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Capitolo IV
DUALITÀ METAFISICA E POLARITÀ GNOSEOLOGICA
Non appena si afferma che la conoscenza, sensoriale ed intellettiva, è una facoltà che lo spirito possiede per orientarsi fra le cose in vista di un’azione virtuale o complicata su di esse, non ci si esime dal ricercare e definire le norme che si sovrappongono e si fondono ai dati della conoscenza, onde renderli conformi al compito pratico loro demandato; il complesso però di queste norme è costitutivo di una teoria che riguardando quella conoscenza che si attua in ottemperanza ad esse, non esaurisce e non implica la conoscenza, secondo il significato che le si appone usualmente e secondo i fini che di regola le si attribuiscono, quando la si suppone coincidente con gli stati gnoseologici coscienti. La cognizione resta in questo caso ancora un rapporto, ma poiché si richiede un’attitudine di contemplazione, si introduce un criterio tale di disinteresse fra il soggetto che conosce e la cosa che è conosciuta, che il fatto di conoscere non è più da riportarsi ad esigenze pragmatiche e si sottrae con ciò stesso a quelle forme che non sono se non il segno del valore assunto dalla cosa rispetto ai bisogni vitali del soggetto. Ammesso per ipotesi che una conoscenza di tal genere sia possibile allo spirito, si impone l’esigenza, che non è più una condizione, che cioè si esca dalla sfera pratica ed interessata delle relazioni quotidiane. In secondo luogo, il pragmatismo gnoseologico comporta che si distingua la conoscenza dalla coscienza. Poiché questa differenziazione è da assumersi nel senso che non è lecito
- 226 -ritenerle entrambe l’una inerente all’altra, la coscienza cessa di essere la nota comune e ineliminabile dei dati gnoseologici, ma la sua dignità pragmatica la renderà propria di quanti fra essi riguardano l’azione; gli eventuali, di conseguenza, che per la loro funzione eminentemente rappresentativa non siano affatto legati alla prassi, debbono sussistere al di là del campo del cosciente. I motivi dunque per cui la cognizione disinteressata è e può essere soltanto alogica, sono in primo luogo l’indipendenza da qualsiasi forma concettuale, in secondo luogo l’attuale esistenza incosciente. Essi in realtà si identificano, se è vero che è impossibile concepire una forma intellettiva incosciente o uno stato cosciente alieno dai criteri logici.
Seguendo lo sviluppo del pensiero di Bergson attraverso le manifestazioni sotto cui si presenta nel succedersi dei lavori, sembra arrischiata l’interpretazione che del suo sistema fa un criticismo e che ne riporta i concetti alla particolare teoria gnoseologica. Si direbbe che il problema della conoscenza sia da lui posto sotto un punto di vista che non ha nulla in comune con le posizioni precedenti e che deriva la propria dal fatto che egli non giunge immediatamente al problema, non ne fa il fondamento da cui si prendon le mosse onde costruire nella soluzione un sistema più o meno compiuto.
Dal momento che l’indagine di solito muove dal presupposto, che è poi quello del senso comune, di un dualismo di termini fra lo stato e l’oggetto di conoscenza e dal modo del loro rapporto deduce una nozione dell’universa realtà, si afferma che ogni filosofia si riduce a una metodologia, destinata a ritrovare il proprio criterio nella formulazione di un giudizio gnoseologico, e che quindi ogni dottrina, cui veramente si applichi l’attributo di filosofia, è eminentemente atteggiamento assunto di fronte al problema della conoscenza. Tale sarebbe stata la conquista di Kant, conquista che poi avrebbe assunto l’ufficio di legge inevitabile e che Bergson tenterebbe eludere quando nel suo «Saggio» sui dati della coscienza, descrive e di conseguenza definisce l’essenza profonda della spiritualità, senza preoccuparsi delle premesse teoriche che la definizione attende per esserne giustificata.- 227 -Ma, a parte il fatto che nell’opera citata non mancano gli accenni a soluzioni che, ancora in germe, vi esercitano il loro influsso in attesa di essere trattare e sviluppate isolatamente, resta pur sempre la questione, che Bergson fa propria, se a Kant e alla filosofia contemporanea in genere debba attribuirsi il merito di aver donato al fatto del conoscere la massima indipendenza e importanza e di aver subordinato alla gnoseologia la logica e la psicologia, o se piuttosto il suo nuovo ritrovamento, che successori e continuatori raccolgono come in eredità, non sia quello di dichiarare l’eterogeneità dei dati empirici da quelli intellettivi e al tempo stesso di ricondurli entrambi a un unico denominatore, mediante l’appello al senso autocosciente di identità, che fa del soggetto il carceriere di se stesso e preclude all’indagine qualunque via che conduca al di là della coscienza. Quando il pensatore francese enuncia la teoria della durata concreta, in quanto costitutiva dell’essere del soggetto, non stabilisce affatto una premessa a priori, su cui poi si modellerà una determinata metodica, bensì si limita ad una anticipazione. La problematica della conoscenza e le sue soluzioni sono implicite nello sdoppiamento della realtà psicologica. Che anzi se una esistenza in un tempo reale, che non [[muta]] mutua* la propria struttura da alcuna categoria logica, non rientra nello schema dell’intelligibile, questo, che appare un presupposto, cela tutta una nozione ben definita dei modi e delle possibilità del conoscere.
Per la verità, appare dogmatica quella distinzione fra struttura fenomenica o intellettiva e costituzione concreta del fatto spirituale perché né l’intendimento né la coscienza non hanno ancora ricevuto la loro definizione. Tuttavia la dualità che si attesta esistente entro l’ambito soggettivo, poggia su un sostrato gnoseologico le cui determinazioni non possono essere se non una critica del dato empirico e di quello intelligibile ed un superamento della loro relatività, superamento che si rende possibile e a un tempo [[corrente]] coerente* con le presupposizioni, quando si limiti il criticismo alle condizioni contingenti che l’esistenza individuale impone.
Ponendosi dopo Kant, sia le correnti che da questo prendon partenza preoccupandosi di «stabilire che noi cogliamo le cose attraverso certe forme, improntate alla nostra propria costituzione»,- 228 -sia le correnti che, propriamente empiristiche, presumono giungere al reale attraverso l’impronta che il reale stesso imprimerebbe sulla coscienza, postulano tutte una teoria della conoscenza e, pur tra divergenze e differenziazioni, si muovono su di un terreno comune presupponendo una distinzione fra esteriorità e stato interno, fra oggetto e simbolo, fra causa sensibile e percezione, distinzione, negando la quale non avrebbe ragion d’essere il porre come tesi una questione del conoscere. In qualsiasi modo il problema venga risolto, non si possono non riconoscere fondamentali due momenti: la priorità assoluta che compete alla teoria del conoscere e il necessario presupposto di una polarità di fattori, che [[lo]] la* qualifica come rapporto. Bergson, nonostante alcune apparenze contrarie, si rende partecipe all’indirizzo comune, assumendo come essenziale la conoscenza. Un segno tuttavia lo contraddistingue e gli dona autonomia: la dualità che sembra una condizione inerente al problema cognitivo, nasce come premessa di una teoria qualsivoglia, ma non è deducibile dallo svolgimento logico che ne costituisce il corpo. Infatti, sia che nella valutazione delle possibilità si prendano le mosse dalle forme elaboratrici della coscienza, sia che ci si soffermi allo stato psichico, ad esso guardando come alla riproduzione più o meno compiuta di uno stato extra-cosciente, riesce incomprensibile la deduzione razionale di una alterità, quando al fatto della cognizione si voglia misconoscere una teleologia che non sia implicita nello stato stesso di entità riproduttiva.
Nell’un caso si vedrà un movimento che dalla coscienza si porta alle cose, nell’altro un movimento opposto, in virtù del quale le cose o determinano la coscienza stessa o su di essa lasciano la propria rappresentazione, vivendo in tal modo di doppia esistenza. Ma in entrambi i casi il movimento è più fittizio che reale, giacché è dotato di presenza solamente il contenuto di coscienza, e conseguentemente la polarità risulta essere meno una dimostrazione che vien ricavata dalla trattazione del problema del conoscere che un presupposto che rende possibile l’impostarlo.
