giustapposizione in seguito all’intervento di un interesse particolare per una determinata qualità o gruppo di qualità, interesse che porta a porre in rilievo tale qualità o gruppo e a concentrarvi tanto l’attenzione da giungere all’estremo di una completa ignoranza e disinteresse per tutto ciò che costituisce la prosecuzione o il prolungamento della o delle qualità stesse, nell’intelligenza non è neppur più necessario un intervento di attenzione, in quanto essendosi operata, per sintesi e per selezione assieme, una eliminazione delle qualità individuali e una concentrazione intorno a un solo asse di una pluralità  più o meno ampia di identici, non solo si è operata la fusione di più qualità in un’organizzazione  cui si il nome di oggetto – con la conseguenza della suddivisione del mondo di immagini continue e giustapposte in un mondo di oggetti- 170 -confinanti e autonomi, ma in tale fusione si è operata una concentrazione di individualità  consistente nell’attribuire ad alcuni caratteri la qualifica e la dignità di puri e sufficienti rappresentanti di tutto l’oggetto. Tale operazione richiede un duplice grado di astrazione, da un lato l’astrazione di una pluralità di oggetti dalle situazioni, diverse nel tempo e nello spazio, in cui ciascuno  si è dato, dall’altro un’astrazione entro ciascun oggetto di un nucleo semplice o complesso di identici. La nascita del concetto è, quindi, lecita alla condizione che si sottoponga l’universo a un’opera di frazionamento indefinito e illimitato, e che si consideri l’universo atto a tollerare tale frazionamento da qualunque punto si parta per ottenerlo e in qualunque modo venga operato. Il concetto stesso, di contro, sarà un discontinuo, sia per quel processo di condensazione di più in un solo sia per quell’esasperazione di differenziazioni che deve sussistere fra concetto e concetto e che unica concede al concetto di porsi nell’intendimento come un intelligibile. Che se poi si passa al giudizio, è facile osservare come esso consista in una giustapposizione di dissimili che per un certo aspetto e per un certo modo possono essere l’uno ricondotto all’altro, e come in esso si salti da un elemento a un altro in virtù  di una similarità o di un’uguaglianza che si riscontrano in elementi distinti: e l’unità del giudizio, e a maggior ragione del discorso, consiste anch’essa in un’opera di ulteriore astrazione, in quanto risulta dal rilievo dato a un determinato fattore che risulta comune a fattori diversi e distinti, e la cui comunanza e identità consente di ricondurre l’uno all’altro i diversidistinti elementi. Dal punto di vista del primo principio, la finalità pragmatica, la discontinuità ne è  l’effetto necessario: essa, infatti, nella percezione rappresenta la facoltà di spostare liberamente da un punto a un altro dell’universo la mira di scarica delle energie creatrici e attive, e di fare di questo o quell’aspetto dell’universo il centro di un’azione che ha tratto origine dai particolari rapporti con cui la totalità dell’individuo s’è sentita a un certo momento interessata a tale aspetto; nell’intelligenza, rappresenta una delle condizioni con cui la modalità scelta dalla specie per agire, la modalità dello strumento artificiale, può verificarsi; non sarebbe possibile che l’organismo vivente si desse- 171 -degli organi d’azione esterni ed accessori se non ponesse a propria disposizione una serie di oggetti atti a porsi, tutti nello stesso modo, in relazione con altri e ad agire sugli altri secondo certi funzionamenti che dipendono dalle relazioni stesse, e tutto ciò è lecito che si verifichi alla condizione che l’organismo non solo selezioni degli oggetti, intagli cioè delle parti nella grande corrente dell’universo, li renda statici, discreti e scostabili l’uno dall’altro, ma anche colga in essi particolari caratteri per cui riescono tutti ad agire nello stesso modo, sia nei rapporti reciproci sia nei rapporti col resto del mondo e in particolare con quella parte del mondo su cui si vuole agire – il che non significa altro che la costruzione di strumenti artificiali d’azione è lecita alla condizione che l’individuo riduca l’indefinito molteplice a classi e, quindi, gli oggetti a concetti.

            D’altra parte, l’intelligenza si trova ancora sulla linea della percezione e costituisce anzi un più alto livello di concentrazione di essa, per ciò che riguarda l’equazione fra rappresentazione e indeterminatezza. Una volta che si è ricondotta la rappresentazione per percezione a un principio pragmatico e che si è fatta di essa una virtualità d’azione, una volta cioè che la percezione rappresenta lo scarto  fra l’azione necessaria  immediata e attuale e l’azione per scelta, fondata sul calcolo che richiede una posticipazione dell’atto, l’intelligenza, almeno quell’aspetto dell’intelligenza che è l’attività  concettualizzatrice, deve costituire il perfezionamento della tendenza  e dev’essere riguardata come l’estremo e il sommo di indeterminatezza che viene offerto all’azione di un essere vivente. L’organismo vivente trova nella percezione il modo di trasformare l’immagine neutrale in un’immagine che l’interessa o, meglio, lo può interessare in uno dei suoi bisogni o in una delle sue repulsioni: sotto tale aspetto la percezione risulta un duplicato della realtà, ma non come copia conforme, contingente, e, per ciò stesso, inutile, ma come ricalco elaborato e manipolato, selezionato, passato al crivello dell’interesse vitale e innalzato a bersaglio utile  dell’esplorazione pragmatica. Ma anche dopo una siffatta manipolazione, la rappresentazione sensoriale non offre sufficiente appiglio all’azione, in quanto essa di tutti i caratteri costitutivi di quel momento confuso nella continuità dell’universomomento che è stato ridotto- 172 -a qualità prima e ad oggetto poi – manifesta per selezione, solo gli aspetti di interesse, l’attrazione o la repulsione, atti a suscitare e ad avviare il tipo d’azione, ma rinserra ancora celati i caratteri che permettono di montare il meccanismo d’azione, sia che tale meccanismo interessi immediatamente l’individuo e l’oggetto sia che si ponga come strumento di mediazione fra l’uno e l’altro. La conoscenza per rappresentazione sensoriale è superficiale e di avviamento.

            Di qui la necessità di un secondo grado di conoscenza, che, nel caso dell’intelligenza, consiste in una successiva elaborazione della rappresentazione in concetto, ossia in una successiva rappresentazione che nella percezione opera il distillato di tutte le caratteristiche che si presentano identiche in una classe. E se tale enucleazione pone in rilievo aspetti che non già stabiliscono un immediato necessario uniforme contatto fra oggetto-classe e individuo vivente, ma anzi si limitano a scoprire i punti di appiglio per una eventuale catena di rapporti e anzi aprono  all’essere vivente la possibilità di instaurare un numero rilevante di catene di vario tipo fra cui la scelta può essere operata, l’intelligenza non solo completa quello che era il semplice avviamento fornito dalla percezione, ma spalanca la fessura aperta dalla percettività e la trasforma in una breccia in cui l’indeterminatezza esce ed entra con tutta libertà: e tale indeterminatezza non riguarda certo la struttura  del concetto, che è una e non può essere che tale, ma riguarda la natura genetica di esso, vale a dire la sua finalità di strumento d’azione. Come l’intelligenza, tesa alla fabbricazione di strumenti artificiali ha dovuto trasformare la percezione in concetto, così la stessa intelligenza si pone come libertà in quanto dal numero dei concetti estrae a scelta quella catena di rapporti e di connessioni che meglio può articolarsi in ponte di unione fra l’individualità vivente e l’oggetto che ne interessa l’azione.

            Al disotto della necessità che impera nella sfera dell’intendimento sussistono una indeterminatezza e una libertà le quali non sono certo da ricercare entro ciascuna catena di rapporti, in quanto induzione e deduzione – che sono i prototipi cui ogni catena può essere ricondotta – sono entrambe fonti di necessità e di unicità, ignorando la contingenza e la sostituzione, ma vanno ritrovate  sia- 173 -nella possibilità di seguire a piacere una qualunque catena pur partendo dallo stesso anello iniziale, sia nella possibilità di far rientrare un numero sempre più vasto e sempre più eterogeneo di oggetti rappresentati nell’unicità di struttura e di comportamento di una stessa e sola classe. Sotto questi due aspetti di libertà ritroviamo ancora le due facce che la fondazione pragmatica della teoria della conoscenza conduce a scoprire in ognuna delle attività gnoseologiche: da un lato, quella che possiamo chiamare la faccia del funzionamento, quella che psicologia e logica, ciascuna nel suo campo, studiano, esplorano, definiscono e catalogano, dall’altra quella del valore e del significato, aspetto che una teoria della conoscenza che voglia ricondurre all’unità della persona le diverse attività è condotta a porre in rilievo: l’una non può essere compresa a pieno se non viene ricondotta alla seconda; e come la relatività della rappresentazione qualitativa per immagini non può essere giustificata se non sotto i condizionamenti della selezione e dell’interesse pragmatico imposto dalla vita, così la riduzione a quantità dell’eterogeneo e molteplice qualitativo e la discorsività per cui i concetti si collegano secondo schemi diversi di rapporti e relazioni determinate, non vengono illuminate se non a patto che si colgano come esigenze della finalità sottesa all’intendimento, ossia l’invenzione e il montaggio di strumenti che compiano azioni indipendentemente dalla struttura qualitativa degli organi che li compongono e subordinatamente solo ai rapporti che ogni strumento richiede e che ogni oggetto componente sopporta. È certo che la libertà  che l’intelligenza raggiunge grazie al funzionamento che deve attuare per soddisfare ai suoi compiti, è la più alta che si possa raggiungere, e, anche sotto questo aspetto, è il perfezionamento di quanto in nuce era già dato nella percezione. Qui abbiamo un’immagine che, nata ad interessare la vita, continua a rimanere immagine anche quando temporaneamente l’interesse si spegne: è un indirizzo, un metodo di contatto fra la vita e il suo ambiente; l’indirizzo, il metodo danno le loro creature le quali esplicano il loro ufficio al momento del bisogno, ma conservano la loro natura anche nei momenti in cui il bisogno spento non richiede loro l’esplicazione dell’ufficio. Di qui l’origine di quell’aspetto di teoricità, di contemplazione,- 174 -di disinteresse dell’immagine: colui che contempla, dipingendo o fotografando o cinematografando, in vista di un particolare scopo, può a un certo momento dimenticarsi della mediatezza, della strumentalità della sua contemplazione, solo che lo scopo si faccia intercorrente o pulsante. Nell’intelligenza abbiamo dei concetti e dei giudizi, vale a dire dei gruppi statici di caratteri comuni e identici, e delle possibilità di connettere in ragnatele di rapporti uno o più di tali gruppi o caratteri, o meglio la facoltà di porre in relazione reciproca tutto ciò di quantitativo a cui il qualitativo può essere ridotto: sotto tale aspetto, concetto, giudizio, matematica e logica si unificano; la strumentalità dell’intelligenza le impone la funzionalità del rapporto; ma se la strumentalità è intermittente, finisce per prevalere e svilupparsi agli occhi del vivente la funzionalità, fino a diventare qualcosa di autonomo, di separato, di indipendente dal quadro totale della vitalità in cui l’intelligenza è immersa. E, come si diceva prima, la libertà è molto più ampia, indefinita, in quanto l’intelligenza resta vincolata all’ambiente di cui ha nozione attraverso la percezione, con i tenuissimi fili della selezione e quantificazione, entrambi i quali sono contingenti e arbitrari. Indeterminatezza nella percezione e indeterminatezza nell’intelligenza, quindi. Di conseguenza, il carattere comune ad entrambe di fenomeni coscienti.