In Bergson, al contrario, come abbiamo già osservato, la giustapposizione di due realtà – sulla cui essenza e natura non interessa pronunciarsi, non comportando la trattazione gnoseologica un- 229 -concetto metafisico – non vien posta come premessa, appunto perché nella sua dottrina sussistono elementi sufficienti non solo a dimostrarla, ma addirittura a imporla. Se la problematica della conoscenza, concepita come contemplazione, esige una costituzione di rapporto, quantunque sia inetta a trascendere i confini di un termine per fissare il fattore necessario della relazione, non appena al concepimento disinteressato si sostituisce una fondazione pragmatica, la giustapposizione di conoscibile e conosciuto si arricchisce di un’argomentazione discorsiva, in quanto ricopre quel che non può attuarsi se non attraverso la presenza reale di due termini l’uno opposto e indipendente dall’altro. Una conoscenza, i cui modi e i cui dati non possono venir risolti se non definendoli in funzione di un orientamento all’azione, reca in sé implicita la nozione di polarità e si contrappone a qualunque teoria che la risolva in traduzione spassionata delle cose, come quella che, investendo la dignità della coscienza, rende quest’ultima insufficiente a definire se stessa e la propria esistenza.
Ora, le conseguenze di una tale posizione sono destinate ad interessare non soltanto la metafisica, ma la stessa dottrina gnoseologica, perché l’intervento di una relazione pragmatica non può non segnare un relativismo, imposto da questo che l’acquisizione delle cose da parte della coscienza resta subordinata nelle sue forme ai possibili modi con cui la coscienza si appresta ad agire sulle cose. Se una teoria, che riguardi la cognizione, non può non assumerla sotto l’aspetto di relazione e se i termini di questa si regolano reciprocamente l’uno sull’altro in vista di un fine imposto dalle particolari condizioni esistenziali di uno dei membri, è chiaro che ci si trova dinanzi ad una polarità determinata. Si avrà ancora la coscienza che accoglie in sé il simbolo del reale attraverso la sensazione, di contro alle cose che ne provocano la modificazione. Ma nell’ambito della spiritualità, quella coscienza, che si orienta all’azione e che di conseguenza è animata da un moto centrifugo che porta alle cose, non sussisterà sola, coesistendole una seconda realtà che le si contrappone al pari degli oggetti esterni.
Il soggetto, che conosce e che per conoscere si circoscrive e definisce nei confini della coscienza, si rende estranee due realtà,- 230 -da un lato il mondo della materia, dall’altra il mondo dello spirito: e il problema della conoscenza viene quindi a oscillare fra due rapporti, al binomio soggetto conoscente – oggetto termine di azione, aggiungendosi l’altro di soggetto conoscente – fatto psichico. La funzione dei dati della percezione e di quelli dell’intendimento è di prepararci a una determinata azione in vista di particolari bisogni vitali da soddisfare: le immagini e i dati, che sulle cose ci vengono forniti dalla coscienza, debbono di necessità esser frutto di un adattamento cui la materia sottostà, onde rendersi conforme alle esigenze da cui siam mossi alla conoscenza. Fra le cose dunque e la conoscenza che di esse abbiamo non può non sussistere una inadeguatezza che tuttavia sarà di natura ben diversa da quella del relativismo trascendentale, dal momento che il rapporto d’azione non è in grado di attuarsi senza una certa congruenza o coerenza delle forme elaboratrici con la realtà delle cose, coerenza che una conformità strutturale soltanto può dare. La soggettività viene con ciò attenuata ma non superata, poiché la prima relazione, quella fra la coscienza e le cose, viene in tal modo risolta con una organizzazione della sensazione e dell’intelligibile in forme che son frutto di un compromesso fra le qualità della coscienza e le proprietà della materia. Una volta assunto che le forme, di cui ci serviamo quando vogliamo conoscere il mondo soggettivo e che non sono se non il punto di confluenza di due correnti, l’una dallo spirito alle cose, l’altra dalle cose allo spirito, si originano da quella tendenza all’azione che costituisce il vincolo profondo fra la spiritualità individualizzata e continuità del reale, non resta che chiedersi quale dignità loro competa nell’applicazione agli stati psichici, nell’ingerenza in una relazione, tutt’altro che pragmatica, e quale certezza rimanga nella rappresentazione cosciente di tali stati.
I modi della nostra conoscenza sono l’indice di un rapporto d’azione fra noi e le cose; d’altra parte quando si vuole acquisire una cognizione, illuminata dalla chiarezza e dalla distinzione, peculiari alla coscienza, non si può prescindere da essi. Date tali premesse, i termini in cui si definisce il problema del secondo binomio non sono che due. In primo luogo non è possibile un’applicazione delle facoltà gnoseologiche della coscienza alla realtà profonda- 231 -dello spirito, poiché con ciò si pretende di rendere idonei a una operazione puramente speculativa i mezzi che sono validi soltanto per una conquista e per un asservimento utilitaristico delle cose; la coscienza quindi è assolutamente inadeguata allo spirito e la relatività dei dati gnoseologici, che poteva attenuarsi nei riguardi della materia, raggiunge qui il suo limite. Apprendere ed inquadrare la spiritualità entro gli schemi mentali significa forzarla in forme più impregnate di esteriorità, tingerla di quella sfumatura che il rapporto costante col mondo esterno ha impresso nella coscienza. Qualora poi si voglia ammettere una possibilità di cognizione disinteressata, cioè un’acquisizione non sottomessa ad alcuna finalità estranea, e perciò puramente contemplativa, converrà far astrazione da tutto ciò che può essere subordinato all’azione e affidarsi a un apprendimento immediato, tale cioè da non frapporre fra sé e il suo oggetto alcuna elaborazione intermedia. E poiché l’unica relazione che ci è dato stabilire in modo siffatto riguarda la nostra stessa spiritualità, a cui nulla può legarci di interessato o di vincolato a bisogni di vita, dalle nostre stesse profondità si sprigionano e una nuova realtà e una nuova facoltà di conoscere.
Per questo appunto Bergson prende le mosse da un problema psicologico o di costituzione di uno degli elementi della polarità, e lo risolve sdoppiandolo, facendone cioè una unità che può organizzarsi in maniere diverse a seconda che il suo contenuto venga interpretato in funzione di una determinata visione o concezione o che venga abbandonato a sé, libero di organizzarsi e muoversi e costruirsi in una esistenza che non è riferibile ad alcunché di concettualmente riducibile e noto, ma che è proprio costitutivo dello spirito, e che anzi si potrebbe definire lo spirito stesso.
Nelle sue argomentazioni Bergson appare animato dalla volontà di staccarsi nettamente dall’ambiente proprio del secolo in cui ha iniziato la propria speculazione. In lui c’è la medesima esigenza che ritroviamo in Cartesio e in gran parte della tradizione filosofica francese, l’esigenza cioè di una contrapposizione dello spirito alla materia, della coscienza al corpo; la necessità di ricercare qualcosa al di fuori e al di là del dato psichico e la stessa nozione di sostanza, che avevano segnato il corso e stabilito il più alto ostacolo al pensiero- 232 -dei secoli XVI e XVII, ritornano in Bergson e impongono da una parte la fondazione di una dottrina della conoscenza a presupposto di tutta una costruzione interpretativa, dall’altra una revisione di posizioni, fra cui quell’annullamento della nozione di sostanza al quale si erano tanto affaticati l’empirismo, il criticismo e l’idealismo immanentistico. Lo stesso enunciato, che sintetizza l’opera sua più profondamente speculativa e più particolarmente rivolta a stabilire una soluzione del conoscere, «Materia e Memoria», manifesta l’esigenza e stabilisce, per così dire, il principio che la fondazione di un problema della conoscenza e di una conseguente teoria del conoscere non possono andar discosti e scissi da un dualismo. Ma, dato il suo orientarsi deciso a un’indagine critica sulle possibilità del conoscere, riesce impossibile alla sua metafisica di affondare le radici in un processo intellettivo e razionale, essendo consentita solamente una trascendenza gnoseologica, da cui l’affermazione di qualche cosa che sia altro dalla coscienza scaturisce in modo siffatto che il principio soggettivo spirituale ne ritrae la più completa esaltazione.