            Che Bergson ci abbia dato un’esatta definizione di quel che si debba intendere per coscienza è cosa difficile da potersi sostenere, e sarebbe stata cosa altrettanto difficile, date le premesse e i giudizi sull’intelligenza e il linguaggio, che il filosofo ce l’avesse potuta dare. Ora la coscienza, in sede di indagine puramente psicologica, è descritta come una durata di creazione, così come, in sede metafisica, è descritta come un impulso che, gravido di tutte le possibilità che troviamo realizzate quando rivolgiamo lo sguardo all’indietro sulla catena divaricata delle evoluzioni che ci precedono, è capace di espandersi con moto perenne in uno slancio vitale o è destinato a ritorcersi su di sé in una degradazione  che sarebbe la materia. Tutta la realtà sarebbe, quindi, coscienza. Ma l’affermar questo non significa ancora dire che cos’è la coscienza. E del pari non vuol dire dare una definizione della coscienza il sottoporci l’equazione- 175 -coscienza-scelta che continuamente ci viene offerta, e neppure il nominarla o come realtà o come incommensurabilità fra atto e rappresentazione o come detrazione dell’attività reale  dalla virtuale conseguente sviluppo di questa in un’espansione che oltrepassa  e circonclude i limiti di quella. Son queste non tanto descrizioni del fenomeno, quanto o sistemazioni della realtà individuale-universale o impostazioni delle condizioni che accompagnano e si sintonizzano alla coscienza. D’altra parte, Bergson non avrebbe potuto darci la definizione della coscienza, così come in fondo non è in grado di darci la definizione di nessuno dei fenomeni di essa, in quanto la definizione entra nel campo dell’intelligenza col suo corteo di oggettività chiara e distinta e di corposità discreta e immobile, e, in conseguenza di questo suo rientrarvi, subordinerebbe la realtà del tutto alle condizioni inadeguate di una parte. Di qui il bisogno di metafora o di equazione o di un discorrere che tende sempre più a distaccarsi dal definito, dal dato e dal completo per avvicinarsi alla nebulosità del poetico e del pittorico. Che questo sia accettabile o meno, non vogliamo qui soffermarci a discutere, tanto più che la questione singola rientra in tutta una problematica generale della sistematica di Bergson, consistente nella costante aporia della necessità di estraniarsi all’intelligenza, necessità imposta a un pensiero che è tutto intelligenza: e la questione  dovrà essere affrontata e risolta da Bergson per altra strada, senza tuttavia che venga affrontato l’altro ostacolo dell’uso del linguaggio, che, figlio dell’intelligenza, o, se si vuole, simultaneo all’intelligenza, corposità ed esige distinzioni e definizioni. Tutto quello che possiamo dire nei confronti della coscienza è che per Bergson essa doveva in fondo esser sentita secondo la più banale della definizioni: l’attitudine di uno stato ad esser sentito come proprio da chi lo possiede e lo presenta: coscienza equivale a consapevolezza. Ad ogni modo, percezione e intelligenza sono fenomeni di natura cosciente, fenomeni cioè che chi li ha, li conosce e prende per propri ed è capace di conservarli nella memoria, pronti ad essere riesumati, come atti presenti, ogniqualvolta o volontà lo pretenda o bisogno vitale lo imponga. Quel che però interessa, è di cogliere la congruenza che sussiste fra le descrizioni date dei- 176 -caratteri finora considerati nella percezione e nell’intelligenza e l’equazione stabilita fra la presenza di un divario fra determinismo e contingenza e la presenza della coscienza. Il problema dell’unirsi di uno stato psicologico al fattore coscienza è da Bergson impostato secondo termini che rispecchiano quel particolare interesse per i fenomeni psicologici che cominciò a sorgere proprio al principio della sua speculazione e che tuttora perdura, l’interesse per il fenomeno che non s’accompagna a coscienza, l’interesse per l’inconscio. In due passi particolarmente Bergson s’interessa dell’inconscio e proprio a proposito di due questioni: la sopravvivenza della passata esperienza dell’individuo e la caratterizzazione psicologica di alcuni comportamenti dell’essere vivente. Anzitutto, in polemica con l’associazionismo la cui interpretazione intellettualistica della vita psicologica, fondata su di un atomismo di discontinuità e di discrezione, finisce col ridurre il ricordo ad immagine e la percezione a sensazione e con lo stabilire fra i due una semplice differenza di grado, in modo tale che nella natura del ricordo si debba ritrovare qualcosa della natura della sensazione in quanto entrambi richiederebbero un correlativo somatico per la propria esistenza, introduce il problema se si possa dichiarare esistente nella sfera psicologica dell’individuo un ricordo puro che nulla abbia che fare con la percezione e la cui esistenza debba ammettersi indipendentemente dal suo darsi nella coscienza: si tratterebbe di spiegare la sopravvivenza del ricordo indipendentemente da un suo presentarsi alla coscienza sotto forma di immagine cosciente. Se si riducono alle loro caratteristiche essenziali le modalità dell’esistenza, si osserva che il certificato di esistenza viene attribuito a un dato quando esso presenti almeno una di queste due proprietà: o l’essere attuale nella coscienza o il far parte, come anello, di una catena di dati connessi l’uno all’altro con il vincolo della causalità. È costante abitudine dell’intelligenza separare l’una dall’altra queste due condizioni, dichiararle l’una indipendente e scissa dall’altra, non accettare che l’una possa darsi assieme all’altra e, quindi, rifiutare esistenza a un dato che non presenti in modo chiaro e distinto almeno uno di questi caratteri. Per questo siamo portati a dichiarare esistenti tutti i fatti materiali, anche quelli che- 177 -non siano attualmente presenti nella coscienza, in quanto il quadro che ci siam fatti dell’universo è un’immensa ragnatela di oggetti connessi causalmente l’uno all’altro e, perciò, tali che la presenza nella coscienza di uno di essi attesta dell’esistenza di tutti gli altri anche se rimangono assenti alla nostra percezione, vale a dire  incoscienti. Viceversa, poiché non ammettiamo che il nostro mondo interiore sia una trama in cui le varie parti son connesse l’una all’altra da una rigida concatenazione causale, e poiché, al contrario, ci pare che i vari stati si succedano l’uno all’altro in una discontinuità in cui ognuno vive di forza propria senza legami con ciò che precede e ciò che segue, l’esistenza sarà assicurata a uno stato psichico solo dal suo carattere di cosciente, soltanto dalla sua attualità nella sfera della coscienza: tutto ciò che di psicologico non è avvertito dalla coscienza, non è dotato di esistenza. Validissima sarebbe questa posizione dell’intendimento se in realtà le due condizioni di esistenza non fossero mescolate l’una all’altra e, particolarmente per ciò che riguarda l’ambiente psicologico, non sussistesse un legame o vincolo, non si dice di determinazione, ma di condizionamento, fra il presente dell’individuo e la sua passata vita ed esperienza; per cui, se si deve ammettere che lo stato presentemente vissuto sia in funzione della vita trascorsa e che tutto il carattere di un’individualità vivente manifesti in sé ciò che il passato vi ha modellato e impresso, si deve anche allo stato psicologico estendere la seconda delle condizioni di esistenza e non si può non dichiarare esistente uno stato perché non afferrato dalla coscienza, allo stesso modo che si dichiara esistente ciò che della materia non attualmente sottoposto ai nostri sensi. Si stabilisce,in tal modo, un parallelismo fra struttura delle cose nello spazio e struttura degli stati nel tempo: e, allo stesso modo che una situazione materiale non percepita dalla coscienza, sussiste di per sé in grazia della connessione causale, e poiché a tale situazione, data la sua esistenza al di fuori dei limiti della coscienza, non si può dare  che l’appellativo di incosciente, così ogni stato psichico che sia in grado di condizionare quella rappresentazione che si nella coscienza come presentestato che con un particolare sforzo e in particolari condizioni può essere evocato e trasformato in rappresentazione- 178 -attuale e cosciente - , deve essere determinato con l’attributo di incosciente: si può in tal modo ammettere l’esistenza di stati psicologici latenti, esistenti allo stato inconscio. Questo il ragionamento di Bergson. Che proprio tutto fili senza scosse e senza inciampi, non si può dire; anzi si direbbe che tutto il discorso sia un continuo adattamento della realtà interna sulla esterna e viceversa, e che l’intera costruzione sia nata dallo sforzo di dimostrare validi alcuni presupposti, alcuni bisogni di natura metafisica, alcuni intendimenti; si direbbe uno svolgimento di natura finalistica, così come egli ben fissa l’evoluzione a base finalistica, per cui dati alcuni termini da conseguire, l’impulso del pensiero deve trovare le strade per raggiungerli. Quel che si vuol dimostrare è l’esistenza dei ricordi puri, e, poiché questi non sono presenti alla coscienza, ma ne restano esclusi, se si vuol loro dare esistenza, lo si può fare solo a patto di concepirli allo stato latente, vale a dire inconscio: questo sarebbe il nucleo; ma bisognerebbe vedere fino a che punto questi ricordi siano veramente puri, bisognerebbe vedere se la descrizione fatta dell’esistenza e delle sue condizioni sia veramente completa: bisognerebbe vedere se quell’applicazione  del principio di causalità sia non solo trasferibile dall’ordine materiale all’ordine psichico, ma addirittura sia valido in sé; bisognerebbe  vedere se tutte le forme di energia  materiale, quale quella elettrica ad esempio, comportano le due condizioni di esistenza, o se non ne ammettano altre per cui la latenza in determinate condizioni non divenga sinonimo di inesistenza e il passaggio dalla latenza all’esistenza sia qualcosa di diverso dalla successione della catena spaziale per cui a un’immagine percepita e cosciente subentra un’immagine che prima non costituiva percezione e coscienza, pur sussistendo di per sé, o dalla rievocazione in immagine di un ricordo; bisognerebbe vedere, infine, se quelle stesse condizioni di esistenza, accettate come valide purché siano considerate l’una in connessione con l’altra, non siano esse stesse frutto della nostra conformazione mentale, non siano esse stesse  da sottoporre a critica e da relativizzare. D’altra parte, che Bergson abbia in sé posto in chiara luce ciò che si deve intendere per inconscio o per stato psicologico inconscio, non pare molto sicuro e mi sembra che, se- 179 -si considerano le varie sue affermazioni, non manchino neppure delle parti che possono essere dichiarate l’una in contraddizione con l’altra. Mi riferisco, in particolar modo, alla sua asserzione dell’esistenza di stati psicologici in cui la latenza coincide con l’incoscienza e che derivano d’altra parte il loro carattere di latenza – e, quindi, di incoscienza concepita come annullamento della coscienza – dal fatto di un loro mancato inserimento nella situazione attuale tesa all’azione, ossia alla sua asserzione di una loro inutilità presente  nei confronti  delle condizioni in cui deve operarsi la scelta del punto di applicazione e degli strumenti di azione: il che sarebbe caratteristico da una parte del ricordo puro – quando non trova una prosecuzione nella sensazione presente e quando, per questo, non gli viene rivolto l’appello da parte dell’attuale a risalire e a prolungare la sensazione momentanea in percezione  duratura, dall’altra di quegli stati psicologici, quali l’azione istintiva e sonnambolica, in cui l’assenza di un margine fra azione virtuale e azione reale elidono la necessità  di una rappresentazione cosciente. Ora, come accordare questo con il duplice argomento del condizionamento di tutto il presente psicologico da parte di tutto il passato esperito e della manifestazione implicita in tutto il carattere dell’individuo di tutta la vita psichica trascorsa? Tanto più che i due argomenti sono assunti per dimostrare l’errore che l’intendimento compie quando non vuol riferire anche agli stati psicologici quella seconda condizione di esistenza che consente di dichiarare esistenti gli stati materiali anche se non dati alla coscienza. Sotto quale punto di vista, con quale portata debbono intendersi quel «condizionamento» e quella «manifestazione»? Come accordare questa che è una loro presenza con la condizione permanente  della loro latenza? Se la loro latenza è sinonimo di inattività, di esenzione dall’intervenire nella situazione pragmatica presente, come accordarla con la loro continua influenza? Ci dice forse qualcosa quel termine negativo di «inconscio», all’infuori di questo che la sfera dello psichico dovrebbe suddividersi in due sfere, l’una delle quali attiva e quindi cosciente, l’altra inerte e quindi inconscia? Ma, accettata anche questa seconda suddivisione, quale nuova descrizione dare dello psichico in genere, dal momento che nello- 180 -psichico entra il concetto di inerte? Fino a quale punto sarebbe tollerabile la nuova equazione di psichico-inerte, non dico in relazione generica colla definizione che di consueto si della psiche, ma in relazione particolare con quell’ipostasi di slancio vitale che Bergson farà dello psichico, non involutosi in materia? E, ancora, se l’incoscienza degli stati sonnambolici è tale per la completa adeguazione dell’azione allo schema rappresentato dell’azione stessa, fino a che punto è lecito parlare di rappresentazione in tali casi? Non è forse evidente una confusione fra ciò che s’intende per coscienza e ciò che dovrebbe intendersi per inconscio? Non si può vedere in ciò un’interferenza fra la concezione che ci si è fatta della rappresentazione in sede cosciente – quale eventuale preparazione di un’azione successiva – e quella di una rappresentazione, inconscia, di una situazione di cui non si dovrebbe dare rappresentazione per il fatto che l’azione è immediatamente  determinata? Sono questi  interrogativi che, insieme ad altri, si pongono e che traggono origine da una voluta sistemazione del psicologico nella quale, dopo aver modificato e corretto certi aspetti errati di interpretazioneerrori dovuti al funzionamento dell’intendimento -, non si è fatto che ricorrere ad altri processi segnati dall’intendimento stesso, senza potersi, com’è logico, portare al di fuori e al di sopra di esso. Non vogliamo, qui, approfondire il problema dell’inconscio, vogliamo semplicemente dire che l’ampliamento dell’esistenza di tipo psicologico oltre i limiti della coscienza nasce dall’applicazione alla coscienza di quegli schemi di intendimento che Bergson è sempre stato pronto a rigettare quando si abbia che fare con i problemi dello spirito e della vita. Resta tuttavia chiaro che l’introduzione di un’esistenza psicologica inconscia serve a Bergson non solo alla sua descrizione dell’incontro fra ricordo e sensazione nello stato presente della percezione, ma porta nuova acqua alla sua fondazione pragmatica della teoria del conoscere, al tempo stesso che ne vengono ricavati mezzi di giustificazione e impalcature di resistenza, in una specie di mutuo scambio fra presupposto teorico e indagine fenomenica. Infatti, resta sempre da spiegare il perché di quell’esistenza latente allo stato di inconscio, come non mi pare che venga spiegato perché mai, senz’ordine prestabilito e senza una- 181 -connessione causale intrinseca, si abbia un passaggio dall’inconscio al conscio e viceversa. E il ragionamento prosegue: uno dei caratteri della coscienza, come fenomeno, è quello della presenza. Se il presente, sotto forma di pura astrazione, può ridursi a un punto matematico attraverso cui il futuro scorre verso il passato, in realtà il presente, quello vissuto, è una fusione di percezione e di movimento, vale a dire la coscienza che il corpo organizzato ha di sé come oggetto teso a un’azione su altri oggetti, a un’azione la quale non è né compiutacompientesi, ma che, appunto perché il corpo vi è teso, è sul punto di compiersi, è imminente: come tale, il presente è non solo qualcosa che mangia una fetta del futuro in quanto intaglia in esso e vi si prerappresenta una zona di ciò che non è ancora dato, ma anche qualcosa che s’arricchisce di passato in quanto la prerappresentazione può darsi solo grazie alla sopravvivenza di esperienze che non sono più e che fan parte del passato. Ma un siffatto presente è dato e al tempo stesso non è dato: è dato in quanto racchiude in sé una situazione in cui sussistono una predisposizione e un impulso a un particolare rapporto fra sé e le cose – la predisposizione, infatti, giace nella percezione che è la rappresentazione della modalità del comportamento, l’impulso nella reazione alla rappresentazione, reazione che stabilisce il comportamento; al tempo stesso non è dato in quanto la predisposizione e l’impulso  rimangono ancora allo stato virtuale e attendono il passaggio all’attuazione. Entra così in gioco il divario fra una virtualità e un’attualità, di cui il presente e la coscienza, che lo dichiara e lo fa suo, sono l’espressione. Donde la descrizione della coscienza come facoltà di scelta e azione, conformata a libertà. Il rapporto inconscio-coscienza lo torniamo a incontrare a proposito dell’istinto. Non ci soffermeremo sui vari ragionamenti che Bergson compie a proposito dell’istinto, né ci dilungheremo sulla gradualità della coscienza di cui i vari istinti sarebbero dotati né sull’iniziale stato di coscienza che adornerebbe ogni forma d’istinto: diremo soltanto che si pone una correlazione fra azione automatica e incoscienza e che dove fra rappresentazione d’azione e compimento d’azione non si divariodistinzione, ivi si ha annullamento di coscienza. Il che, in altre parole, significa che- 182 -si coscienza ogniqualvolta dinanzi a un impulso all’azione si delineano una molteplicità di piani d’azione tutti ugualmente possibili e realizzabili, fra cui bisogna operare la scelta. In tal modo, la coscienza diviene ancora una manifestazione della vita, atteggiata alla realizzazione di un’azione indipendentemente da alcun piano prestabilito e unico. È, quindi, giustificato il carattere di coscienza che appare proprio della percezione e dell’intelligenza. L’una deve la propria natura psicologica di stato cosciente al fatto che costituisce una semplice virtualità o richiamo ad un’azione il cui compimento dipende, nella sua attuazione e nei suoi modi, dallo scattare della volontà; l’altra è stato cosciente perché la riduzione a concetti che essa opera sulle sensazioni, la rete di rapporti che coglie entro i concetti, e la riduzione a quantità che opera sui concetti, sono altrettanti mezzi per assoggettare la materia a manipolazioni e spostamenti, atti a trasformarla, indipendentemente dalla situazione qualitativa in cui giace, in strumenti artificiali d’azione, manipolazioni e spostamenti che, sia pur determinati dalla natura del concetto e dei rapporti, si presentano in un numero e in modi tali che la volontà può operare in essi una scelta. Sensazioni, concetti e giudizi, cioè gli elementi della percezione e i materiali dell’intendimento, sono quindi piani o rappresentazioni di azioni innumerevoli, nessuna delle quali  ha la propria attuazione commisurata e vincolata alla propria prerappresentazione.

            L’intelligenza, però, non è soltanto selettività e discontinuità, indeterminatezza e coscienza, presenta anche altri caratteri: e se in quelli possiamo coglierla come prosecuzione della percettività, in questi troviamo qualcosa che si differenzia e si porta al di della percezione. Prima ancora di passare in rassegna questi che sono gli elementi distintivi esclusivi dell’intendere, conviene soffermarsi sul significato e sul valore che Bergson s’impegna ad attribuire all’intelligenza in rapporto sia al mondo delle immagini che si articolano intorno alla coscienza sia al mondo delle immagini che si concatenano l’una all’altra indipendentemente dalla coscienza. Se per intelligenza s’intende una strutturazione di idee organizzate in classi, collegate in giudizi e giudicate secondo il metro quantitativo, vediamo che il ripensamento di essa ha dato tre diverse interpretazioni - 183 -della sua natura e della sua genesi: abbiamo chi ha visto nell’intendimento un ente perfettamente simmetrico alla realtà; chi, cioè, o parlandone come di un calco che il reale modella nella malleabilità della coscienza, e, quindi, vedendovi un semplice fatto di apprensione e di acquisizione, o ideando una sorta di parallelismo per cui la facoltà, senza prender contatto con le cose e senza applicarsi su di esse per seguirne le movenze e le forme, raggiunge, nonostante il distacco, la loro realtà, s’è convinto che la contemplazione per intelligibili corrisponde a un’intelligibilità pervadente l’universo; c’è stato, invece, chi ha voluto cogliere nell’intendimento una specie di semplice interpretazione da parte della coscienza delle sensazioni e delle percezioni, chi cioè negli stati o di classe o di giudizio o di rapporto non ha voluto veder altro che un semplice modo di accogliere i dati empirici o meglio un modo con cui tali dati si sistemano nella coscienza una volta penetrativi: costoro dovevano necessariamente non solo togliere validità all’intelligibile, ma negare una qualsiasi intelligibilità dell’universo, in quanto, se l’intendimento non è che sistemazione di sensazioni e se nella sensazione non si può trovare nulla che l’oltrepassi, nulla che  vi si possa trasformare in intelligibile, è assurdo parlare di una validità interiore o di un’esistenza esteriore dei dati dell’intendimento; troviamo, infine, chi, vedendo nella sistemazione della sensazione, quale è operata dall’intelletto, qualcosa di attivo, di inderivato e di primario, qualcosa che la sensazione non porta seco nel momento in cui si alla coscienza, ma che pur sussiste dal momento che ne esiste una sistemazione, e sottolineando al tempo stesso l’impossibilità di dedurre dalla sensazione, unico elemento di contatto fra coscienza e universo, l’intelligibile, s’è risolto a fare dell’intelletto un’attività autonoma e innata, valida, quindi, in sé e capace di fornire conoscenza, senza tuttavia estendere la validità dell’intelligibile a tutto ciò che esiste al di dell’intelligibile stesso e senza, quindi, ammettere che la coscienza possa essere uno specchio di intelligibilità immerso in un ambiente di cui l’intelligibilità è signora e ordinatrice. Possiamo, di conseguenza, parlare di una validità dell’intendimento, ammesso dai realisti e dai relativisti dell’intelligibile, e di una sua svalorizzazione e- 184 -

di un suo annullamento totale, affermati dai riduttori dell’intelligibile. Per quanto sinora si è detto, si capisce subito che Bergson non appartiene alla schiera degli ultimi, sia perché egli fa netta distinzione fra percezione e intelligenza, sia perché egli pone la giustificazione dell’intelligenza su di un piano i cui fondamenti si distaccano dalla considerazione formale del fenomeno. La questione della validità in sé della classe, del giudizio, della quantificazione, indipendentemente dalla percezione che ne costituisce il corpo, può esser posta solo da chi, introdotto nel proprio pensiero un campo della conoscenza, vi si rinserri, limitando la propria indagine agli aspetti e alle direzioni delle varie linee di forza che lo compongono: ma se uno, pur piazzandosi nel campo del conoscere, ha scavato nelle diverse linee di forza e ha raggiunto con lo scavo un fondamento che appartiene a tutta la coscienza e che, perciò, oltrepassa la barriera del campo stesso, sposta il suo punto di vista, nello spostamento è costretto a guardare ai componenti il campo come a delle cose che risultano da altro e che non sono semplicemente date, ma sono ricavabili e giustificabili. Se tale principio è un fattore  d’ordine psicologico e biologico al tempo stesso, come l’azione, l’edificio della sensorialità e quello dell’intelligibilità non potranno esser ricondotti l’uno all’altro e ridotti l’uno nell’altro, per il criterio di utilità pragmatica che domina in tutto il campo e che non consente dei duplicati di modalità gnoseologiche, che non sarebbero, poi, altro che inutili duplicati di modalità pragmatiche. Quello che porta Bergson a distinguere e a contrapporre il percepito e l’intelligibile, non è tanto la giustificazione che di entrambi dal punto di vista del fondamento pragmatico, non dipende tanto dalla definizione della percezione come rappresentazione di un’immagine eretta a punto di applicazione di un’azione virtuale, e dell’intelligenza come l’attitudine a ridurre le immagini  a parti relazionate di uno strumento artificiale d’azione, quanto il fatto stesso che il montaggio di due sistemi di conoscenza, il possesso cosciente di due modalità di ideazione di una stessa molteplicità di dati, non potrebbero esser l’uno un puro e semplice derivato o, se si vuole, approfondimento dell’altro, se non alla condizione che la coscienza nell’atto in cui conosce fosse orientata al più completo e pieno dei disinteressi,- 185 -al più apatico e immobile degli atteggiamenti di contemplazione. Ma, in realtà, la conoscenza è per la coscienza uno strumento d’azione, uno degli utensili che la vita fabbrica in sé e affianca ai grandi serbatoi d’energia e ai meccanismi motori, cioè agli altri mezzi di azione. Ritenere che l’intendimento provenga dalla percezione o ne sia un risultato vorrebbe dire, nel linguaggio di Bergson, assegnare al primo quella che è la funzionalità pragmatica della seconda e, quindi, dare la patente di distratta a quella vita, che, tutta presa com’è dai suoi compiti di lotta e di perpetuazione, s’è presa il lusso di fornirsi uno strumento che già possedeva. L’intelligenza non può essere per Bergson un fuoco acceso dalla sensazione e dalle percezioni, e lo afferma egli stesso sia quando dichiara  l’intelligenza una delle grandi direttive della vita, sia quando contrappone l’una all’altra le due ramificazioni biologiche, quella che utilizza l’istinto e quella che fa perno sull’intendimento, sia quando dichiara l’intendimento innato in chi lo possiedeinnato non certo come facoltà di conoscere gli oggetti in generale, ma come attitudine a cogliere quelli che sono i suoi oggetti. L’empirismo vien, quindi, rifiutato; e che debba essere non accolto ci se lo deve aspettare anche da tutta l’impostazione del moto di pensiero, dove si rileva uno sdoppiamento di esperienza interiore, quella che entra a contatto diretto con le cose dello spirito e quella che le trasporta al livello del linguaggio e della rappresentazione intellettuale, dove ci si rifiuta di ridurre tutto lo psichico a meccanicismo e ci si sforza di arricchire di continua autonomia la coscienza. Se l’intelligenza vien dichiarata facoltà autonoma che di nulla va debitrice alla percettività, se di essa si fa una facoltà connaturata alla coscienza che vuol vivere secondo certe forme d’azione, è logico che la posizione di Bergson tenda ad avvicinarsi al relativismo di tipo kantiano: è ancora la fondazione  pragmatica del conoscere che lo porta a ciò. Come la conoscenza  per percezione è un adattamento del reale alle esigenze d’azione di quella parte del tutto che si volge al tutto per modificarlo a proprio vantaggio, così l’intelligenza dovrà essere una manipolazione della struttura delle cose in vista degli schemi di movimento che dominano lo strumento artificiale. Nata per montare meccanismi esterni che amplino e prolunghino i poteri d’azione di quei- 186 -meccanismi che naturalmente si son formati nel corpo cui appartiene, l’intelligenza deve riuscire a obbligare le cose a inserirsi nel disegno astratto e prerappresentato del meccanismo e deve, perciò, aver che fare con cose che non solo tollerino di entrare nella realizzazione del disegno, ma si assoggettino anche a sostituirsi a vicenda, indipendentemente dalla loro individualità e qualità, nelle funzioni che la prerappresentazione ha loro assegnato. Ma, d’altro canto, - e qui risorge la nota che è caratteristica del relativismo a fondazione pragmatica e che sta nel contatto che s’instaura, nell’intersezione che si produce fra campo gnoseologico e campo metafisico – il ricondurre ogni modo di conoscere a un principio che oltrepassa la sua formale contemplatività e tocca la sua genesi utilitaristica, impone una diversione da quel completo isolamento in cui il relativismo di tipo kantiano puro immerge la conoscenza. Allo stesso modo che nell’universo deve pur sussistere qualcosa di percepibile perché possa ridursi a percezione, così le cose debbono pur contenere  dell’intelligibilità se vogliono diventare degli intelligibili nella coscienza che le deve accogliere sotto questo aspetto per poterle assoggettare alla sua finalità. Priva di rigidità e, forse, anche di rigida completezza, l’interpretazione di Bergson dell’intelligenza si pone  come un «parzialismo», come un tentativo di superare il soggettivismo assoluto del conoscere per ricercare entro la coscienza stessa i coefficienti che assicurino ai suoi modi di conoscere una rispondenza al reale, coefficienti che però son tali da consentire solo un parziale contatto fra il soggetto e le cose.

            L’intelligenza, dunque, è una facoltà che è autonoma nella coscienza e che, se pur presenta caratteri di parentela con la percettività , di questa non è né una filiazione né un’errata applicazione. Nell’esame di tale autonomia si procede partendo da due punti diversi e considerando l’intelligenza  sotto due differenti angoli, e si finisce così per dare due giudizi distinti, quando da ciò che si è osservato sul piano descrittivo si vuol trarre qualcosa che serva al piano valutativo. L’intelligenza, ripetiamo, è già stata assunta come una facoltà che non sopraggiunge, ma inerisce alla natura stessa di chi la possiede, e l’assunzione era implicita  nell’impostazione generale del problema, per cui, riducendo la conoscenza ad un aspetto- 187 -del comportamento eventuale della vita, si doveva partire da essa come da quello che è dato all’individuo insieme all’impulso che lo fa individuo. Per questo, non ci si sofferma molto né a dimostrare perché mai si dichiari innato l’intendimento né ad elencare gli argomenti in base ai quali si rilevano i caratteri che manifesta l’intendimento come innato e a priori. A questo punto si può parlare con sufficiente sicurezza di un’accettazione piena del punto di vista kantiano sia per la descrizione che vi si fa di ciò che innato è nell’intelligenza sia per l’allusione a una distinzione del materiale gnoseologico, distinzione in cui terminologia e interpretazioni recano lo stampo di Kant. L’intelligenza vien dichiarata conoscenza innata di rapporti: l’intera questione e l’argomentazione che porta alla conclusione è appena accennata, come se si trattasse di cosa ormai incontrovertibile. Campo d’indagine, è questa volta, il linguaggio, quella manifestazione tipicamente umana cui Bergson fa sempre capo ogni volta che si richiede di fornire un dato o un criterio di descrizione psicologica che non abbia che fare con introspezioni od osservazioni  sul di dentro: il linguaggio è fondato essenzialmente sulla possibilità di instaurare dei vincoli tra i termini che compongono la frase, vincoli che trascendono la natura stessa dei termini fra cui si inseriscono, in quanto permangono identici attraverso la perenne mutazione degli oggetti che li accettano; questi vincoli, che sono dei particolari rapporti – di parte a tutto, di equivalente ad equivalente, di effetto a causa e viceversadebbono  essere accettati come fattori che intervengono e consentono il discorso, ancor prima che si dia un discorso, se è vero che il bambino è portato naturalmente a cogliere i nuclei sostantivo-attributo, soggetto-predicato, predicato-complementi, vale a dire può scorgere in una semplice giustapposizione di complessi fonetici dei gruppi intelligibili la cui intelligibilità  [[sporga]] sgorga* dall’unità in cui coglie i binomi, i trinomi, i polinomi, grazie all’intervento di uno o vari rapporti. D’altra parte, il fatto che il vincolo che unità e senso a una molteplicità di parole costituenti una proposizione possa sussistere anche in assenza di una manifestazione omogenea di quello che è il cardine unificatore, il verbo, attesta, secondo Bergson, della naturalità con cui l’intelligenza possiede il rapporto. Il linguaggio, in generale, e, - 188 -in particolare, alcune considerazioni che su di esso si possono fare, assicurano che dovunque si dia intelligenza, ivi si danno, anteriormente a qualunque esperienza delle conoscenze specializzate, le conoscenze dei rapporti. Non vogliamo discutere se la scelta del teste sia felice, se il problema dell’intelligibilità del linguaggio sia di soluzione tanto facile, se il ricondurre l’intelligenza al linguaggio non susciti a sua volta ostacoli; resta stabilito, per Bergson, questo che l’intelligenza conosce il rapporto, vale a dire possiede come contenuto proprio e specifico dei quadri di incastro ed è capace di applicarli e di utilizzarli, senza averli derivati da altra fonte che non sia essa stessa. E questo è il primo punto di divergenza con l’attività percettiva della coscienza: infatti, il complesso delle sensazioni è una totalità che si snoda in una successione temporale il cui palpito è scandito dai movimenti e spostamenti del corpo coi suoi organi di senso, e che si squaderna da istante ad istante in un ambiente in cui l’unico rapporto che si possa instaurare è quello che lega la moltitudine più o meno grande  delle sensazioni al centro in cui si attuano: nella successione temporale non c’è nulla che vincoli lo stato precedente al seguente, non c’è rapporto che, inserito per un estremo, a un’immagine, obblighi la coscienza a correre lungo il suo filo sino a toccare l’altro estremo coincidente con un’immagine necessariamente data; nella presentazione istantanea, né fra colori, né fra colori e suoni, non è possibile inserire un giogo, una relazione tale che consenta di giustificare uno dei dati, omogenei o eterogenei che siano l’uno rispetto all’altro, in funzione di uno o più degli altri compresenti. Nell’intelligenza, invece, si ha qualcosa di totalmente diverso: si può dire che non si ha affatto un dipanarsi di stati o di dati nel tempo e neppure uno sciorinare di immagini in una simultaneità; l’intelligenza non sente la qualità delle cose, non varia il suo schema in correlazione al mutare di posizione o di situazione del corpo; essa, invece, introduce entro la bobina svolgentesi dell’attività sensoriale ed entro la tela delle sensazioni qualcosa che prima non c’era, la consapevolezza che il tale stato è in relazione con il tal altro, che all’immagine A succede certamente l’immagine B, che se si il tale complesso di sensazioni non lo si può non considerare come un tutto organizzato ognuna delle cui- 189 -parti è condizionata nella propria esistenza dall’esistenza delle altre. Se la percettività è un’assieparsi di sensazioni, l’intelligenza ne è l’organizzazione, la classificazione, la sistematizzazione. Ma come dev’essere considerata questa organizzazione per rapporti? come dev’essere giudicata, una volta ricondotta al campo che le spetta, quello del conoscere? Se per conoscenza è da intendersi la capacità di una coscienza di prender contatto con elementi da manipolare in qualche modo, assieme alla consapevolezza che tali elementi non fanno totalmente ed essenzialmente parte di essa, l’intelligenza chiaramente risulta entrare a far parte di pieno diritto di una conoscenza siffatta; purché, però, venga unita e integrata alla percezione: la ragnatela dei rapporti che cala sul libero mondo sensoriale, vi crea un mosaico in cui la coscienza scorge le cose e l’ordine che le regola, gli aspetti e i motivi del loro succedersi, i fenomeni e la loro variazione, in un sistema che le permette di muoversi avanti e indietro senza paura di incontrarsi con qualcosa di inatteso.