La dualità, dunque, che pervade il tutto, si differenzia profondamente da un qualsiasi dualismo dogmatico, in quanto le è sottesa meno una fiducia nelle possibilità della ragione, massime nelle sue espressioni matematiche, che una nozione etica dello spirituale. Di qui le viene la nota che non è di opposizione, ma piuttosto di distinzione. Una rigida differenziazione fra spirito e materia poggia di regola su principi speculativi, posti i quali, non appena si affida a un’attività, dichiarata infallibile, l’ufficio di determinare il modo di entrambi i componenti e di dedurne autonomamente la natura, sorgono difficoltà pressoché insuperabili, dovute a questo, che, quando si parla ad esempio di essenza, si fa di necessità capo a dati cognitivi e che i dati postulano un contatto, una reciproca relazione il cui modo e la cui ragione riescono inintelligibili. L’indagine riflessa conduce sia alla conoscenza di stati interni sia alla concezione di un tutto di cui quelli sarebbero espressione o modificazione; le caratteristiche rispettivamente sono la indivisibilità e l’unità assolute. Poiché fra tali stati si danno le immagini percettive, anche la sensazione beneficia dell’indivisibilità. Quel che sussiste- 233 -oltre e indipendentemente dal soggetto, la ragione lo concepisce e lo risolve in una molteplicità di parti giustapposte e lo apprende quindi come indefinitamente divisibile: da questa prima diversità traggono origine le altre come conseguenze rigidamente dedotte. Poiché la divisibilità non è attuabile se non in un dato esteso e poiché la realtà, da cui saremmo circondati, si risolve nel calcolo in qualcosa di esteso, in cui la parte può affiancarsi alla parte, una volta opposto il divisibile all’indivisibile, l’estensione di ciò che è divisibile comporta l’inestensione di quanto è stato conosciuto come indiviso.
In secondo luogo il pensiero è in grado di impadronirsi della realtà estesa, di conoscerla e di prevederne gli sviluppi attraverso una applicazione delle norme matematiche: l’oggetto si sottopone e si adatta perfettamente alla formula, la cui infallibilità ne offrirebbe un criterio di conoscibilità. Ora, poiché la formula è applicabile solo a variazioni suscettibili di misura e poiché la nozione di misura si introduce là dove si diano delle oscillazioni omogenee di quantità, i cangiamenti del secondo termine del dualismo sono da risolversi in fenomeni, vale a dire in mutazioni del numero e della posizione reciproca delle parti e conseguentemente quel che è divisibile ed esteso non può essere che omogeneo, guardandosi alla storia dei suoi mutamenti come a un processo indifferenziato di variazioni quantitative. L’inapplicabilità, d’altra parte, della formula e del numero allo stato psichico testimonia del sottrarsi di questo all’omogeneità quantitativa, del suo essere altro dalla quantità, vale a dire qualità.
Il divisibile e l’indivisibile, l’estensivo e l’inestensivo, il quantitativo e il qualitativo sono segni opposti e inconciliabili che si originano l’uno dall’altro e che di necessità approfondiscono sempre maggiormente la scissione da cui i termini del dualismo sono separati. Ora, quando ci si sofferma alle manifestazioni indivise, inestese, qualitative, cui competerebbe di rappresentare il tratto di unione fra lo spirituale e il corporeo, non si è in grado non solo di spiegare, ma addirittura di concepire come l’indiviso possa adeguare o anche coincidere parzialmente con l’indefinitamente divisibile- 234 -e fino a qual punto l’eterogeneità delle qualità sensibili traduca l’omogeneo variare delle quantità oggettive.
Bergson, che, come vedremo più oltre, trae materia sufficiente per un dualismo non soltanto da una determinata fondazione della dottrina gnoseologica, ma anche da una duplice considerazione virtuale, da cui la cognizione come problema può riguardarsi, è posto nella condizione di dover costruire delle premesse per la propria interpretazione e a un tempo di dover evitare le secche di quella contrapposizione, la cui insuperabilità non lascia aperte che due vie di sviluppo: o la negazione di una metafisica qualsiasi o la riduzione dell’un termine all’altro. Se la cognizione deve avere un senso filosofico e se tale significato non deve essere alieno da quello attribuitogli dal senso comune, conviene porre il dualismo attenuandone tuttavia la contrastante discordia in una coesistenza distinta. Non riducendosi il problema gnoseologico ad una questione di indagine limitata, ma coincidendo da un lato con una presupposizione d’ordine metafisico, dall’altro con un postulato etico, la sua soluzione comporta sia la possibilità di un sistema interpretativo della materia, nella sua essenza indipendente, sia la dimostrazione del valore della spiritualità, come quella che non pone la materia, ma vi trova il mezzo di attuarsi e di affinarsi. Si potrebbe ricordare l’apologo della zappa, cui il ruvido della terra dura e petrosa ridona splendore e lucentezza.
Il dualismo dogmatico quindi attende di essere criticato, non nel suo aspetto di atteggiamento, ma nelle sue determinazioni, nelle forme cioè in cui prende corpo. Una posizione che per non accettare la parte elide il tutto, corre il pericolo di ricadere nel medesimo vizio di origine, vale a dire di accettare quelli che sono i dati superficiali; allora non resta che aderire ad una delle due: o sostituire alla premessa della dualità una premessa di unità sostanziale o ributtare qualunque presupposizione e dichiarare il dato adeguato solamente alle possibilità di conoscenza del soggetto. Gli atteggiamenti, ad ogni modo, si identificano nello sforzo di innalzare a valore speculativo di riflessione i mezzi, di cui la coscienza dispone per un’attività che con la contemplazione non ha nulla che fare. Per non aver distinto ciò che alla coscienza è semplice arma- 235 -di dominio e di utilizzazione della materia ai fini e ai bisogni della vita, da ciò che essa deve ricercare e ritrovare in sé ogniqualvolta si rivolga all’oggetto, nel senso più vasto del termine, per contemplarlo non per agire su di esso, appunto e soltanto per questo si è finiti nella rigida contrapposizione del divisibile all’indivisibile. Quando si intuisce se stessi [[e*]] qualcosa che non è questo sé, si è nel giusto, ma usciamo dalla retta via quando, pretendendo di risolvere i due termini, ricorriamo a quanto la coscienza coglie nel suo atto di congiunzione con la materia, perché in questo istante la coscienza non vuol contemplare, ma agire sulla materia. Allora per agire divide e per dividere «crea» un mezzo da stendersi e svolgersi al di sotto dell’estensione medesima, mezzo omogeneo ed indifferenziato, in cui il reale cangiamento qualitativo può trasfigurarsi o in semplice spostamento di parti o in variazioni di distanza e di luogo; ma questi spostamenti e variazioni, in quanto quantitativi e con ciò suscettibili di misura, consentono al fenomeno una ripetizione costante e donano alla coscienza la sicurezza di ritrovare immutato ed identico, quando si ripresenti il bisogno e si riponga il rapporto di utilità, quel che già ha soddisfatto il bisogno e offerto l’utilità.
La divisibilità, l’estensione spaziale e la quantità esistono; la coscienza le possiede e le coglie nella materia ed è naturale che, cogliendole nella materia, le contrapponga ai propri stati che, in quanto indivisi, divengono in tal modo pure inestesi e qualitativi. Della loro esistenza tuttavia vanno debitrici a una particolare interpretazione del reale, necessaria alla coscienza, figlia dell’azione ed interprete dell’azione. Ma, quando ci si voglia sottrarre all’esigenza di impadronirsi della materia e di asservirla ai propri scopi pratici, quando cioè ci si voglia elevare dal piano della vita al piano dell’universale interpretazione, passando dall’azione alla contemplazione, conviene ricercare e fissare le norme e gli schemi, che la coscienza, in vista di una funzione pragmatica, si era data per fare dell’oggetto qualcosa che le potesse servire; conviene ancora rigettare tali schemi, liberarsene, determinandone la caratteristica e dichiarandoli insufficienti alla ricostruzione, che è comprensione disinteressata dell’esistente. Se essi sono validi assoluti necessari per una coscienza, che si immerge nella corrente del bisogno e dell’azione- 236 -quotidiana, per ciò stesso sono destinati a divenire idolo, non appena assieme ad essi osiamo avventurarci nel campo della pura contemplazione.
Son qui implicitamente contenuti i principi di una metodica nuova, in virtù della quale si è indotti a procedere con una continua distinzione fra spirito e materia, fra coscienza e spirito, fra conoscenza e conoscenza. Si muove, è vero, da un trascendentalismo gnoseologico, perché non ci si vuol costringere a partire da alcuna premessa che non sia in grado di reggere quando si proceda al problema del conoscere; ma, d’altra parte, poiché ad un trascendentalismo, che risolva il problema del rapporto fra il soggetto e le cose riconducendo queste a quello, non resta altro che fare un assoluto del soggetto e ridurre tutto il reale a contenuto di coscienza organizzantesi nei modi da essa impostigli, si limita la relatività gnoseologica, rendendola funzione e determinazione di una delle possibili relazioni. La coscienza cessa allora di costituirsi a nota essenziale del dato gnoseologico, e d’altra parte ciò che appare contenuto di coscienza non è spiegabile se non gli si contrappone un’esistenza che non soltanto sussiste indipendentemente dalla coscienza, ma è pure priva delle note formali che caratterizzano la coscienza stessa, vale a dire le note della spiritualità. Il fatto stesso che noi conosciamo, reso oggetto di indagine, viene ristretto nella sua dignità, ma al tempo stesso che accetta come confini quelle che sono le condizioni imposte da noi all’oggetto da conoscersi, riduce questa condizionalità al tipo di un vero e proprio contatto fra ciò che conosce e ciò che è conosciuto, sì che a questo viene assicurata un’esistenza, deducibile dalla stessa relatività gnoseologica. Il condizionamento pragmatico quindi, se da un lato sembra precludere ogni via ad un’apprensione dell’essere delle cose, dall’altro segna un indirizzo chiaro alla metafisica, in quanto stabilisce che senza la coesistenza distinta di due principi, non avrebbe luogo una conoscenza orientata all’azione e, rivelando nell’atteggiamento interessato dello spirito la fonte da cui proviene al dato la relatività, lascia supporre che a lato della cognizione sensoriale e di quella intellettiva, vale a dire a lato della cognizione cosciente, sussista un’altra- 237 -apprensione, questa volta immediata, delle cose, che potrebbe aver luogo quando [[non*]] si è costretti a muoversi sul piano della vita.
Le conseguenze di questa concezione, interessante i dati della percezione e dell’intendimento, coinvolgono, ripetiamo, una posizione metafisica. Ma il dualismo non viene soltanto limitato alla distinzione fra materia e spiritualità, bensì penetra sia nell’uno che nell’altro dei due termini distinti, di modo che quella separazione, che può operarsi ad esempio nella sfera del materiale, riesce ad attenuare la nozione di relativismo, che fino a un certo istante appare predominante nella dottrina. La materia vien colta dall’esperienza come organizzantesi nelle due serie dell’organico e dell’inorganico. Quando nell’oggetto della natura non si voglia vedere che una semplice differenza di grado fra l’inerte e il vitale, quando cioè si pretenda ricostruire la vita con una semplice complicazione dell’inorganico o, viceversa, si trapassi dall’una all’altro attraverso una progressiva diminuzione di intensità, si dovrà porre tutta la realtà materiale su di un unico piano e di conseguenza il comportamento che l’intelligenza assumerà nei suoi confronti, o piuttosto il valore di cui risulterà dotata l’azione dell’intelligenza sulle cose, non potrà essere che univoco. La materia tutta diverrà un intelligibile o che questo intelligibile adegui il reale o che ne sia un’immagine deformata dai modi di cognizione soggettiva.
Nell’uno e nell’altro caso nondimeno, se l’apprensione tramite gli schemi geometrici non solo risulta propria dell’intendimento, ma appare conforme a quel che di inorganico e di bruto si trova nel mondo della materia, e se una progressione continua è possibile stabilire dall’organizzato all’inorganizzato, quel che virtualmente può essere abbracciato dall’intendimento coincide con l’estensione della realtà, o in altri termini tutto il reale è traducibile nei termini dell’intelletto. Ci si riporti ora alla concezione della conoscenza, qual è intesa da Bergson, e si richiami le definizioni che da un tal punto di vista è lecito dare all’intelligenza: questa non è altro che una determinata attitudine della coscienza, in quanto rivolta a un particolare tipo d’azione. Un’azione complessa richiede per attuarsi la partecipazione di un numero vario di «oggetti», dei quali interesserà meno la natura di ognuno che la possibilità in essi implicita- 238 -di inquadrarsi in uno schema relazionale. L’intendimento o conoscenza intelligibile è rivolta alle cose appunto per applicar loro tali schemi indifferenziati o forme, intendendo per forma «l’insieme dei rapporti che si debbono istituire fra gli oggetti per formare una conoscenza sistematica». La forma non soltanto deve di necessità prescindere da alcuna considerazione di cangiamento qualitativo e non può trovare la sua più nitida espressione se non nelle formulazioni geometriche, ma, dovendo l’intendimento conservare aderenza alla sua finalità pragmatica, troverà un agevole adattamento soltanto là dove si presentino condizioni ad essa favorevoli, vale a dire un fenomenismo meccanico e un processo di modificazioni quantitative. D’altra parte è necessario far appello qui a un criterio nuovo, per il quale la gnoseologia di Bergson conserva intatto il suo relativismo nei confronti di un lato o di un aspetto solo dell’esistente: intendo alludere alla definizione che fa della cognizione non il risultato di un movimento unidirezionale che dal soggetto conduce all’oggetto, ma il punto di confluenza di un duplice moto che dalla coscienza è rivolto alle cose e dalle cose alla coscienza.
La «forma» andrebbe in certo modo debitrice della propria struttura non solo alla conformazione della coscienza, ma alla traccia che su di essa vengono imprimendo le cose. Il fattore trascendentale perde gran parte della sua apriorità logica, pur conservandone la funzionalità. L’intelligenza quindi, che sembra servirsi con successo sempre maggiore della materia inorganica per le sue invenzioni meccaniche e che di qui rivela nell’inorganizzato il primo dei suoi punti di applicazione, impronta la buona riuscita che risulta dall’adattamento della sua interpretazione ed elaborazione geometrica ad uno dei modi dell’oggetto materiale, ad una logica inerente ad una parte della stessa natura; l’inerenza del geometrismo meccanicistico all’inorganico sarebbe appunto attestata dalle forme intelligibili, sia perché soltanto nella sfera dell’inerte il risultato di concezioni teoretiche dovute alle applicazioni dello schematismo intellettivo offrirebbe un valore positivo pari a quelle conquiste nel dominio e sfruttamento della materia inorganica che son le macchine, sia perché la forma o schema razionale, che costituisce la conoscenza dell’intelligenza, non può non sottostare a quel criterio - 239 -di compromesso – già applicato allo spazio – per cui non dovrebbero considerarsi né categorie né concetti di genesi empirica, ma piuttosto abitudini contratte con l’esercizio di una lunga pratica indefinitamente ripetentesi e conformantesi alle esigenze pragmatiche del soggetto e alla natura dell’oggetto. Da ciò vien chiarita la proposizione, che afferma essere l’una all’altra vicine la fisica e la metafisica della materia bruta.