            Tuttavia, se prendiamo questa intelligenza e, per astrazione, la consideriamo da sola, potremo ancora chiamarla una conoscenza? Quei rapporti di mezzo a fine, di causa ad effetto, di parte a tutto, di diverso a diverso in un’equivalenza che nasce dall’unità di applicazione, hanno un significato quando sono inseriti in qualcosa che vi si lasci racchiudere e che, accettandoli, li riempia di significato. Prendiamoli, però, isolatamente. Come li dovremo considerare? Come una forma, certo; cioè come qualcosa che non ha né sensosoliditàvalidità da solo, ma che li acquista non appena si applica a delle rappresentazioni, al tempo stesso che modifica il valore e le condizioni del suo stesso contenuto. E rispetto a quella conoscenza, quale l’abbiamo definita, che cosa rappresenta l’intelligenza pura, in quanto forma? Non possiamo, certo, fondarci su un’esplicazione teorica ed astratta dataci da Bergson stesso: anzitutto, perché della parola «conoscenza», come di altri termini generalissimi, come «azione» ad esempio, egli non ci definizionedescrizione, ma li usa e li manovra come espressioni semplici e universalmente accettate di idee uniformi e identiche per tutti, come cioè se fra la manifestazione oggettiva e il contenuto soggettivo non potesse esserci possibilità di divario, di inadeguazione, di molteplici stati- 190 -di correlazione; poi, perché la questione della formalità dell’intelligenza, presa in sé e non nelle sue conseguenze, è brevissimamente delineata come se avesse già ricevuto pieno lume dalla sistemazione kantiana. Ad ogni modo, la questione di ciò che deve intendersi per conoscenza, deve in lui sussistere, e ciò lo si capisce non solo dal fatto generico che del fenomeno che porta tale nome ha fatto un centro motore, ma anche da un certo numero di incertezze, di reticenze, di accettazioni non completamente entusiastiche e sicure che troviamo nei pochi periodi in cui ci si sofferma sull’intelligenza in quanto forma. Infatti, dopo aver delineato lo stato della questione, introducendo, come un possesso già acquisito dalla filosofia, la distinzione di forma e materia, e definendo l’una come i dati della percezione «allo stato bruto», l’altra come il complesso dei rapporti che inquadrano i dati, ci parla di «conoscenza sistematica» ottenuta attraverso l’inserzione reciproca delle due fonti: che cosa dobbiamo vedere in quella parola «conoscenza» se non il possesso che la coscienza raggiunge di qualcosa che prima non le era dato? un possesso, quindi, che è soggetto al tempo e alla modificazione e la cui sistematicità consisterebbe nella facoltà di sostituire alla successione imprevedibile e inesplicabile una successione in cui non si dia il nuovo, ma il ripetuto, il prevedibile e l’esplicabile, o, con una sola parola, l’intelligibile. Conoscenza, quindi, sarebbe sinonimo di possesso ottenuto mediante rappresentazione consapevole e ricostruibile secondo un processo reversibile per cui la coscienza può spostarsi dal presente al passato, risalendo la china del moto naturale del tempo. Ora, nella posizione kantiana, in una siffatta fenomenica, né sensorialitàintendimento sussistono indipendentemente nel tempo reale, l’una e l’altra sono degli indipendenti logici per astrazione, e nessuno dei due può essere oggetto di conoscenza, in quanto solo la loro sintesi può essere tale. E sotto questo punto di vista è da considerare la domanda che immediatamente tien dietro alla definizione di forma e di materia, la quale domanda consiste nel voler indagare se la forma pura possa costituire da sola oggetto di conoscenza. Se per conoscenza si è inteso il possesso di un dato per rappresentazione consapevole e se per oggetto di conoscenza, a quanto sembra, si deve intendere l’attuazione concreta del- 191 -possesso, la manifestazione attraverso cui scorgiamo nella coscienza la facoltà di riuscire a possedere qualcosa, nei termini fondamentali della domandaforma, materia, conoscenza, oggetto di conoscenzaritroviamo ancora il contenuto che li ha animati precedentemente, ma vi ritroviamo anche, a fianco di questi, qualche spunto nuovo e diverso che sta ad indicare uno spostamento e un allontanamento dalla posizione dell’intelligibilità kantiana. Infatti, il chiedersi se la forma possa di per sé offrire conoscenza, indipendentemente dalla materia, significa in primo luogo negare implicitamente che l’unica conoscenza sia la conoscenza sistematica, che si dia coincidenza fra possesso per rappresentazione e possesso per rappresentazione  di intelligibile e che, quindi, l’unico modo di esistenza consentito all’intendimento non sia mai un a priori, ma solo una sintesi concreta con la sensazione nel tempo, in secondo luogo significa deformare quello che è l’unico significato finora ammesso per la parola «conoscenza». Il ritenere possibile che un rapporto possa essere di per sé un termine di conoscenza – e la domanda non è che un’ammissione di tale possibilità – si traduce nell’affiancare entro la sfera di significato del termine «conoscere» a lato del possesso per rappresentazione un possesso per non rappresentazione di elementi che non potranno mai essere rappresentati, se non attraverso l’accostamento di rappresentazioni in cui l’interdipendenza esistenziale assicura l’esistenza al rapporto formale. E Bergson, invero, convalida quanto io ho finora inferito, con la risposta che alla domanda stessa. Si può senz’altro ammettere che una forma, senza materia, sia oggetto di conoscenza purché – e qui usiamo le parole sue - «questa conoscenza somigli meno a una cosa posseduta che a un’abitudine contratta, meno a uno stato che a una direzione». Ma quale significato ha assunto questa volta la parola «conoscenza»? è ancora quel possesso acquisito da parte della coscienza di qualcosa che essa non sente come suo e che avverte giungerle sotto le vesti del nuovo? Direi di no, perché la si accosta a un’«abitudine», a una «direzione». È, forse, un fatto che fonda se stesso sulla rappresentazione? Direi di no, perché lo si vuole allontanare da ciò che si può dichiarare posseduto e soprattutto da ciò di cui si possono segnare limiti, confini, contenuto, individualità,- 192 -personalità, caratterizzazioni e differenziazioni, vale a dire dallo «stato». Mi pare che qui conoscenza significhi piuttosto modo di conoscere, sistema di attuare e di determinare il possesso del conoscere: vale a dire, che il significato dato alla parola si riporti in pieno sul terreno kantiano, per diventare quello di elemento costitutivo del conoscere, di attitudine della coscienza al conoscere. E ciò è comprovato dagli esempi che seguono: ci si dice che il bimbo, in attesa di segnare sul quaderno la frazione che sta per essergli dettata, traccia la lineetta al di sopra della quale porrà il numeratore e al di sotto della quale disegnerà il denominatore, e che questo fa prima ancora di conoscere le due entità nella loro determinazione quantitativa. Il fatto che si dia esistenza a un simbolo di una forma, il fatto che si oggettivizzi un rapporto prima ancora che esista la materia che deve riempirlo, dovrebbero significare che forma e rapporto costituiscono di per sé un oggetto di conoscenza la cui esistenza, a priori rispetto alla forma, è un dato non di astrazione, ma di realtà. Per la verità, mi sembra che l’argomento non sia del tutto convincente e che dopo aver fatto entrare nel ragionamento un fattore necessario al calcolo, d’improvviso ne si cancelli l’esistenza e lo si dichiari non necessario, in quanto si identifica la sua realtà determinata con la sua possibilità contingente. È certo che sopra e sotto quella lineetta non ci sono rispettivamente né un due né un quattro, né un tre né un nove, né un otto né un quaranta, e così via; è però altrettanto certo che al di sopra e al di sotto di tale lineetta colui che l’ha tracciata sa di «poterci» mettere due qualsivogliano numeri a piacere, e che non solo non vi si potranno mettere che dei numeri, ma che tali numeri dovranno essere l’uno  in rapporto con l’altro, secondo un particolare modo di rapporto. L’affermare che il bambino conosce la forma senza la materia, solo perché traccia una lineetta ignorando in atto gli elementi del rapporto, vuol dire mettere indebitamente in non cale che gli elementi del rapporto sono presenti nel momento stesso in cui è presente la lineetta, non però in atto, ma in potenza; il che, d’altra parte, è facilmente dimostrabile, basta che si pensi cha a tale lineetta il bambino non potrebbe sostituire alcuna realtà rappresentabile, se non alla condizione- 193 -di conoscere la materia determinata attualmente, prima cioè che gli fossero dettati numeratore e denominatore, mentre tuttavia sarebbe in grado di elencare tutte le possibili realtà rappresentabili corrispondenti alla lineetta purché riempisse lo schema della frazione di tutti i possibili rapporti frazionari instaurabili fra numeri o fra entità ridotte a numeri. E la stessa cosa vale anche per gli esempi che si potrebbero, secondo Bergson, allegare per qualunque quadro formale di sistemazione dell’esperienza, quadro la cui esistenza come oggetto di conoscenza sarebbe anteriore ad ogni conoscenza. L’esistenza di un simbolo o segno diverso e discreto e la sua scrittura anteriore non sono attendibili testi di una apriorità della forma come oggetto di conoscenza assoluta, allo stesso modo che il gruppo di segni indicanti o una congiunzione o una preposizione possono benissimo venir trascritti isolatamente e anteriormente agli elementi di soggetti di connessione, senza che per questo valgano ad assicurare all’individuo la conoscenza anticipata di un qualsiasi modo di rapporto. Ma, a parte questo che ci pare un errore di valutazione razionale, c’è anche da notare che fra quanto si è inteso per conoscenza dove si accenna alla conoscenza come abitudine, e quanto s’intende per conoscenza qui nell’esempio, c’è un divario, e che il secondo significato non è affatto la prosecuzione del primo, come ci si dovrebbe aspettare dato che l’esempio è la dimostrazione della definizione. Quello che per conoscenza si intende nell’esempio non è affatto modo di conoscere, sistemazione del conoscere, ma è possesso per rappresentazione; non è abitudine, ma oggetto; non è direzione, ma stato; se no, non s’intenderebbe tutta l’importanza che si sia al disegno della lineetta sia all’anteriorità della sua esecuzione rispetto alla conoscenza attuale dei numeri, anteriorità che dovrebbe attestare di un a priori, non più soltanto logico, della forma rispetto alla materia e di una esistenza della forma non come rapporto, ma come oggetto di conoscenza, dandosi a questo oggetto di conoscenza il significato che sopra abbiamo ritenuto lecito. In conclusione, in questi pochi periodi pare di veder succedersi l’una all’altra differenti descrizioni di differenti entità, tutte però collegate all’unico termine di conoscenza: da una parte si chiama conoscenza un possesso generico da parte della coscienza- 194 -di qualcosa di rappresentabile e di non sentito come suo, dall’altra il possesso determinato da parte della coscienza di qualcosa che non solo è rappresentabile e non sentito come proprio, ma la cui rappresentazione è intelligibile, nel senso kantiano; dall’altra ancora, qualcosa che non costituisce affatto un possesso, ma un modo della coscienza di dirigersi, secondo abitudini contratte o di mettere a fuoco se stessa, in una tensione di attenzione, sulle rappresentazioni, sul materiale della conoscenza. Attraverso il riferimento ora all’uno ora all’altro dei contenuti e, quindi, grazie alla sostituzione di differenti punti di vista entro la snodatura organica di un ragionamento che vorrebbe essere rettilineo ed esatto, si arriva a dimostrare che l’intelligenza non è solo forma, ma è conoscenza di forma e che, di conseguenza, non è uno schema del conoscere, ma è una delle fonti del conoscere. Siamo, quindi, di fronte a un sofisma, in quanto abbiam che fare con deduzioni inconciliabili per l’inferenza da presupposti generali diversi e contrastanti. E il sofisma è l’effetto o, meglio, la manifestazione più evidente di una delle aporie del sistema bergsoniano.

            Infatti, per capire come mai egli si sia lasciato andare a un discorso la cui validità logica è tutt’altro che accettabile, bisogna chiedersi perché mai sia stato portato a farlo e che cosa realmente di intenzionale si nasconde al di sotto; bisogna andare a cercare i presupposti dell’errore nelle intenzioni e nel rapporto che intercorre fra queste intenzioni e i presupposti generali. Quello che, in realtà, interessa a Bergson è di fare dell’intelligenza un’attività autonoma, non già nel senso kantiano del termine, ma in quanto capace di sussistere nella coscienza a lato e parallelamente alla percezione, senza nessun contatto con essa, ma anzi in contrapposizione con essa. Se ci riportiamo a quanto s’è detto sulla fondazione pragmatica  del conoscere, vediamo che l’introduzione dell’azione come principio della conoscenza porta seco varie conseguenze, in particolare quella di uno sganciamento del campo gnoseologico [[della]] dalla* pura soggettività e quella di un’interpretazione della coscienza  che si porti al di delle costrizioni imposte da un’interpretazione che necessariamente debba far capo alla gnoseologia. La scoperta – e realmente si può parlare di scoperta, soprattutto per ciò che riguarda- 195 -la sua applicazione – del principio dell’azione consente, infatti, al campo del conoscere da un lato di aprire un tratto del suo perimetro verso l’estensione della metafisica, dall’altro di aprirsi verso una psicologia che non sia soggetta alle leggi dell’intendimento. La fondazione pragmatica, così come l’ha usata Bergson, non si libera affatto dal relativismo, ma anzi dimostra come sia stata una conquista meno di esperienza che di meditazione storica, nel senso che si presenta più sotto le spoglie di un sostituto dell’«Io penso», atto a cancellare le conseguenze di questo, che come un’osservazione nuova atta a modificare in toto la sistemazione della coscienza. In tal modo, Bergson viene a trovarsi in un dualismo interiore, preso com’è dalla morsa di un relativismo atto a superare se stesso e dalle conseguenze oggettivistiche di cui il superamento è causa. Ne viene, di conseguenza, che ogni fenomeno interessante il campo del conoscere dev’essere guardato sotto il duplice punto di vista della sua condizione trascendentale e del suo essere metafisico ed oggettivo, e poiché l’uno esclude l’altro e l’armonia non può essere riportata, almeno sul terreno dell’esplicazione teorica, di qui le aporie. Prendiamo, ad esempio, l’intelligenza, che è poi il punto che qui ci interessa. Data la sua fondazione pragmatica, essa giustifica i modi della sua struttura, sia in ciò che l’uniforma alla sensorialità sia in ciò che da questa la discosta: infatti, essa è selettiva e discontinua, perché deve montare strumenti, e dalla sua selettività deriva la luce di coscienza che l’illumina; ma non potrebbe montare macchine se non fosse atta a disinteressarsi dell’insormontabile eterogeneità e novità perenne della percezione, se non scavalcasse il qualitativo e l’individuale per soffermarsi sul rapporto e sulla forma. Ma rapporto e forma sussistono solo alla condizione che siano offerte all’intelligenza le percezioni da schematizzare nella rete formale: e allora l’intelligenza finisce per essere un’entità artificialmente astratta e isolata, qualcosa che la coscienza porta seco solo grazie alle sensazioni e di cui non si può dire che ricavi dalle sensazioni ciò che è capace di farla essere quello che è. E Bergson, certo, non dice mai questo, ci dice però che quest’intelligenza non inquadra solo dati sensoriali, ma fabbrica delle macchine, vale a dire è in grado non solo di inserire un’armonia teorica, di cui la contemplazione- 196 -è assolutamente paga, ma è anche capace di esternare tale armonia e di montare dei meccanismi che son tutti pervasi di intelligibilità: questa intelligenza è, dunque, oggettivatrice di intelligibilità e non limita la propria azione alla coscienza, ma l’estende anche alle cose di cui la coscienza deve servirsi e a cui la coscienza ricorre come a ciò che è oltre e indipendente da essa. Ora, anche se non si vuol tener conto del parallelismo intelligenza-istinto, vale a dire della possibilità insita nella percezione di armonizzare se stessa non solo con schemi di intelligenza, ma anche in forme che nulla hanno che fare con l’intendimento - parallelismo e possibilità che tolgono alla conoscenza quell’unicità di sistemazione e, quindi, quell’automatica interdipendenza fra intelletto e sensazione postulate da Kant; parallelismo e possibilità, di cui si può anche non tener calcolo in quanto rientrano in una teoria generale dell’universo che potrebbe anche dichiararsi estranea al puro campo gnoseologico quale si pone in una coscienza umana -, resta pur sempre la duplice potenzialità di questa intelligenza che, sotto un certo rispetto si limita a rapportare sensazioni, mentre, sotto un altro, è capace di far sussistere il rapporto in un terreno in cui la sensazione non vive dello stato cosciente di semplice contemplazione. Ora, se nella prima forma, nell’aspetto teorico, l’intelligenza è elemento di conoscenza, inscindibile da tutto il conoscere, nella seconda forma, nell’aspetto pragmatico, l’intelligenza è padrona di aggeggi che si applicano agli oggetti, quando questi, però, non sussistono allo stato di semplice rappresentazione. La fondazione pragmatica della teoria del conoscere deve fare dell’intelligenza una facoltà a priori, al tempo stesso che le deve riconoscere una completa subordinazione alla sintesi del concetto: non può riconoscere all’intendimento un possesso di nozioni autonome in quanto esso è uno dei modi che la coscienza possiede di elaborare il reale quale viene percepito attraverso la sensazione; e al tempo stesso deve erigerlo a padrone di forme autosufficienti, se non vuole detronizzarlo dalla sua dignità di strumento vitale atto ad asservire il mondo delle percezioni a quei bisogni della coscienza che non possono limitarsi alle richieste della contemplazione e della rappresentazione disinteressata. Ora, perché questo sia, è necessario non solo che l’intelligenza abbia i- 197 -propri componenti – i rapporti, le forme,- indipendenti temporalmente dalla percezione, ma anche che tali componenti siano in un certo senso uno degli aspetti delle percezioni stesse. Di conseguenza, il dibattersi di Bergson fra una posizione di relativismo, che insorge ogniqualvolta si tengono presenti le serie di osservazioni condotte sull’inadeguatezza della rappresentazione intelligibile al reale – o, meglio, sull’impossibilità di affermare una tale adeguatezza, - e una posizione di realismo che si impone non appena ci si rende consapevoli che il fondamento gnoseologico comporta l’adeguatezza. E quando si vuol superare il contrasto, quando, battendo il sentiero della pura gnoseologia, si vuol giungere a posizioni che, ritrovate nell’intimo stesso del dato gnoseologico, astrazion fatta da qualunque esperienza psicologica, e condotte con ordine rigorosamente logico, consentano di allacciare l’interpretazione trascendentale dell’intendimento a quella pragmatica, allo scopo di sfociare in una metafisica, è facile cadere in sofismi la cui giustificazione sta solo nella conclusione e nel valore che a questa si vuol dare, non certo nel processo discorsivo. Così, questo intendimento, che è conoscenza di forme e in cui la forma è oggetto di conoscenza, sarà sì la forza che sistema la conoscenza in una realtà attuale in cui non si daranno né un prima né un poi, ma sarà anche l’attitudine che può far uso delle sue rappresentazioni in schemi astratti di meccanismi, la cui traduzione in realtà è una manipolazione di immagini in cui l’oggettiva validità della rete formale è assicurata dal risultato; e sarà inoltre una facoltà che la coscienza non può non aver modellato in sé sulla realtà oggettiva. Che se poi ci si chiede se questa, che è in fondo acquisizione, non contrasti con il suo preteso innatismo, Bergson potrebbe risponderci che abitudine-direzione e innatismo non sono antitetici, quando li si riconduca all’unico sostrato dell’attenzione che dirige la coscienza lungo un certo indirizzo delle cose e la piega a modellarsi  su questo come abitudine.