L’impossibilità di applicare con egual successo le forme intellettive alla materia vivente, impossibilità che viene attestata dalle due concezioni, la meccanicistica e la teleologica, entrambe insufficienti a spiegare la complessità costitutiva e la semplicità funzionale dell’organo, di contro, non solo prova che l’organico è di sua natura inintelligibile e che quindi fra la vita e l’intendimento vi sé assoluta inadeguatezza, ma lascia congetturare che sotto tale insofferenza di rapporti, traducibili nella sfera del cognito in un rigido relativismo, si nasconda una netta differenziazione di natura fra l’ordine organizzato e l’ordine inorganico della materia. Di contro alla dualità coscienza-spirito si leverebbe un analogo polarismo fra materia vivente e materia bruta. La proporzione che allora può stabilirsi fra la cognizione cosciente e la realtà profonda dello spirito da una parte e la conoscenza per intelligibili e l’esistenza biologica dall’altra, consente un ulteriore svolgimento metafisico nell’interpretazione dei rapporti che legano la corrente della vita allo spirito e delle relazioni che si danno fra l’intelligenza e la materia inerte. Senza soffermarci su queste deduzioni che riguardano più dei problemi speculativi che la questione gnoseologica in generale, restano tuttavia due osservazioni da farsi.
Anzitutto Bergson sembra muovere da un relativismo assoluto, che poi viene via via attenuando, fin quasi a rivalutare i dati della conoscenza intellettiva, almeno sotto quell’aspetto che riguarda la formulazione scientifica. Ora, in qual modo qui si conservi aderenza alle premesse e soprattutto alla fondazione pragmatica del fatto cognitivo e fino a qual punto vi facciano sentire i loro influssi quelle vedute interpretative del reale, di cui il progressivo sviluppo dell’indagine arricchiva il quadro puramente metafisico del sistema, costituiscono degli interrogativi, di senso spiccatamente critico, cui- 240 -si risponderà più oltre. Fin d’ora tuttavia potrà dirsi che la questione del valore dell’intelligenza e i problemi paralleli che si vengono ponendo, sia sui rapporti fra intelligenza e materia inerte, sia sulla genesi dell’intelletto, risentono della nuova concezione della durata, e che quindi una loro trattazione, che ne segua l’origine, più di quanto non si preoccupi di esplicarne l’argomentazione logica e la risoluzione gnoseologica, richiede una larga messe di prenozioni su quella seconda forma di conoscenza, che viene introdotta da Bergson attraverso l’intuizione e i cui risultati debbono essere oggetto di analisi molto meno di quanto non conviene siano la sua possibilità e la sua determinazione.
In secondo luogo, deve porsi in rilievo che, se dall’orientamento alla prassi, attribuito alle cognizioni sensoriali e intellettive, deriva una polarità fra spirito e materia, tale dualismo non può fare a meno di investire sia la spiritualità che lo stesso mondo contrappostole.
Bergson riconosce quale importanza rivesta nel suo sistema la distinzione del principio spirituale dal principio materiale e come, nonostante le eventuali correzioni, introducibili in un secondo tempo, il rendere la prassi suprema condizione del conoscere discorsivo conduca al relativismo. Se da esso si salva l’esistere di una realtà contrapposta alla coscienza, non è lecito tuttavia dare né dell’una né dell’altra una qualsiasi definizione, superarne il fenomenismo, in quanto solamente il ricorso a un ulteriore potere di cognizione consente di apprendere la cosa in sé e di apportare, per dir così, delle rettifiche, che, quantunque operino una modificazione di valori, non vanno certo di ciò debitrici alle premesse fondamentali. L’interpretazione trasformistica, di natura tale da non offendere e pregiudicare tutte le esigenze di un presupposto spiritualismo, si regge sull’assoluta differenziazione posta nella materia fra organico e inorganico. La fiducia, riposta nelle possibilità umane, di accingersi a una filosofia, non limitata al coordinamento e unificazione dei dati isolati delle singole discipline naturali, ma atta a costruire una metafisica, e al tempo stesso lo sforzo, ad essa parallelo, di salvaguardare i valori della scienza positiva, vale a dire di non esaltare le supreme conquiste a tutto scapito delle altre, parimenti proficue- 241 -e convalidate dai brillanti risultati, possono sì dirsi sorretti ancora dalla medesima contrapposizione, ma non possono essere spiegati se non da quell’attribuzione di dignità identica all’intendimento e all’intuizione, che sotto un determinato aspetto rappresenta l’attenuazione del relativismo e sotto un altro ne costituisce il superamento, e quindi la proclamazione.
Ancora, alle antinomie che si presentano al pensiero fra il rigido determinismo, che gli schemi geometrici ordinatori e la loro validità testimoniano inerente al mondo della materia, e la fede nella libera spontaneità creatrice, che cogliamo nel nostro stesso intimo profondo, non può sfuggirsi se non alla condizione di renderli indipendenti e giustapposti, elidendo qualunque complanarità o gradualità nel complesso dell’esistente. Ora, la distinzione fra inerte e vivente, il polarizzarsi della conoscenza intorno all’intendimento e all’intuizione, la giustapposizione del dato, matematicamente deducibile [[degli]] dagli* antecedenti, al dato, che grazie alla conquista del nuovo si sottrae a qualsiasi calcolo e previsione, condotti sui termini da cui è preceduto, trovano a loro sostrato comune il presupposto di una dualità di enti la cui diversità sta meno nella natura che nel valore e nell’ordine.
D’altra parte, poiché il fondamento pragmatico dà luogo soltanto a un giudizio di esistenza, il passaggio a un giudizio di essenza non può ricercarsi entro la sfera di ciò che per sua natura è rivolto al’utilizzazione e non all’approfondimento, o, in altri termini, di ciò che stabilisce fra sé e il proprio oggetto una relazione non speculativa, ma pragmatica. Un nuovo contatto solamente, questa volta spassionato, ossia immediato, potrebbe sostituire al relativo l’assoluto. Ma, alfine, si tratta di accettare come premessa l’eventualità di un tale rapporto e di trascendere, riferendosi ad alcunché di assoluto in se stesso, i dati della cognizione concreta comune. Resterebbe un altro mezzo, se fosse dato rinvenire entro i termini stessi del logico, delle operazioni o dei concetti, la cui presenza non potesse giustificarsi in altro modo, se non con quanto si è acquisito in grazia della cognizione privilegiata.
Essi rappresenterebbero un tentativo operato dall’intendimento, al fine di rendere in sede teorica comprensibile e accettabile con- 242 -l’applicazione dei mezzi posseduti quel che altrimenti sarebbe destinato a restar confuso e inspiegabile. Tali dati quindi, quantunque non siano che un adattamento dei modi del reale alle condizioni di comprensione proprie della coscienza, nondimeno ritrovano il loro significato e la loro ragione d’analisi in questo che, confrontate da un lato con [[le*]] definizioni dell’intuizione, dall’altro con l’interpretazione pragmatica degli schemi intellettivi, comprovano di quelle la validità, di questa l’argomentazione. E il criterio verrà adottato per il dualismo. Se si vuole, ci troviamo ancora dinanzi a un atteggiamento comune a tutte le posizioni di riforma del pensiero, di cui costituisce uno dei momenti, il momento distruttivo. La confutazione, implicita nella maieutica, la pars destruens e la metodica del dubbio si identificano con la ricerca delle abitudini contratte dall’intendimento sotto l’influsso dell’orientamento alla prassi e al tempo stesso se ne differenziano, perché, mentre là si tratta di liberare da preconcezioni il pensiero, per passare in un secondo tempo, allo sviluppo sistematico di nuove interpretazioni, qui invece si esige di ricavare da queste attitudini abitudinarie una tesi generale del modo di procedere nella conoscenza e delle condizioni supreme che le sono sovraordinate. Alla confutazione subentra l’esplicazione e la correzione.
Non sarà dato perciò rinvenire in Bergson una vera e propria metodologia della negazione, quanto piuttosto qua e là ricorreranno gli accenni e le trattazioni su singoli «idoli». Ciò vale, ad esempio, per la pretesa di localizzare i ricordi, pei due modi di concepire la libertà, così pure per le argomentazioni implicanti l’esistenza. Ma ciò cui accenniamo più sopra, costituisce il fuoco di un discorso privilegiato, come quello le cui conclusioni vengono a interessare uno dei principi fondamentali della concezione intera.