             E nell’intelligenza come conoscenza di forma ritroviamo qualcosa di nettamente distinto dalla percezione. Se per facoltà di percezione intendiamo non già quell’organizzazione di dati sensoriali in gruppi permanenti e distinti, costituenti delle unità di molteplici- 198 -i cui vari componenti si presentano sempre associati in modo che l’uno non può sussistere senza i molti e viceversa, ma l’attitudine ad accogliere degli stati qualitativi che sorgono con il segno dell’esteriorità, la caratteristica principale della percettività diventa la molteplicità indefinita; un numero indefinibile di sensazioni giungono ad ogni istante alla coscienza, vi si imprimono attraverso alla memoria, pronte a retrocedere subito nel passato per lasciar posto a quelle presenti che urgono sotto il peso del futuro: il mondo delle sensazioni è un mondo in cui non si numeromisura. D’altra parte, ogni sensazione è sempre un nuovo assoluto; qualunque gruppo di dati sensoriali si prenda che siano collegati l’un l’altro in una successione temporale, non si darà mai che ogni sensazione sia la ripetizione della precedente e che, quindi, si possa dare un’equazione di due sensazioni; infatti, le modificazioni continue cui va soggetto il complesso di immagini da cui è ricavata la sensazione particolare, si riflette in un continuo cambiamento di questa e nell’impossibilità conseguente di essere ora quel che era prima. Ma se anche si ammettesse che quel mondo delle immagini fosse una totalità statica e che statiche, di conseguenza, fossero tutte le sue parti, il mutamento si dovrebbe questa volta trasportare alla coscienza, la quale ad ogni istante è una sfera differente in cui il modo presente di accogliere una sensazione non sarà affatto identico a quello prossimo, se non altro perché il futuro si presenterà rispetto al passato più ricco di quei dati sensoriali che già son penetrati nella coscienza. La sensazione, quindi, è molteplicità indefinita e novità assoluta. Passiamo, ora, ad osservare l’intelligenza come mondo di forme: se per forma è da intendersi il particolare modo con cui una sensazione è collegata ad un’altra, si deve ammettere, già in sede puramente teorica, un numero definito di forme, perché, se i modi di unione esistessero secondo una molteplicità indefinita, pari a quella delle sensazioni, non solo non saremmo affatto in grado di parlare di modi, in quanto avremmo nozione solo di gruppi binari di sensazioni ai quali dovrebbero estendersi tutti i caratteri che finora abbiam detti propri delle sensazioni isolate, ma non potremmo neppure operare alcun confronto fra sensazione e sensazione e gruppo e gruppo, in quanto vivremmo in un vortice- 199 -inesauribile di novità in cui il passato non avrebbe più ragione di esistere, o, anche esistendo, non avrebbe più la facoltà di agire. Ma anche a non voler procedere per assurdo con ragionamenti puramente astratti, il semplice esame della coordinazione, esame operato dalla logica, ha fissato in una quantità ben definita il numero dei modi di collegamento. Le forme, quindi, che consentono l’intelligibile, sono definite nei loro aspetti e nei loro modi e sono definibili in quanto riconducibili a un numero relativamente basso di categorie, quali quelle dei rapporti di parte a tutto, di mezzo a fine, di causa ad effetto, di uguale ad uguale, di condizionante a condizionato, ecc.: il che consente la catalogazione e la generalizzazione. D’altra parte, il numero circoscritto è richiesto dall’altro carattere necessario all’intelligenza, la ripetizione. Conoscere con l’intelligenza vuol dire conoscere secondo sistemi, e conoscere secondo sistemi significa conoscere secondo un ordine: ora, se la sensorialità è una successione indefinita di un eternamente nuovo, la conoscenza per sensazioni non potrebbe certo essere conoscenza con disordine, come quella in cui si darebbe solo un presente che non sarebbe allacciabile né a un passato né a un futuro e che quindi non rivelerebbe nessuna assenza di un piano coordinatore; ma non sarebbe neppure ordine; perché la conoscenza per sensazioni si trasformi in conoscenza ordinata son necessari sia il rapporto sia una ripetizione costante del rapporto, la quale riconduca a un certo numero di unità fisse e immutabili il materiale in perpetua creazione che la sensazione offre. Per questo la sensazione ci appare come un dato che è valido solo in sé e per sé, mentre la forma intelligibile risulta essere un dato la cui validità dipende non da esso ma da ciò cui si applica e che non sarà mai utile a una sola situazione, ma a una pluralità di situazioni tanto vasta quanto lo è la molteplicità del sensoriale. Infine, il mondo delle sensazioni è un mondo di eterogeneità, una sfera in cui i vari dati non possono essere confrontati l’uno con l’altro non tanto perché ognuno compare dotato di qualcosa di diverso dall’altro, essendo il diverso un di più o un di meno, quanto perché la diversità è un fatto qualitativo, inscindibile data la sua esistenza in unità e non riducibile, in sé, a molteplicità di parti distinte;- 200 -e poiché l’omogeneità consiste nella presenza di almeno un elemento di uguaglianza che consenta il confronto, non si darà omogeneità dove l’unità, considerata in sé, presenta solo differenze, e, d’altra parte, non può per opera propria artificialmente decomporsi in parti delle quali almeno una si presenti come identità e consenta il confronto. Le forme intelligibili, invece, sono omogenee, non tanto perché applicate alle sensazioni consentono alla coscienza di trattarle come omogenee e di inserire fra l’una e l’altra quelle operazioni di equazione, di misura, di quantificazione, che solo un’omogeneità tollera, ma perché sono di per sé, in quanto rapporti, classificabili e catalogabili e, quindi, confrontabili l’una all’altra, se non altro per il carattere di unità che tutte presentano, per essere tutte dei puri schemi di rapporto. L’intelligenza, come conoscenza di forme, si contrappone e si distingue dalla percettività, per i suoi caratteri di molteplicità definita ed omogenea e di validità ripetuta, che nulla hanno che fare con quelle caratteristiche di molteplicità indefinita ed eterogenea e di validità isolata che son proprie delle sensazioni.

            All’intelligenza, in quanto conoscenza di forme, si è giunti attraverso la considerazione della facoltà presa in sé; vi si sarebbe però anche potuto giungere muovendo dalla sua finalità che ne costituisce a un tempo il fondamento. Lo strumento artificiale, anche il più semplice e primitivo, ha come caratteristica l’accostamento di parti distinte, a cui si assicura una particolare rispondenza allo scopo in virtù delle relazioni che ne plasmano l’unione: nel montaggio dello strumento non interessa, dunque, la differenza qualitativa delle parti che può essere indefinita, quanto la stabilità dei rapporti che devono ripetersi identici per esercitare il loro valore.

La formalità, quindi, dell’intendimento e le caratteristiche che vi si ritrovano, sono una condizione necessaria del principio d’azione sotteso alla facoltà.

            Partendo da questo principio e compiendo, così, un cammino diverso da quello finora tenuto per la descrizione dell’intelletto Bergson raggiunge, ad una ad una, le altre proprietà che caratterizzano la conoscenza per intelligibili e la diversificano da quella per sensazioni. Se osserviamo tutti i modelli di macchine che l’intelligenza- 201 -ha finora montato, vediamo che essi non solo sono tutti distaccati dal corpo vivente che li manovra e li utilizza, ma sono essi stessi corpi inerti, individuati attraverso l’agganciamento o l’incastro di parti che sono a loro volta corpi privi di vita: può anche darsi che qualcuna di queste parti sia di origine organica, ma il modo con cui sono state maneggiate e utilizzate non è affatto diverso dal modo con cui [[si*]] è operato sulle altre di natura puramente materiale e inerte. La fabbricazione, perciò, non fa distinzione fra inerte e vivente, ma utilizza tutto come se fosse inerte: la sua sorgente di materie prime e brute è la materia inanimata. L’intelligenza, quindi, sovraordinata com’è alla fabbricazione, deve avere come oggetto la materia e al livello della materia deve ridurre tutto ciò che le si presenta come oggetto.

            D’altra parte, fin che ci limitiamo a contrapporci al mondo circostante come a un punto di applicazione di azioni e di reazioni semplicemente possibili, fin che cioè lasciamo allo stato virtuale la nostra azione sulle cose, per noi non farà molta differenza che le cose siano o no in movimento. Quando, al contrario, ci accingiamo a realizzare l’azione e a tradurla in un contatto fra noi e le cose, dobbiamo fare una differenza fra l’immobilità e il movimento: sia che questo movimento si attui nello spazio e interessi la quantità sia che si attui nel tempo e interessi la qualità, la nostra applicazione sulle cose esige che dal loro movimento noi estraiamo o il limite estremo, il termine in cui il movimento si spegne, o un istante della traiettoria, secondo che vogliamo agire sul mobile al termine della modificazione o durante la modificazione stessa: ma in entrambi i casi è chiaro che ci disinteressiamo di ciò che si verifica durante il movimento e ci interessiamo solo di ciò che risulta come effetto statico del movimento, o totale o parziale. L’intelligenza, che non è se non un atteggiamento particolare della nostra attività, procederà lungo l’identica direttiva e si comporterà nei confronti del movimento allo stesso modo: ignorerà la mobilità, ne accoglierà i risultati, che sono altrettante immobilità. L’immobile, quindi, è oggetto dell’intelligenza.

            Infine, il fatto che l’intelligenza operi sugli oggetti materiali- 202 -e il fatto che di questi colga solo l’aspetto immobile, ci riportano a quel carattere dell’intelligenza che avevamo anticipato in quanto vi avevamo scorto un punto di contatto con la percettività, la rappresentazione del discontinuo. Soltanto nella scena della materia inerte cogliamo degli oggetti che, almeno apparentemente, sembrano sussistere l’uno indipendentemente dall’altro; non è certo nella totalità dell’individuo vivente che cogliamo questa discontinuità, ma solo nella totalità di una parte dell’universo materiale. E soltanto in questa porzione, vogliamo ignorare quei movimenti e quelle modificazioni che legano il componente al composto.

            In realtà, i tre caratteri della cognizione del materiale, della rappresentazione dell’immobile e della riduzione al discontinuo si sarebbero ricavati dalla proprietà generale dell’intelligenza di essere la facoltà del rapporto, senza abbandonare con ciò, la linea della descrizione teorica e formale. Infatti, basta guardare il contenuto della nostra coscienza, e in particolare i concetti, considerati questi nella loro più semplice natura di rappresentazioni unitarie di oggetti, per accorgersi subito che ogni concetto, risultato di un connubio fra sensorialità e intelligenza, si comporta come un solido geometrico e ricalca la struttura dell’oggetto materiale, in quanto ignora il divenire qualitativo, eminentemente caratteristico, almeno in apparenza, di tutto il vitale. Il concetto, di conseguenza, è una entità immobile, in cui il divenire può essere introdotto solo grazie alla sostituzione di una serie di concetti giustapposti e susseguenti, ognuno dei quali è a sua volta un’unità immobile. Il concetto, infine, vive nell’ambito della coscienza in un’assoluta distinzione da qualunque altra idea soggetto com’è al principio di identità. Anche la pura inferenza dall’intelligenza, come conoscenza per rapporti, ci avrebbe condotti a ciò: se il rapporto non è che la considerazione  dell’esistenza di un dato in funzione dell’esistenza di un altro, è logico che si potrà dare rapporto solo alla condizione che le due esistenze siano indipendenti e, quindi, i due dati discontinui; se una considerazione dell’esistenza di un dato in funzione dell’esistenza di un altro dato può verificarsi solo fin che i due dati rimangono identici a se stessi, è logico che il rapporto si inserisce solo dove sussiste un’immobilità; se la permanenza di un’identità- 203 -avviene solo nel geometrico e nel logico, è naturale che l’intelligenza fabbrichi i suoi concetti a immagine e somiglianza di quella materia in cui tutto l’esistente può essere  ricondotto a posizioni e relazioni di natura quantitativa.

            Vi è un ultimo carattere dell’intelligenza, che è forse il più tipico, quello di potersi distaccare dal piano dell’azione e divenire facoltà atta a costruire teorie. Una coscienza che, allo scopo di servire alla vita, dispone se stessa in modo da diventare rete di rapporti, sarà destinata sì a ordinare in questa rete la materia che si monterà in una macchina, ma sarà anche soggetta ad accogliere instancabilmente tutto il flusso delle sensazioni in una continua sistemazione formale; anche quando non ci sarebbe affatto bisogno di agire e di costruire strumenti di azione. Cogliamo qui quello che è forse il carattere più interessante e più straordinario dell’intelligenza, un carattere che è consentito comprendere a fondo solo se si instaura ancora un confronto con la percettività. La coscienza percepisce certo allo scopo di agire e si con la percezione una particolare rappresentazione del mondo attraverso la quale le sia dato di inserirsi in esso per agire e trarre partito dalle condizioni sotto cui si è data la situazione che la circonda: ma la percezione non rappresenta affatto un’equazione fra situazione e azione, anzi costituisce il divario che corre fra un’azione attualmente e meccanicamente compiuta e un’azione il cui compimento vien rimandato nel tempo e affidato a modi fra cui è assicurata una larga libertà di scelta; in un certo senso, essa è un’equazione fra la rappresentazione e la tendenza all’azione. E poiché la coscienza è essenzialmente tendente all’azione, la percezione sarà sempre presente fin che si darà coscienza; non solo, ma essa celerà il suo fondamento pragmatico sotto la sua apparenza di contemplazione disinteressata e potrà celarla in quanto la prassi che le è sottesa e che la determina è una pura virtualità la cui traduzione in atto non è né rigidamente necessariaprotratta nel tempo senza soluzione di continuità. Qualcosa di simile capita all’intelligenza, la quale pure è una facoltà tendenzialmente rivolta all’azione e destinata a introdurre per scelta un modo contingente di vincolare la coscienza agente alla situazione su cui si deve agire, secondo un particolare adattamento ottenuto per rapporti, formalmente.- 204 -Anche qui, non è lecito stabilire un’equazione fra la sistemazione dei dati e l’azione compiuta, anzitutto perché il compimento dell’azione è libero di scegliere fra diverse sistemazioni, poi perché alla successione ininterrotta di sistemazioni non corrisponde affatto una continuità successiva e ininterrotta di azioni attuali. Anche qui abbiamo un’inadeguatezza fra il compimento dell’azione e la struttura formale, fra l’attualità dell’azione e l’introduzione dell’intelligibile. Se vogliamo stabilire un’equazione dobbiamo inserirla  fra l’intelligibile e un’azione che si pone come tendenza. E poiché una tendenza è sì un impulso che perennemente preme sulla coscienza e sui modi che essa ha assunto per obbedirgli, ma è anche una virtualità che non trova affatto in sé i motivi per una necessaria e ininterrotta traduzione in atto, l’impedimento diventa qualcosa di libero, qualcosa che è costretto ad operare continuamente la propria applicazione formale di rapporti senza esser soggetto a un’attuazione di azioni, che sia perenne come perenne è l’elaborazione sua di intelligibili. Così l’intelligenza può schiudersi a una libertà che non è già libero contatto con le cose, ma è svincolo dall’utilitarismo e dallo sfruttamento biologico del reale, che sarebbe il suo destino se il fondamento pragmatico fosse una realizzazione e non una tendenza; e grazie a questo, può porsi come contemplazione e ricerca di dati continuamente nuovi e diversi da inquadrare negli schemi, può spaziare nella situazione materiale delle sensazioni attuali, come nell’ipotetico quadro di concetti supposti, può seguire la china della vita, come distaccarsene e risalirla; può, in un  certo senso, applicare se stessa a tutto, senza però mai liberarsi dalle sue strutture le quali sempre recheranno il marchio del principio per cui si son formate.

            La capacità, dunque, che ogni essere vivente possiede di conoscere, in quanto è determinata e condizionata dalla necessità di agire, quale gli viene imposta dal suo modo di esistenza, si articola nelle tre attitudini cognitive della percezione, dell’istinto, dell’intelligenza, a seconda che, rispettivamente, o ci si ripiega sull’oggetto per farne una pluralità di immagini molteplici e distinte, la rappresentazione di ciascuna delle quali sarà l’indice di una indefinita virtualità insita nel rapporto pragmatico, o ci si sforza di isolarne l’oggetto e di penetrare nella sua natura, unicamente preoccupati- 205 -di stabilire un rapporto pragmatico siffatto che all’azione, più o meno complessa, si imponga di ripetersi identica ogniqualvolta la situazione si ripresenta immutata, oppure si assume l’oggetto nella sua pluralità in vista di un’azione, la cui costante variabilità e organizzazione meccanica non richiedono il possesso dell’immagine, in quanto è questa e non quella, ma restano soddisfatte dalla proprietà che debbono possedere le immagini in generale di inquadrarsi nello schema di una o più relazioni possibili.

            Tuttavia agli effetti di una conoscenza reale, la seconda di queste attitudini non rientra, se non di riflesso, in una dottrina gnoseologica. Se, qualunque sia il valore e il significato della coscienza, la cognizione non ne può andar disgiunta, all’istinto che non possiederà mai coscienza, se non dove cessa di essere istinto, sarà concessa soltanto una conoscenza implicita; e la percezione e l’intelligenza sole offriranno materia per una teoria. Questa dunque riguarda l’umanità, come quella di cui son proprie le due attitudini, o, per parlare con il linguaggio di Bergson, come quella in cui esse sono maggiormente sviluppate. D’altra parte, poiché sia l’istinto che l’intelligenza sono fonte di conoscenza, sia essa esplicita o implicita, e poiché non vi è intelligenza che sia priva di istinto e non vi è istinto che non sia circondato da un tenue alone di intelligenza, la definizione dell’atto cognitivo deve estendersi fino ad abbracciare anche ciò che vi è di inconscio nella conoscenza pragmatica, offrendo quindi i presupposti di una visione evoluzionistica della vita.

            Le conseguenze che da una concezione così delineata della conoscenza in genere possono trarsi, soverchiano quel che è pura gnoseologia, rendendo lecito il trapasso sia a una metafisica che a una psicologia le quali vivano di una vita non illusoria, in virtù dell’autonomia del loro criterio, che è assoluto e adeguabile, dal criterio gnoseologico, che è relativo ma non necessario, in quanto particolare. Uno stato, che si dichiari cognitivo, quando venga interpretato immediatamente, rivela la propria relatività a cagione di una realtà formale che, non essendo possibile per le premesse assunte dedurre da alcunché che non sia coscienza, deve di necessità esser dichiarata implicita nella coscienza medesima. Ora, delle- 206 -due l’una: o lo stato viene privato di una qualsivoglia dipendenza, vale a dire di ogni finalità che non sia quella di conoscere, e allora non è in grado di provare altro che la propria esistenza, non fornendo argomenti né per la propria necessità né per l’esistenza di un oggetto di cui sia traduzione né per l’apriorità logica degli schemi cui è subordinato; oppure non si vogliono accettare queste estreme deduzioni, e allora non resta che togliere l’autonomia allo stato, sovraordinandogli una finalità di natura diversa dalla sua apparenza formale.

            Il finalismo pragmatico, implicito in ogni atto di conoscenza, attesta dell’esistenza dell’oggettivo, perché non implica una relazione logica, la intelligibilità, vale a dire soggettività, della quale ne vieta l’applicazione, bensì fa capo a una condizione che non può essere se non quella di rapporto. Ed è proprio del rapporto la coesistenza dei termini, di modo che se il rapporto vien dichiarato necessario – ed è argomento della sua necessità la realtà dello stato cognitivo, la presenza  del primo di essi comporta l’esistenza dell’altro. Esiste un oggetto, qualunque ne sia l’essenza, appunto perché il soggetto conosce, essendo la sua conoscenza null’altro che l’aspetto di una esigenza esistenziale alla cui soddisfazione la coscienza, da sola, è inadeguata. D’altra parte, se fra coscienza e materia - è dato ora abbandonare gli appellativi del criticismo trascendentalesussiste uno scambio, senza il quale non si darebbe l’intervento attivo della prima sulla seconda, la dualità si riduce nei riguardi della gnoseologia a un problema che attende non la soluzione, ma la semplice definizione e descrizione della sua possibilità. Attribuire un significato pragmatico e non teoretico alla conoscenza significa ridare assolutezza all’atto cognitivo, nel senso che questo testimonia di una realtà «esterna».

            In tal modo, sostiene Bergson, molti insolubili risulteranno essere misteri apparenti. Vogliamo assumere la percezione? Il problema consiste nell’incomprensibile corrispondenza fra la qualità e la quantità. Alle percezioni inestese ed eterogenee fanno riscontro dei movimenti spaziali ed omogenei: fra coscienza e materia non v’è, quindi, possibilità di contatto. Ma se l’immagine percettiva non è che un aspetto, quello cosciente, di una particolare condizione del- 207 -rapporto pragmatico, la contrapposizione viene elisa, da un lato attenuandosi il concetto di inestensione, per cui il dato dei sensi appare staccato dalle cose e accerchiato dalle barriere della coscienza , riportandosi dall’altro, la nozione di spazio, cioè di una materia infinitamente molteplice sospesa in un’estensione indefinitamente divisibile, alla necessità, implicita nella coscienza, di fare della realtà un complesso di oggetti distinti per agire su di essi e per adattarli all’organizzazione meccanica.

            Si vuole, invece, considerare l’intelligenza? Quando si pretenda muovere dall’assoluta teoreticità dell’intendimento, all’intelligibile non si può dare altra dignità che quella di un’imitazione o di un’immagine simbolica del reale: si dirà, allora, che la conoscenza che ci è data  è relativa perché fra noi e le cose si inserisce lo schema delle relazioni che la ragione impone loro. Questa deformazione, però, questa continua ricreazione che la coscienza fa della materia è giustificata solo per uno spirito il cui ufficio si limiti alla contemplazione. Ma uno spirito che è nato per agire e che ha modificato la propria struttura in vista dell’azione, deve aver trovato nelle cose stesse elementi sufficienti da trasformare in fattori per il proprio ordinamento. E se l’intendimento è costituito da quel complesso di relazioni, in cui la coscienza ordina e inquadra il reale, al fine di farne uno strumento pragmatico, ciò significa che l’azione e reazione reciproca di certi corpi hanno servito di modello per quelle stesse relazioni, che stabiliscono una forma intellettiva. Qualche cosa di assoluto, cioè di rispondente all’essenza delle cose, ci darà l’intelligenza. Quegli schemi formali, allora, mediano tra la definizione trascendentale e l’attributo realistico. Non sono né l’una né l’altra cosa, e necessitano a un tempo di essere definiti da entrambi i punti di vista.

Un termine, dunque, del rapporto pragmatico è la materia, l’altro termine la coscienza che opera attraverso l’intelligibile. L’unità dell’azione che ne risulta è il frutto di un adattamento dell’intelligenza alla materia e della materia all’intelligenza. Sarà forse possibile tentare una genesi dell’una e dell’altra, nel senso cioè che nell’essenza dell’intelligibile si potrà vedere, alla condizione di attualità, quel che nel materiale sussiste solo allo stato di virtualità.- 208 -La conoscenza è funzione pragmatica e non si può dare azione senza un rapporto immediato fra coscienza e materia. Che se tale rapporto si esplica mediante l’intelligenza, l’intelligibile non rappresenta altro che la confluenza di due entità diverse, l’una, la coscienza che con la relazione generale dell’intendimento delinea la forma generale dell’azione sulle cose, l’altra, la materia, che nella medesima relazione rivela la possibilità implicita di sottostare alle esigenze dell’azione. La relatività, allora, dell’intendimento è essenziale, nel senso cioè che è tale meno in riferimento alla materia che alla propria subordinazione a qualcosa che in sé l’ha così conformato piegandolo sia alla esplicazione pragmatica sia alle possibilità che al rapporto di azione consentiva la materia stessa. Questa, dunque, che fino a un certo punto apparirà intelligibile, parteciperà del relativismo proprio dell’intelligenza. Bergson stabilisce in tal modo la presupposizione fondamentale del proprio indirizzo metafisico. Né è possibile concepire la complementarità della teoria gnoseologica e della teoria biologica, che costituiscono il tema dell’Evolution Creatrice, e valutarle non come una dichiarazione dogmatica, ma come lo svolgimento coerente di un pensiero ad indirizzo critico, se prima non si è allacciata tale premessa alla fondazione pragmatica del problema conoscitivo.

            Infine, non solo la considerazione generale, che fa dell’azione il motivo della conoscenza, ma la dignità pure che vengono a rivestire le singole modalità, quali la percezione e l’intelligenza, introducono il principio della libertà. La materia, almeno come appare all’intendimento, è pervasa di necessità, essendo ogni momento di essa deducibile dal suo antecedente e stabilendosi una immutabile proporzionalità tra l’effetto e la causa. Occorre, è vero, apportare correzioni a questo che è puro intelligibile, ma resta pur sempre dimostrato il determinismo per l’adattamento reciproco della materia e dell’intelligenza.

            Ma non appena si presenti la vita, tosto vediamo nel complesso delle immagini altre immagini privilegiate i cui movimenti sono imprevedibili e spontanei. La differenziazione progressiva degli organi dei corpi viventi porta all’organizzazione di un sistema sensorio-motore che, complicandosi, si rende sempre più indeterminato,- 209 -vale a dire rende sempre meno deducibile il movimento di reazione dal movimento d’azione. A tale complicazione organica corrisponde la coscienza i cui stati, sia la percezione che il concetto, non sono che il simbolo sia di una sempre maggiore ampiezza di movimento, concessa all’azione dell’essere vivente, sia di una proporzionalità che va via via diminuendo, fra l’oggetto che spinge l’azione e le possibili vie che l’azione si trova aperte dinanzi. La coscienza, in quanto atteggiata alla conoscenza, manifesta la funzionalità di una prassi contingente. Che se, d’altra parte, la coscienza non sarà il dato ultimo di una metafisica che voglia aderire all’essere delle cose, quella libertà pragmatica di cui la conoscenza è segno, si dovrà a maggior ragione trasferire a ciò che conforma se stesso a coscienza nell’esigenza dell’azione, convertendola tuttavia in libertà assoluta.

            Il giudizio ultimo, perciò sulla conoscenza, che chiameremo pragmatica, ne fa un assoluto per quel che riguarda l’affermazione di esistenza dell’oggetto, indipendente e contrapposto alla coscienza, e l’aderenza o adeguazione parziale del noto ad esso, confermate dall’esperienza e dai risultati dell’azione. Questa aderenza si rivela valida soltanto sul piano della vita e della prassi: la conoscenza che si fonda sul sensibile e sull’intelligibile è, dunque, una comprensione vissuta della cosa in sé. Ma diviene relativa, quando, passando dalla sfera dell’azione alla sfera della contemplazione, pretenda estendere a «tutte» le cose quell’aderenza che è parziale, in quanto investe solo le parti del tutto che interessano una possibile azione del corpo sulla materia: si vuol risalire dalla parte  al tutto, battendo la medesima via per cui siam giunti a conquistarci la parte. Il contenuto gnoseologico ha un valore positivo, finché nella sua essenza resta legato alle forme dell’azione, alle esigenze cioè che hanno determinato la genesi della coscienza stessa, e, in definitiva, non può non risolversi in una continua, per quanto anche larvata, funzionalità pratica. Ci si riporti, ad esempio, alla formazione del concetto; a ciò e soltanto a ciò è relativa la sua conformità al reale: ma questo, non appena è assunto al livello della coscienza – pur rimanendo incuneato nel tutto da cui l’abbiamo estratto, pur continuando a partecipare virtualmente all’universo- 210 -non offre presa sufficiente per passare a cogliere il resto che permane incosciente.

            Nondimeno, l’accennare all’assurda applicazione dei criteri e degli schemi che interessano l’azione a ciò che con l’azione non ha nulla che fare, il ricondurre la forma intellettiva alla prassi e, infine, il fare di una presupposizione gnoseologica una premessa metafisica, stanno a provare che la filosofia di Bergson non si chiude in un limitato pragmatismo, ma ritiene la possibilità di risalire dal piano dell’azione al piano della contemplazione, dal piano della vita al piano della filosofia.

            Sembra, dunque, a Bergson che un vincolo allacci la cognizione alla vita, non con la rigida proporzionalità dell’effetto alla sua causa, ma pel concorso di una condizione favorevole a una serie progressiva di fenomeni determinati: questi con la loro presenza consentono il formarsi di quella, senza cui, d’altra parte, non potrebbero raggiungere una complicazione tanto elevata da svincolare l’essere vivente dalla necessità delle cose. Ma la vita stringe ad unità gruppi di immagini che, col riferimento della percezione, dispongono intorno a se stesse tutto il restante universo, come il centro del cerchio, una volta stabilito il criterio di equidistanza, fa degli infiniti punti dello spazio una indefinita serie di circonferenze possibili. I gruppi si mostrano distinti e privilegiati, non solo per i loro movimenti spontanei e indeterminati, ma anche per la facoltà di rappresentazione, inerente allo stato cognitivo. Attribuire all’immagine sensoriale o al dato dell’intendimento un ufficio pragmatico significa, quindi, allacciare la conoscenza alle necessità vitali del corpo definendo le modalità dell’una in funzione della specifica complessità dell’altro. Ciononostante vedremo che la relazione tutta particolare che lega lo stato di conoscenza alla modificazione fisiologica, offre un superamento della posizione materialistica. Per ora ci interessa solamente di dimostrare che la fondazione pragmatica della conoscenza, pur essendo di per sé insufficiente ad attestare un dualismo, l’esistenza cioè di due ordinamenti opposti di immagini, o volgarmente della materia e dello spirito, è in grado però di argomentarlo per altra via. Se il rapporto cognizione-vita vincola e subordina l’attualità e i modi dell’una rispettivamente- 211 -alla realizzazione e alle esigenze dell’altra, sia la conoscenza sia il complesso degli stati dotati della medesima forma propria di quelli cognitivi, non esauriranno tutta la realtà di ciò che appare essenzialmente eterogeneo dalla materia, ma soltanto quella sua parte che si rivela interessata alla materia in vista di un dominio su di essa. La vita, che si concretizza in zone materiali, è occasione e spinta alla conoscenza. Ma, qualora tutta l’esistenza non si esaurisca nella materia, una realtà che non si interessi né alla materia né alla vita dovrà sussistere in forme che non son quelle, sotto cui ci si la conoscenza, e la vita, che fino a un certo punto resta inintelligibile di fronte e allo stato cognitivo e al dato materiale, dovrà ricondursi, per una definizione, a questa stessa realtà.