L’azione, con il suo condizionamento e le sue esigenze, si espande su vasto tratto della spiritualità umana, tinge di sé funzioni, sinora ritenute pure, cioè da nulla compenetrate se non dalla loro stessa essenza, e determina particolari atteggiamenti di relazione, che, appunto in quanto soggetti a tale determinazione, consentono all’analisi una rivalutazione – la percezione, ad esempio, o addirittura l’intendimento nei confronti della materia - : perciò,- 243 -ponendocisi dal punto di vista puramente pragmatico e ricercandosi sino a qual punto una concezione o una funzione si sia mantenuta entro i limiti di una [[condizionalità]] a-condizionalità* teoretica, si potranno risolvere problemi che con maggiore o minore legittimità si impongono, significando qui risoluzione meno svolgimento logico che verificazione critica. E parlare di una revisione critica, quando si presuma – come Bergson – di possedere il criterio in una norma qualsiasi – che in questo caso null’altro sarebbe se non la certezza intuita di una funzione che la vita stessa impone alla logica e da cui la logica non può prescindere, in quanto suo condizionamento, neppur nell’istante in cui si applica ad oggetti ben diversi da quelli offerti dalle situazioni congruenti con la funzione – vuol dire in certo modo sottrarsi al pericolo, insito nella norma stessa, di scivolare nel relativismo, e colpire non tanto il complesso, quanto alcuni componenti.
Questi elementi, una volta che si riesca a dimostrarli come il risultato di una illegittima applicazione di processi discorsivi, validi negli atti della vita, a qualcosa di eminentemente speculativo, si riducono a preconcezioni, che è quanto dire a pseudo-concezioni, attraverso le quali, operando per deduzione, non possono non darsi pseudo-problemi, richiedenti meno una ricerca di soluzione che un argomento di insufficienza e irrealtà delle loro premesse.
Di conseguenza, a proposito del sistema di Bergson, si può ancora parlare di idolo, che è una nozione propria di una filosofia che si ponga come critica e la cui genesi, in quanto idolo, sarebbe argomentata dalla proposizione generale, essere il pragmatico il compito eminente e costituzionale della psiche, come attività cosciente e atta alla riflessione.
Il connubio fra l’una e l’altra attività, il trascinare nell’imperio del contemplativo quella che è molla nella vita quotidiana, ma che si appesantisce e ci lega e ci zavorra via via che ci distacchiamo dalla necessità di esistere per soddisfare l’altra esigenza, di spiegare l’esistere, stanno alle radici dell’idolo; la rottura del connubio e la conseguente attribuzione a ciascuna delle due di quanto le è proprio, comportano la caduta del preconcetto e con ciò una liberazione, vale a dire l’apertura di una via all’apprensione del vero. L’idolo per eccellenza- 244 -è costituito dalla proposizione negativa in generale e in particolare dalle nozioni, se così si posson chiamare, che sembrano attraverso se stesse dar corporeità e cristallizzare il procedimento che sottende ogni negazione. Da tal punto di vista quelle nozioni appaiono riuscire dall’adattamento di una indefinita discorsività a una situazione determinata, di modo che la relatività inerente al processo si riporta al frutto: i dati negativi dunque non soltanto si ridurranno a dei relativi, ma trapasseranno da un’esistenza ritenuta logica a un’esistenza puramente verbale, dovendosi quindi al loro proposito parlare di «idola vocis» più che di «idola mentis», e racchiudendo la preconcezione un duplice inganno, da un lato l’uso ingiustificabile per l’indagine di un mezzo richiesto dalle necessità dell’azione, la falsità, dall’altro, dell’erezione a entità mentale di ciò che è semplicemente un elemento del linguaggio.
Nell’esplicazione e definizione del giudizio negativo si palesa il valore e l’originalità della posizione di Bergson. Lo studio della logica, condotto secondo la critica ai fondamenti e al complesso morfologico del pensare, può limitasi a una tendenza o indirizzo normativo oppure trascenderli. Il primo atteggiamento fa delle premesse criticistiche non un motivo di revisione, ma un canone di constatazione; si prefigge quindi di non distaccarsene e di conseguenza si trova costretto a identificare le posizioni di partenza coi limiti di un traguardo e a creare un cerchio entro cui la coscienza si aggirerà senza posa. Il metodo di Bergson, al contrario, vuol fare delle presupposizioni un dato, che ora interessa la logica e relativizza la cognizione, ora si ripercuote sulla relazione coscienza-oggetto e, attestandovi un modo dell’oggetto, supera se stessa. [[L’argomento]] L’argomentazione* allora si snoda lungo diversi gradi:
a) la ricerca e il rilievo delle nozioni errate dell’intelletto;
b) l’indagine sulla loro ragion sufficiente che potrà o non consistere in una conformazione funzionale;
lo sdoppiamento di tale ragione, da una parte in fattore di soggettività, dall’altra in una condizione oggettiva, nel senso cioè che il fatto intellettivo, dichiarato inaccettabile in sede di pura speculazione, tramezza fra un elemento psichico estraneo ad una funzione- 245 -eminentemente teoretica e un essere reale, intrinseco all’oggetto cui l’intendimento si applica allorché procede all’errore;
c) la dimostrazione di una virtualità di superamento, concesso dall’elisione della condizionalità soggettiva;
d) il riconoscimento dell’ingerenza nella ragion sufficiente dell’errore della realtà dell’oggetto, di cui si tratterrebbe di vagliare le possibilità di una definizione, al fine di rompere il cerchio che appariva implicito nel criticismo.
Resterebbe quindi acquisito, che non sempre il prendere le mosse da una fondazione critica comporta necessariamente la relatività, purché non ci si ostini a far della critica una semplice considerazione di relazione fra un’attitudine del pensiero e la realtà qual è vista attraverso la deformazione su di essa operata da quel medesimo modo, di cui si dà a priori l’inadeguatezza al reale. Se la condizione è soggettiva, in quanto relativizza nell’elaborazione del dato l’oggetto, non è meno vero che il reale deve essere di tal fatta da consentirne e subirne l’applicazione. Insomma, la relatività della forma logica non è assoluto soggettivismo, essendo condizionata anche dallo stesso reale, di modo che basta ricercare quale aspetto debba assumere un oggetto qualsivoglia, onde si sottoponga all’adattamento al modo logico, affinché ogniqualvolta ci si trovi dinanzi una proposizione, che rappresenti il particolare di quel generale che è la forma, sia dato affermare che la realtà deve offrire il determinato aspetto che, datosi all’elemento estraneo partecipe della forma logica, concede il giudizio.
Il processo metodico, applicato ad una delle forme del giudizio, alla negativa, tende a dimostrare non solo l’incompatibilità fra il reale e la proposizione che lo nega – comunque lo neghi -, ma anche il difetto, ad essa inerente, di una qualsiasi dignità speculativa e quindi la sua natura di idolo. Si tratta di vedere ora quale elemento estraneo entri nell’operazione logica, per cui si nega, e di quale aspetto vada partecipe l’oggetto, perché, una volta offertosi all’intendimento, gli permetta di procedere alla negazione. Dalla definizione, tendente a coglierne e a fissarne genericamente il senso, si procede a un esame della sua natura, che ne delimiti il contenuto e ne fondi le condizioni. Ma, se a tutta l’indagine, condotta- 246 -su un modo del pensiero discorsivo, non è possibile attribuire il significato, che le si sarebbe potuto dare qualora la si fosse colta in un trattato di logica formale, e se la stessa indagine riceve luce solo da quelle considerazioni di ordine generale che le abbiamo premesso, ci ritroviamo condotti ancora una volta ad affermare che l’interpretazione di Bergson, quando la si colga sotto l’aspetto di un criticismo, rivela un continuo sforzo di superamento delle strettoie imposte alla speculazione dal soggettivismo, canone del pensiero moderno, superamento che non vuol essere annullamento, giacché opera entro i medesimi confini, appoggiandosi però ad una variazione dei presupposti. Le conclusioni stesse, cui si giunge dall’analisi di due modi, sottesi dall’atto negativo, vengono a coincidere e con ciò a convalidare le altre che già erano state poste alla base di tutto il sistema e ne avevano costituito i principi strutturali. Ma mentre la via precedente era di natura eminentemente psicologica – si pensi alla nozione di durata -, qui battiamo un terreno puramente logico, destinato a confondersi pure, se si vuole, con l’indagine sulla cognizione. Perché dalla nozione di nulla e di disordine si trapassa rispettivamente all’asserzione della possibilità di un essere che sia durata concreta e al riconoscimento della necessità di un dualismo, intimo a questo essere.