            Il problema – è chiaroinveste questa volta la qualità dello stato cognitivo, vale a dire la coscienza.

            La definizione che se ne può dare dipende, in verità, dal determinato senso sotto cui si assume il dato, che essa caratterizza e contraddistingue. Perciò una concezione che fa del secondo una condizione esistenziale del fenomeno vita, è costretta ad assoggettare anche la prima alla medesima legge; ma, mentre sembra destinata a non salvaguardarsi da un materialismo, anche se è in grado di dichiarare lo stato psichico inquadrandolo come fenomeno in una serie di fenomeni, non introducendovelo furtivamente in veste di epifenomeno, elide l’eventuale identità dello spirituale al cosciente e rende quello atto a trascendere questo. La coscienza, allora, viene ridotta a circoscrizione della spiritualità; essa non è se non un suo aspetto, determinato dalle particolari condizioni che impone ciò che, per Bergson, è reale contatto dello psichico al materiale, vale a dire la vita.

            Si è detto che istinto, percezione e intendimento son reputati tre differenti aspetti della cognizione, i quali mutuano la loro diversità essenziale dalla varietà d’azione cui sono sovraordinati. Si è detto pure che soltanto alle due ultime articolazioni gnoseologiche spetta una pienezza di conoscenza, essendo questa in esse esplicita, mentre il fatto che nell’istinto la conoscenza sia soltanto implicita, consente di assumerlo per una dottrina trasformistica che voglia accostare la teoria della cognizione alla teoria della vita, ma- 212 -

ne rifiuta la partecipazione a una definizione che resti limitata alla sfera della conoscenza. Donde lo stato sensoriale e il dato intellettivo derivano la loro compiutezza se non da questo che si accompagnano a coscienza, o meglio che appaiono muniti di una luminosità e di un’attualità e immediatezza di esistenza, che coincidono nel termine coscienza? Ora, poiché uno stato è cognitivo soltanto se cosciente e poiché, d’altro lato, è fonte di cognizione appunto in quanto è volto a un’azione reale o possibile sulle cose, in quel che è conoscenza si riuniscono i due criteri della prassi e della coscienza. Che se poi una interdipendenza assoluta lega uno stato psichico, per essenza cognitivo, al suo modo di esistere essenzialmente cosciente, sì che non si possa dare una conoscenza, mediante percezione e mediante intendimento senza coscienza, al criterio che si definisce fondamentale per l’una, dovrà di necessità subordinarsi anche l’altra. In altri termini, la funzionalità pragmatica risulta [[ricca*]] di un principio di transizione e, di conseguenza, atta a trasformarsi da condizione originaria del cognitivo a proprietà distintiva del cosciente.

            Questo riferimento trova conferma, per la propria validità, nell’uso fattone dai più diversi pensatori, i quali sempre orientarono la nozione della coscienza nella direzione cui indirizzano la funzione gnoseologica: infatti, una volta attribuito a quest’ultima un disinteresse completo, ossia un’assoluta indipendenza ed eterogeneità di fini fra lo stato psichico gnoseologico e le giustapposte modificazioni dell’immagine corpo, la coscienza non può non definirsi come «una facoltà accidentalmente pratica, ma essenzialmente rivolta verso la speculazione». Si definisca, al contrario, la conoscenza come un atteggiamento particolare della pratica che si esplica con l’azione, la coscienza allora diviene «sinonimo di azione reale e di immediata efficacia». «In un essere che compie funzioni corporali» e che per la specifica organizzazione di queste funzioni necessita dell’accompagnamento di determinati stati psichici, «avrà soprattutto come compito di presiedere a un’azione e di illuminare una scelta». Cessa di essere la proprietà essenziale di atti puramente contemplativi, intervenendo, in qualità di organo di scelta, operando come attività selettiva. La definizione in ultima analisi- 213 -

 

interessa, se si vuole, la sfera limitata della psicologia ed è destinata, quindi, a modificare della propria sfumatura lo studio e la comprensione dei vari fenomeni che si possono cogliere entro l’ambito del cosciente. Ma se si richiama ciò che si disse a proposito della dignità di cui si riveste la disciplina degli stati psichici in Bergson, riesce difficile restringere l’importanza  della deduzione della funzionalità selettiva della coscienza dalla finalità pragmatica della conoscenza all’ufficio che esplica nella trattazione di certi argomenti, quali ad esempio, la percezione, l’abitudine, il riconoscimento e l’associazione. Altri trattatisti riconosceranno l’utilità di tale concezione e la riprenderanno o per dimostrarne la probabilità o per adattarla a profitto di una determinazione del pensiero umano. Con ciò tuttavia l’attitudine è puramente descrittiva, nel senso cioè che, al tempo stesso che si definisce, ci si preclude ogni conseguenza che non sia esplicazione e riconoscimento di fenomeni.

Ma quando Bergson dall’introduzione della coscienza con funzione selettiva nella teoria pragmatica della conoscenza deduce una serie di sviluppi virtuali che vengono a interessare  meno il problema della funzione della coscienza che il problema dell’essere della coscienza stessa, il limite psicologico è trasceso, sembrando allora la definizione mediare fra gnoseologia e metafisica.

             Come la conoscenza in generale trova la propria ragione e condizionamento supremi in un criterio irriducibile, che è la tendenza ad agire insita in ogni individuo dotato di movimento spontaneo e imprevedibile, così di riflesso la qualità, che non soltanto appare specifica degli atti cognitivi veri e propri, ma si accompagna pure a qualsiasi atto psichico che si dia come attuale, non potrà essere definita in altro modo, se non riferendola alla medesima legge di azione. La coscienza è pari ad una luce, che sembra donare presenza, ossia esistenza, al reale; ma questo suo ufficio di illuminazione si risolve «nell’accettare ad ogni istante l’utile e nel rigettare momentaneamente il superfluo». Con ciò diviene un impulso all’agire, una forza d’azione. Se vivere significa stringere  dei rapporti fra il nostro corpo e gli altri corpi, non vi è vita se non dove si abbia distinzione di corpi. Ma la delimitazione  del distinto è opera di una facoltà gnoseologica che getta sulla continuità- 214 -delle qualità sensibili una serie di fasci luminosi: poiché questi da un lato sono i corrispondenti di quelle esigenze biologiche che chiamiamo i bisogni, e dall’altro ritraggono quel che li rende immagini, vale a dire rappresentazioni, dalla contingenza dei rapporti, il fattore atto a fare dell’immagine una percezione dovrà subordinarsi alle necessità della vita che resta sottesa alla loro soddisfazione. La coscienza è proporzionale alla capacità di scelta di cui l’essere vivente dispone; è coestensiva alla frangia di azione possibile che circonda l’azione reale; è sinonimo di inventività e di libertà. La metodica trova qui il suo secondo  principio: «l’orientamento della nostra coscienza verso l’azione sembra essere la legge fondamentale della nostra vita psicologica».

            La tesi, quindi, che vediamo continuamente svolta in tutte le opere di Bergson, dall’Essai al Matière, dall’Evolution, dove riceve la sua più precisa determinazione, ai vari articoli e relazioni, in cui si arricchisce di dimostrazioni e di argomenti, è quella della funzione che deve essere attribuita alla nostra spiritualità. Qualunque nome le sia imposto, qualunque definizione di essenza o di genesi si sia per essa trovata, di qualunque dignità la si sia investita dinanzi a quanto può esserle indipendente e coesistente ovvero connaturale, uno ed uno solo è il punto di vista da cui si prende a considerarla. La coscienza non ha altro scopo, altra ragione di esistenza che quelli di conoscere. Vi è una verità che noi dobbiamo raggiungere: la coscienza deve tradurre in sé questa verità, contemplandola; di conseguenza la sua funzione è essenzialmente speculativa.

Ma richiamiamo l’immagine, che Bergson per ben due volte offre al nostro sguardo nelle pagine del Matière. È un cono rovesciato la cui punta si immerge a mo’ di perforatrice in un piano. Dalla punta i lati vengono via via allargandosi ed espandendosi fino a raggiungere e a spegnersi in una superficie circolare che è a un tempo la base e il termine estremo della figura. Il piano sta a rappresentare la totalità del reale da cui siamo circondati, l’universo della materia, la natura, il mondo delle cose: in esso noi penetriamo con quel vertice che del complesso psico-fisiologico della individualità umana, simboleggiato dallo schema geometrico, - 215 -costituisce il corpo, la zona materiale distinta e scissa dalla restante continuità, o più particolarmente il sistema sensorio-motore, che dal piano riceve e al piano rende e che sul piano agisce. Il corpo dunque, in quanto è eminentemente un complesso organizzato di vie e di centri nervosi, attorno a cui simili a serventi o a sussidiari si raggruppano i restanti organi, è di sua natura azione, azione tesa ora a soddisfare bisogni esclusivamente funzionali, connessi cioè con quelle altre funzioni che si affiancano alla sensitiva e alla motrice, o volta a penetrare sempre più nella natura, onde estendervi ed approfondirvi il campo del suo dominio. Da ciò consegue che, se al vertice sta l’azione, sia quella che si viene attuando sia solo quella che è libera di compiersi, l’estremità opposta segna il piano dell’inattività ossia dell’assoluto disinteresse: fra la punta e il cerchio oscilla la coscienza, che sarà sì dotata di due movimenti opposti, uno di tensione e di contrazione alla prassi e uno di rilassamento e di abbandono all’annientamento assoluto, ma che dalla forza, diciamo così, di gravità è portata ad urgere sul vertice.

La coscienza non può distaccarsi dall’azione, bensì sull’azione preme, all’azione tende, nell’azione si contrae. Anche quando la corrente vitale della coscienza sembra introflettersi per risalire dal vertice alla base, abbandonando il piano dell’azione e ascendendo alla sfera della contemplazione disinteressata, anche allora nel lavoro puramente intellettuale interviene, come pietra di paragone per la vitalità e validità del dato intellettivo, ossia dell’idea, la funzione pragmatica dell’io cosciente. Unica è la dignità, unica la funzione della coscienza: non la contemplazione o l’indagine, ma l’attività perenne e incessante, la vita. E se la vita è movimento e il movimento azione, la coscienza tende senza posa alla prassi. In essa è l’impulso a concretare i suoi stati evanescenti e di sogno in dati attuali, come quelli che si prolungano in azione compientesi. La sua realtà non è quella che è data e che in quanto tale non è più da agire, ma è quella che sta a cavallo fra l’atto che si è realizzato e l’atto che si vien realizzando. La sua verità non dipende da criteri di validità e di certezza, ma da misure di utilità e perciò la sua logica rigetta le forme del pensiero, in quanto- 216 -si ordinano e mirano alla pura riflessione e traduzione del reale, per ricercare e fissare i mezzi atti a perfezionare i meccanismi di cui si vale per l’azione; non determina di conseguenza «quali fra le operazioni mentali dirette alla conoscenza del vero, siano valide o non, ma sceglie fra gli stati psichici di qualsivoglia ordine quelli che valgono a rendere l’azione sempre più rispondente al bisogno e sempre più proporzionale al richiamo che parte dagli oggetti a cui può estendersi l’influsso del corpo». Questo è il senso di ciò che Bergson intende quando parla di «attenzione alla vita».

            Quali deduzioni possono trarsi da questa nozione del cosciente per una teoria che riguardi la realtà, vale a dire per una metafisica? L’orientamento pragmatico, che è il sostrato dei dati della conoscenza, sembra concedere un superamento del materialismo, giacché fra gli stati di coscienza percettivi e le scosse afferenti del sistema sensorio-motore stabilisce una relazione che è molto meno fenomenica o causale che occasionale. Ma si tratta di vedere se la licenza di svincolare il rapporto percezione-modificazione fisiologica dalla proporzionalità causale o dal parallelismo non sia dovuta tanto al condizionamento utilitaristico di un’attitudine gnoseologica, quanto alla gradualità che si pone tra fenomeno psichico e fenomeno materiale, in virtù di un’attuale esistenza, definita dal carattere cosciente dei primi. La questione viene posta nei suoi termini più precisi, qualora si riconosca che l’autonomia dichiarata del dato gnoseologico è implicita nella fondazione pragmatica della conoscenza in generale e non riceve argomentazione adeguata, se non in un secondo tempo, vale a dire quando, per la disgiunzione della spiritualità dalla coscienza, si potrà estendere il concetto di spirituale ad una realtà psichica, funzionalmente ed essenzialmente indipendente dalla materia. Di fatto, fin che ci si attiene al criterio interessante la coscienza dal punto di vista gnoseologico, è possibile, è vero, da un lato inferire l’esistenza delle cose, dall’altro rilevare l’inadeguatezza della concezione meccanicistica a spiegare il fatto della percezione, ma poi non si è in grado di modificare l’ipotetico in assoluto per la deficienza di una teoria universale dell’essere, ininferibile da una dottrina della conoscenza, sia pure ad indirizzo pragmatico. Ciononostante, dal momento che tale indirizzo- 217 -non i suoi frutti soltanto nella sfera del metafisico, attribuendo alle cose un’esistenza certa, ma investe pure il campo psicologico, interessando la realtà formale dei dati di cui dichiara la funzione e determina il condizionamento, conviene risalire alla conseguente definizione, al fine di completare quanto ancora rimane deficiente.

            L’attribuire alla coscienza l’ufficio di attività pratica o, più precisamente, selettiva, trova alla sua sorgente la tendenza di alcuni stati dei quali compare come segno distintivo, allo stesso modo che alla funzione particolare si adegua la conformazione caratteristica di un organo. Ma, come già si è detto, il concetto o si limita ad intervenire nell’interpretazione psicologica o viene assunto indipendentemente e sviluppato agli estremi limiti. Attenendosi a questa seconda possibilità, Bergson prosegue nell’Evolution quanto ha iniziato nel Matière; ma, se nella seconda opera il principio della funzionalità utilitaristica del cosciente resta permanentemente sotteso allo svolgimento e alla dimostrazione delle determinate relazioni fra coscienza e materia, che si istituiscono in vista di una conoscenza orientata all’azione, le posizioni vengono rovesciate nell’Evolution, in cui l’interesse al problema trasformistico o biologico fa velo al segreto travaglio di non spegnere il fuoco della spiritualità nel mare, ormai certamente esistente, dell’oggetto. E si fa appello, s’intende, sia alle virtualità intrinseche alla nuova definizione della coscienza sia a quanto si è già reso esplicito in precedenza. Insomma due diverse concezioni si contrappongono e si contrastano. Quel che gli offre la nuova, cioè  la pragmatica, può forse interessare la metafisica fino a tal punto da dare esistenza indipendente a ciò che sembra, per la conoscenza, confluire nel complesso dei fenomeni materiali, anche se in una relazione aliena dal principio di causalità.