Procedendo ancora innanzi si riconosce che, se nelle presupposizioni da cui si prendon le mosse si ha che fare con un atteggiamento di critica, con le deduzioni ultime ci vediamo introdotti nella metafisica. Infatti le esplicazioni riguardo al giudizio negativo non possono essere che due: o vogliamo accettare la negazione come un atto che abbia la portata e il senso medesimi dell’affermazione, e allora creiamo degli pseudo-problemi, la cui soluzione tentata deve andare partecipe del vizio, implicito nella tesi; oppure se su di essa portiamo una critica e le riconosciamo un’esistenza tutt’altra da quella dell’affermazione, non solo possiamo ricavarne un argomento della pragmaticità dell’intelligenza e quindi dell’incapacità sua di uscire dagli schemi impostile dall’azione, almeno nei riguardi di ciò su cui l’azione non viene esercitata, ma dobbiamo pure riconoscere alla realtà particolare – quando su di essa si applichi il negativo - quelle condizioni che in generale debbono darsi ogniqualvolta- 247 -l’intendimento voglia procedere a un giudizio di negazione.
Accettando il secondo punto di vista il problema in definitiva prende corpo e si incentra in quella che ne costituisce la protasi, la dimostrazione della cui fondatezza, al tempo stesso che priva la negazione di una dignità logica, riconosce validità alla fondazione pragmatica della conoscenza, alla visione dualistica del reale e alla sua esplicazione in termini di durata, fondandosi con ciò una metafisica sulle presupposizioni di un criticismo delle forme cognitive e logiche.
La definizione, data da Bergson, del negativo può comprendersi solo se la si vede impregnata da una recisa opposizione alla tendenza che del negativo vuol fare qualcosa di simmetrico e a un tempo di opposto all’affermativo. Superficiale ed arbitrario è il ritenere l’affermazione e la negazione due atti equipollenti dell’intelletto, due modi suoi propri di operare, posti sul medesimo piano e dotati della medesima potestà sintetica, insomma due forme di giudizio, atte entrambe a creare idee. Perché la negazione potesse equipararsi per contrapposizione all’affermazione, sarebbe necessario in primo luogo che nel contenuto dell’una si ritrovasse altrettanta realtà e compiutezza che nel contenuto dell’altra, in secondo luogo che una medesima natura e costituzione entrassero sia nelle proposizioni di questa che nelle proposizioni di quella.
Ma l’esame di un qualunque giudizio affermativo «A è B» e quello di un qualunque giudizio negativo «A non è B» mi dimostrano che l’intrusione del nuovo elemento verbale «non», anziché aggiungere un dato di fatto e quindi dar luogo a un’entità di ordine intelligibile, si limita a dichiarare contraria all’esperienza una eventuale relazione che io o altri stabilissimo, senza preoccuparci di enunciare il reale rapporto, offerto dalla realtà delle cose. Quando affermiamo, noi enunciamo un giudizio, che è creatore di idee. Ma il rapporto giudizio affermativo-entità concettuale presuppone dei processi antecedenti impliciti o costitutivi della proposizione stessa, i quali consistono sia nell’aderenza della coscienza al dato effettuale, vale a dire nell’immediata applicazione del modo intellettivo alla cosa, sia nel difetto assoluto di interposizione di qualsiasi fattore- 248 -extra-intellettivo fra la coscienza e l’oggetto. Le due condizioni debbono riscontrarsi parimenti nella negazione, affinché sia valida la presupposizione che ne fa un’entità concettuale della medesima portata dell’affermazione.
Ora, quando si enuncia la proposizione «A non è B», non opero sulla realtà, appunto perché questa mi potrà dare rispetto ad A dei dati che saranno C, D, E, ecc. altri cioè da B, ma non mi darà mai un Non-B, riferibile ad A. È chiaro dunque non solo che la posizione di quanti per definire il giudizio negativo e per farne un atto intellettivo, spostavano la negazione dalla copula al nome del predicato adducendo l’assurdità di attribuire una funzione privativa o differenziatrice o separatrice a ciò che di sua natura congiunge, e alla proposizione «A non è B» sostituivano l’altra «A è non B», non sposta né risolve la questione, ma anche che l’unico atteggiamento assumibile dallo spirito di fronte all’oggetto, su cui si esprime negativamente, qualora voglia serbare aderenza fra l’argomentazione e il fatto, dovrebbe essere «A è C o D o E», ma mai ««A non è B». La realtà dunque dei suoi dati di fatto non giustifica il negativo, appunto pel carattere che le inerisce di positività insopprimibile. Qualora ci si voglia appellare al confronto coll’oggetto, per giustificare o esplicare l’operazione del giudizio, il beneficio che con ciò si ricava, va a tutto vantaggio dell’affermazione. Per spiegare il giudizio negativo dobbiamo dunque far astrazione dal dato reale e riportarci all’attività del soggetto. Da quanto si è detto, si deduce che l’intendimento non potrebbe mai giudicare negativamente, se si applicasse direttamente alla cosa, e che quindi per procedere alla negazione deve frapporre fra sé e la cosa, alcunché d’altro su cui si rivolge immediatamente la proposizione giudicante. Quando si dia una relazione determinata fra un concetto A e un qualcosa, per esempio, C che gli sia riferibile, e il soggetto si pronuncia negando che si possa riportare ad A un quid B, è chiaro che la coscienza deve avere attinto altrove quel B che non ritrova nella realtà, ma che tuttavia pone in rapporto con A, negando al tempo stesso la possibilità di tale rapporto. Che se non è la realtà a porgere B, vorrà dire che precedentemente un altro io o lo stesso io ha ricollegato A e B, enunciando- 249 -un giudizio positivo errato, o che si suppone semplicemente la possibilità di un tale giudizio.
La negazione quindi è un’operazione intellettuale di secondo grado o riflessa, in quanto richiede o sottintende un’anteriore operazione, questa volta di tipo affermativo. Di conseguenza, già questa osservazione rende impossibile o assurda l’affermazione di connaturalità fra le due forme di giudizio, in quanto l’una è rivolta direttamente alla cosa, mentre l’altra si applica ad un giudizio reale o virtuale sulla cosa. Donde il primo enunciato sulla negazione (I): «La negazione differisce dunque dall’affermazione propriamente detta in questo che è un’affermazione di secondo grado: afferma qualcosa di un’affermazione la quale a sua volta afferma qualcosa di un oggetto». In termini di logica formale si potrebbe dire che mentre l’affermazione assume a soggetto della proposizione una cosa per riferirle qualcosa d’altro, sotto forma di nome del predicato, riferito al soggetto pei legami della copula, la negazione invece pone a proprio soggetto una proposizione già enunciata o enunciabile, vale a dire un giudizio affermativo, riconducendolo poi al confronto con la realtà delle cose, che, tradotta in termini logico-verbali, può rendersi con un qualificativo di positività, e negando la sussistenza di tale rapporto: «A non è B» = «che A è B, non è vero».