            Bergson è convinto che la coscienza, intesa come il segno distintivo dei fatti psichici o interni, dal pensiero volgare o dalla indagine filosofica tradizionale sia stata assunta e considerata da un punto di vista aprioristico e non conforme ai dati  di esperienza che l’esame delle sue funzioni può fissare nella relazione fra ciò che le pertiene e ciò che non  le pertiene. Si convenga che la- 218 -coscienza non consente definizione, in quanto, lungi dall’essere una cosa, è un segno e perciò non una realtà distinta, ma un valore distintivo; si limiti questa asserzione alla sfera puramente psicologica, giacché posizioni differenti possono assumerla in una determinata accezione, appunto in quanto per esse la coscienza cessa di essere modo di un fenomeno psichico per divenire fattore di un particolare sistema; infine si eriga la coscienza a termine psicologico e non metafisico. Si chiede allora quale funzione abbia e da quale punto di vista tolleri di essere considerata nel ragionamento discorsivo di cui entra a far parte.

            Si potrebbe anzitutto obiettare che una determinazione di funzione richiede l’esistenza della cosa avente funzione, ma è chiaro che qui la funzione non vuol essere determinata; essendo tale di una qualità, è inerente al fenomeno cui compete tale qualità, trattandosi in altre parole del dato  stesso che si suol denominare cosciente. Si è preteso che questa coscienza, carattere distintivo da fenomeno a fenomeno, sia essenzialmente orientata nel senso della rappresentazione. Suo compito sarebbe di consentire una traduzione via via più profonda e adeguata del reale, di qualunque natura questo sia, e presupponendo la riflessione consentirebbe l’indagine. Simbolica di uno sforzo di abbracciamento, alieno da interessi, quindi inutile, e protesa alla speculazione, la sua possibile gradualità e la serie dei suoi sviluppi sarebbero indici di una progressiva altezza e capacità di afferrare e comprendere la costituzione delle cose. Coscienza e conoscenza in certo modo coinciderebbero, quando si intenda per conoscenza la riproduzione in termini  logici e concettuali di ciò che può o non essere cosciente, ma che pure ha come propria la determinazione dell’esistere. Coscienza sarebbe dunque sinonimo di contemplazione. Ma se la coscienza serve a distinguere l’’uno dall’altro due gruppi di fenomeni, se cioè esistono stati coscienti che presuppongono, appunto perché tali, stati incoscienti e se gli stati che comportano l’attributo della coscienza, sono quelli «interni» o psichici, si può ammettere o meno la realtà di un incosciente, di un fenomeno che non sia psichico, ma si dovrà rigettare l’esistenza di un fenomeno di un fenomeno psichico che non sia cosciente, non appena si eriga la coscienza a simbolo della speculazione. Se la tendenza, sottesa- 219 -

a tutta la spiritualità, è quella di rappresentarsi o per immagine o per concetto la realtà delle cose e se anche nelle sue finalità pratiche lo spirituale non può esimersi dagli stati cosidetti coscienti, dal momento che la coscienza è essenzialmente faro di conoscenza, i cui raggi si posano sui vari fenomeni che ne ricevono la luce e il valore, dal momento che la sua funzione non è [[se*]] non di appropriarsi dei fenomeni e di renderli atti alla comprensione e alla speculazione, non solo non si concepisce come possa darsi uno stato, sostanzialmente identico agli stati coscienti, ma differenziantesi da essi per l’assenza della sfumatura fondamentale, ma non se ne vedono neppure le ragioni o lo scopo o le possibilità di esistenza. L’atto psichico incosciente diviene allora inutile e inintelligibile. Si ritrova qui l’illusione che incessantemente rinasce e che Bergson persegue e combatte in tutta la sua gnoseologia. Di conseguenza ogni realtà psichica non può sussistere se non attualizzata in una immagine cosciente.

            Quando, al contrario, ci poniamo da un punto di vista opposto e cessiamo di guardare alla coscienza come al carattere proprio di stati contemplativi, una nuova visione dello spirituale scaturisce e la sfera dello psichico appare atta a trascendere i limiti della coscienza. Non è necessario, l’abbiamo dimostrato, abbandonare o misconoscere la coincidenza di coscienza e di cognizione. Si lasci pure tale aderenza. Non appena tuttavia la cognizione decade dal suo ruolo di incomprensibile ripetizione in caratteri logici e inestensivi di quel che sussiste sotto altro aspetto, la coscienza deve di necessità passare dal suo atteggiamento disinteressato al compito utilitaristico di presiedere a una azione o di illuminare una scelta, affinché permanga conforme a una conoscenza il cui ufficio è quello di preparare e di facilitare un particolare tipo di azione. La concezione precedente stabilisce che lo stato psichico, in tutti i suoi aspetti, è riproduttivo del reale e che la coscienza è l’indice di tale funzione attuata; da ciò deduce che la qualità di presente o di attuale è implicita nel termine spirituale e che, tale attualità non potendo essere data se non dalla coscienza, non deve andar separata dall’indice cosciente. Lo stato psichico sarebbe cosciente, in quanto dev’essere attuale. Bergson invece dimostra che, se lo- 220 -stato psichico nel suo aspetto gnoseologico è in funzione pragmatica rispetto al reale e se la coscienza è simbolo di tale funzionalità, il rapporto presenza-coscienza cessa di investire l’esistenza, in quanto l’attuale o presente riguarda soltanto la contingenza o la immediatezza dell’azione. Nel primo caso la coscienza non definisce con esattezza uno stato, ma si limita a riconoscere e a indicarne l’esistenza presente, come quella che non può dare se non ciò che è. Quando invece si prenda la coscienza come la sfumatura propria di ciò che accompagna ed è interessato al rapporto pragmatico, che lega un’immagine a tutte le altre, sarà ancora segno di un presente, ma di un presente la cui definizione non si limita alla sua natura, ma al suo ufficio, un presente che è meno «ciò che è» che «ciò che si fa». «Voi definite arbitrariamente il presente «ciò che è», mentre il presente è semplicemente «quel che si fa».

Le conseguenze, è logico, sono diverse in un caso e nell’altro. il pensiero è chiuso nell’ambito della coscienza ed è costretto a negare un’esistenza a quello psichico che non sia cosciente, in quanto non possiede argomenti per una realtà presente che disgiunga la qualità dall’indice della qualità. Per Bergson si tratta di ricercare se entro la medesima coscienza sussistano elementi la cui presenza attesti di un’origine da qualcosa che sia psichico senza essere cosciente. Se è possibile argomentare l’esistenza di stati psichici disinteressati che con l’azione attuale non hanno alcun legame, si potrà attribuire loro la natura spirituale e al tempo stesso ritenerli incoscienti, perché, non essendo soggetti alla legge fondamentale della vita che è una legge d’azione, si sottrarranno alla luminosità, propria degli stati orientati alla prassi, luminosità che non è se non coscienza. Qualunque sia la realtà psichica estranea alla coscienza, che viene scoperta – per Bergson sarà il ricordoresta chiaro questo che l’introduzione dell’inconscio nella psicologia  oltrepassa di gran lunga i ristretti termini di una semplice questione descrittiva, consentendo l’enunciazione di quello che può considerarsi il terzo principio metodico: la coscienza non coincide con la spiritualità, ma ne è solo un aspetto o meglio una limitazione.

È facile afferrare la genesi deduttiva di questo principio; facendo infatti della coscienza un’attività di scelta in vista dell’azione,- 221 -si sottraggono al suo influsso quelle ipotetiche realtà di ordine spirituale, che non necessitano di scelta perché orientate in direzione opposta all’azione, ma che perdono il loro carattere di ipoteticità non appena poste in relazione con stati di coscienza simili, la cui natura di immagini li collega a una funzione pragmatica. Come principio [[metodico]] metodologico*, deve partecipare alla trattazione di problemi gnoseologici, logici e psicologici, come quello che offre soluzioni rispettivamente di rapporto, di valore e di esistenza. Ma rivela la sua portata metafisica non appena, posto in confronto con la definizione della coscienza in generale, dimostra di costituire appunto la risposta all’interrogativo, rispetto al quale la fondazione gnoseologica appare inadeguata, intendo alludere alla questione dell’essere della spiritualità, che anche l’occasionalismo pragmatico non è in grado di dotare di un’esistenza autonoma e assoluta, qual è quella dell’oggetto.

            Consideriamo infatti da più vicino questa coscienza, che è in rapporto diretto con la progressiva libertà e distacco del corpo dalla necessità delle cose. Due diverse considerazioni, l’una di carattere, per così dire, empirico, l’altra inferibile dalla presupposizione fondamentale, ci inducono a vincolarne la presenza a due condizioni necessarie: da un lato alla mobilità, di cui appare dotato l’individuo, dall’altro al potere di scelta, per cui l’individuo è atto a rispondere con differenti atteggiamenti al richiamo che le cose lanciano su di lui. Ma, se non può esservi facoltà di movimento se non dove si dia un’attitudine alla scelta e se il potere di scelta ha la sua più alta manifestazione nel moto imprevedibile, la coscienza in realtà appare condizionata dalla sola contingenza che può accompagnarsi all’atto. Ora, quantunque Bergson affermi recisamente che tanto il movimento quanto la facoltà di scelta non hanno, per condizione necessaria, la presenza di un sistema nervoso potendosi considerare entrambi immanenti alla natura originaria e comune dei vari esseri viventi, nondimeno l’osservazione dei dati di fatto non può tener conto di tale affermazione, in quanto dedotta, in ultima istanza, da una visione sintetica metafisica, ed è costretta invece a soffermarsi su quel che il pensatore stesso riconosce, dover cioè la coscienza selettiva, e quindi orientata all’azione, rendersi solidale- 222 -col sistema nervoso in generale e con quella parte di esso in particolare la cui attività cessa di essere riflessa. Una relazione necessaria, invero, rende proporzionali l’uno all’altra il grado di coscienza e la contingenza d’azione: ma se questa appare intrinseca alla complessità strutturale raggiunta dal sistema sensorio-motore, non ci sentiamo via via trascinati a trasformare quel che si è dichiarato semplice proporzionalità, in rapporto causale? Non finiamo per scivolare in un realismo della materia, sia pure sotto un aspetto che non sia quello della coscienza epifenomeno e del parallelismo psico-fisiologico? Gli elementi son più che sufficienti.

             Qui allora intervengono gli sviluppi cui la concezione della coscienza selettiva ha dato luogo nella pura sfera della psicologia. Il terzo principio del metodo, pur lasciando intatta la relazione che lega il cosciente alla materia, introduce un nuovo rapporto fra la coscienza e la spiritualità, di modo che il termine comune può erigersi a fattore medio fra spirito e materia. L’identità di forma, implicita nel cosciente e nell’inconscio, li pone entrambi su di uno stesso piano, facendo quasi del primo il proseguimento o l’aspetto vissuto ed attuale del secondo. Le esigenze pragmatiche, che la materia impone alla coscienza, stabiliscono non solo che lo stato per essere cosciente necessita di una determinata struttura da rinvenire nelle cose, ma anche che l’organizzazione del complesso nervoso, orientata verso un’attività volontaria, sembra richiedere per i suoi atti l’intervento continuo ed efficace di un fattore spirituale. Quindi la coscienza potrà dirsi occasionata dall’azione, nel senso però che, quando l’atto appare circondato da un alone di virtualità, si verifica la condizione sufficiente a che lo spirito possa intervenire nel gioco delle cose.

            Occorre, comunque, tener presente che il carattere di idoneità alla scelta in vista di un’azione non toglie nulla alla natura della coscienza: il termine coscienza, nel suo senso empirico e psicologico, conserva immutata la sua qualità di fatto semplice, atto a qualificare alcuni stati, che si danno come chiari e presenti, ma cessa di mutuare la propria definizione da quell’apparente impronta di disinteressata rappresentazione, che sembra contraddistinguere i dati della cognizione. Quando Bergson ritiene la conoscenza, in- 223 -quanto facoltà che rappresenta e traduce, in funzione del rapporto pragmatico che l’immagine materiale, dotata di vita e quindi di mobilità, attua fra sé e le altre immagini materiali, e, ancora pone per ipotesi che, se tale rapporto è fondato su una semplice possibilità di realizzazione, esso debba accompagnarsi alla genesi dell’immagine cosciente, applica una distinzione fra conoscenza e coscienza, sia perché l’attualità dell’una, vale a dire la sua chiarezza e la sua distinzione, sono meno la misura della dignità e della portata della prima che l’indice della sua funzione, sia perché la gradualità di questa non investe una progressione di valori, ma una differenziazione di atteggiamenti e di mezzi orientati all’azione, sia soprattutto perché una cognizione che si voglia immediatamente aderente al reale, non può non supporsi aliena dagli schemi pragmatici dell’intendimento e di conseguenza insofferente della struttura concettuale della logica, che la coscienza impone.

            Dal presupposto fondamentale deriva da un lato l’esistenza di un oggetto, ossia della materia, dall’altro il secondo principio che riguarda il valore della coscienza. L’inadeguatezza gnoseologica di questo trae come conseguenza il passaggio a un terzo principio, il cui ausilio a svincolare la spiegazione dello stato cosciente del fenomenismo meccanico non è se non l’aspetto razionale della sua portata metafisica, in quanto come sicura l’esistenza di un secondo oggetto, eterogeneo dal primo, lo spirito. Ma, a chi ben osservi, risulterà che il fare di queste le ultime conquiste del pensiero di Bergson significa ridurre il suo criticismo ad una filosofia della relatività gnoseologica che è in grado di rendere coerenti le conseguenze con le premesse traccianti l’indirizzo. Un relativismo, infatti, non tollera alcuna affermazione che debba sottostare per la sua validità universale alle condizioni che rendono ogni altra affermazione valida solo per chi conosce nel modo in cui conosce. Ma poiché un relativismo non deve, per rimanere tale, assolutamente rinchiudersi entro i limiti della coscienza, esigendo per la sua inadeguatezza, che il problema cognitivo si ponga come un rapporto e che perciò si proclami una polarità di fattori, è necessario che l’imposizione alla coscienza di condizioni cognitive, idonee a fare  del dato della conoscenza un relativo, ossia un inadeguato al termine- 224 -della conoscenza, e l’attribuzione di realtà extra-cosciente a tale termine, facciano capo ad un’unica e medesima presupposizione nella quale siano intrinseche una funzione trascendentale, come quella che costituisce la condizione suprema dell’elaborazione soggettiva del dato, e un’attitudine metafisica, in quanto da essa o dalle sue conseguenze può dedursi un assoluto che trascende  l’ufficio e i frutti delle sue funzioni.

            Ora, se la premessa del pragmatismo gnoseologico contenesse soltanto queste coincidenze, le conquiste del Bergson si ridurrebbero a due: alla costruzione di un relativismo, ricco della maggior coerenza sia per i criteri secondo i quali solo può stabilirsi la relazione sia per la certezza che la relazione impronta al fondamento e non agli elementi del sistema; e a una concezione dualistica, nella quale, una volta che si neghi alla coscienza la caratteristica principale di facoltà contemplativa e si elidano gli elementi per fare dello spirituale una res cogitans in virtù di una coincidenza di spirito e coscienza, sarebbero dati come reali il fatto reciproco e la reciproca azione dei termini costitutivi, ma la cognizione limitata agli interessi vitali del soggetto non sarebbe in grado di definirne né la possibilità né il modo.

             Come si può quindi coonestare tale valutazione che si nel contenuto di molte pagine dell’Essai e del Matière, che sembrano non tener conto della imprescindibile noumenicità dello spirito, o di altre dell’Evolution, tese a costruire una teoria della materia, o con quella corrente, che, più o meno latente nelle prime opere, si insinua e si ingrossa fino a divenire nelle ultime un mare che racchiude lo spirito e la materia e li fonde  entrambi in una visione cosmologica? Ma due punti nuovi sono ben in rilievo, per poter comprendere come la filosofia di Bergson voglia essere un criticismo che mantiene implicitamente vivi i mezzi per superare se stesso.


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