D’altra parte, se negando si costruisce una proposizione che giudica un giudizio, ma che al tempo stesso lo elide dichiarandolo inadeguato alla realtà, l’intendimento corregge se stesso ed altri da un eventuale errore, ma non si pronuncia su ciò che è veramente, vale a dire non procede ad una acquisizione vera e propria, in quanto resta ferma al giudizio né si applica all’oggetto. Il giudizio negativo è un atteggiamento, che l’intendimento assume di fronte alla cosa e ad un giudizio sulla cosa: crea qualcosa rispetto al giudizio, e quindi in certo modo avanza nelle sue cognizioni, ma resta immobile di fronte a ciò che continua a essere un non-B, in quanto, se l’oggetto del giudizio resta definito rispetto a ciò che di esso si diceva in una presumibile affermazione, non assume una maggiore o più precisa determinazione per quel che è in se stesso. In altri termini la negazione nega ciò che è detto di una cosa in un giudizio, ma non è in grado di dire qualcosa sull’oggetto stesso- 250 -comune all’uno e all’altro enunciato; non appena si voglia da essa qualcosa di più di una semplice verifica di rapporto, la si deve abbandonare per far posto a un ulteriore giudizio che dovrà essere affermativo, se non vuol sottostare alle condizioni proprie di tutte le negazioni. L’idea, quindi, che coinvolge una cosa, trae sempre origine da un’affermazione, mentre la negazione ritrova la sua dignità solo nelle sue funzioni esaminatrici ed appuratrici.
Donde il secondo enunciato sulla negazione (II): «Un giudizio negativo è dunque un giudizio indicante che è opportuno sostituire a un giudizio affermativo un altro giudizio affermativo, non essendo d’altra parte specificata la natura di questo secondo giudizio, qualche volta perché la si ignora, più spesso perché non offre un interesse attuale, in quanto l’attenzione non è rivolta che alla materia del primo».
Ma l’interesse di Bergson è teso a ritrovare la relazione che intercorre fra l’enunciato I e l’enunciato II e a vedere quale significato in definitiva abbia la negazione nel procedimento discorsivo dell’intelletto. Si è detto che l’affermazione differisce dalla negazione in questo che non è interessata a giudicare un oggetto, ossia a legarlo per rapporto a qualcosa, ma a pronunciarsi su di un giudizio sull’oggetto, giudizio che si dà o si presuppone dato. Tale giudizio primitivo tuttavia appunto perché non può appartenere alla medesima coscienza, che in un secondo tempo lo confuta, introduce nel binomio intelletto-realtà un terzo, il quale o che si supponga essere un io estraneo o che si affidi tale ruolo alla medesima coscienza sdoppiata, agirà da interlocutore in un dialogo che si appunta sull’oggetto. In entrambi i casi tuttavia la negazione sottintende una relazione di intelletti, il secondo dei quali è mosso ad obiettare al primo da un intento di correggerlo e di illuminarlo sulla verità. Un principio di società dunque e una finalità pedagogica stanno alle fonti dell’atto intellettuale negativo. Ora, se questo è caratterizzato sia dal fatto di rimettere a un futuro indefinito la metà sottintesa di quel tutto di cui esso non dà concretamente se non l’altra metà, sia dal fatto di prevenire una eventuale asserzione avventata, la sua nota distintiva deriva appunto dal prevalere dell’interesse pratico immediato sull’interesse teorico, la cui urgenza- 251 -si fa meno sentire. In altri termini, la negazione è l’atto proprio di uno spirito che è teso meno alla realtà effettuale delle cose che alla possibilità creata nelle cose da una aspettativa. Il complesso delle cose, su cui di regola si applica il giudizio, porge delle attualità e soltanto delle attualità.
Quindi un’intelligenza, che di fronte all’attuale riesce a formulare un criterio di possibilità da cui trascorrere a un giudizio negativo non può non contenere in sé elementi estranei, destinati a inficiarne in qualche modo la purezza. Accogliamo l’ipotesi di una intelligenza «inebetita», di un’intelligenza cioè che sia solo capace di aderire e di conformarsi passivamente al continuo succedere delle cose: una tale intelligenza non necessiterà di rapporti, che siano altri da quello semplice fra sé e la realtà, ripudierà dunque la società in tutte le sue forme, anche di sdoppiamento; il linguaggio non le occorrerà più. Ma il suo procedere sarà uno ed uno soltanto: essa affermerà e i suoi giudizi saranno pur sempre affermazioni, anche se semplicemente implicite. Perché alla proposizione che afferma si giustapponga la proposizione che nega, occorre che in essa sorga un’attesa e che in virtù di questa la coscienza, portata di fronte al reale, si pronunci su di esso, mossa più da quelle note di aspettativa che dalle modificazioni immediate, che l’improvviso contatto determina in essa. In un secondo tempo si farà sentire la realtà con le sue esigenze e si procederà a giudicare il giudizio, a correggere cioè, negandola, l’affermazione avventata che aveva reso attuale un possibile desiderato, ma non riscontrato. La coscienza negante è una coscienza che ricorda e che nel ricordo trova motivi di attaccamento e di desiderio più forti di quanti si diano nell’attualità del reale.
Conchiudendo dunque, due sono i motivi fondamentali: anzitutto nella negazione entra un elemento extra-intellettuale e la negazione deve il suo carattere specifico appunto all’intrusione di un elemento estraneo; in secondo luogo la negazione come atto intellettivo è partecipe di una coscienza la quale non soltanto «constata il cangiamento o più semplicemente la sostituzione, come vedrebbe il tragitto di una vettura un viaggiatore che guardasse indietro e in ogni istante non volesse conoscere che il punto esatto in cui ha cessato - 252 -di essere», ma è mossa alla conoscenza [[non*]] da intenti di pura speculazione, bensì da finalità pratiche e pragmatiche, che nel caso del negativo possono esser pur soltanto pedagogiche.
La praticità della coscienza investe pure il giudizio affermativo, perché, se è vero che una differenza assoluta separa la negazione dall’affermazione, è altrettanto vero che mai si darebbe una proposizione negativa senza una concomitante affermativa, che asserisca alcunché di altro da ciò che si riscontra nel reale. La facoltà giudicatrice dell’intelletto non limita l’estraneità degli elementi propulsori alla sola negazione. Se questa infatti nasce da una necessità di correggere o anche soltanto di preavvisare, non è giustificabile se non alla condizione che la correzione o il preavviso siano necessari; e se da ultimo questi si impongono alla presenza dell’errore o possibile o reale, resta pur sempre da giustificare nella sua essenza e nelle sue origini quella proposizione affermante dell’oggetto qualcosa, che, comparato direttamente all’oggetto, gli risulta inadeguato. La funzione sociale e pedagogica della negazione ci induce a guardare da un nuovo punto di vista quel giudizio che le antecede e che può venir formulato soltanto da una coscienza, atteggiata in modo particolare e quindi soggettivo di fronte alle cose. Tale attitudine giustifica in certo modo la fondazione pragmatica della coscienza, vale a dire la nota caratteristica e fondamentale della teoria interpretativa dei rapporti gnoseologici, e comprova la subordinazione delle operazioni intellettive e teoretiche a finalità utilitaristiche, la cui espressione sarebbe appunto la prassi, in vista della soddisfazione di bisogni biologici e vitali. L’atteggiamento crea un abito mentale, che informa il giudizio di affermazione e lo sottopone ad esigenze di retrospezione e di attesa, da cui trae origine l’operazione intellettiva, che procede al riscontro con il reale e che, se è essa stessa di natura pratica e utilitaristica, comprova a un tempo la presenza di un elemento identico nell’operazione contraria.
Ora, il principio informatore della valutazione generale della conoscenza si concretizza appunto in un giudizio di relatività che colpisce i diversi modi del conoscere cosciente, in quanto conformati ad esigenze di azione e di pratica e quindi destinati a trascinare- 253 -seco come marchio di insufficienza, se applicati nella pura sfera del teoretico, l’impronta e la struttura che li rende idonei e adeguati all’uso nella sfera del pragmatico. La caratterizzazione eminentemente pratica della negazione, che le proviene dalla essenza sua pedagogica e sociale, la riconduce sotto i poteri del medesimo canone metodico, cosicché le idee, le quali le sono connaturali, perché rappresentano la realizzazione particolare e limitata di quell’atteggiamento generale sotteso al fatto indeterminato del negare, dovranno sottostare a revisione critica, o, in altri termini, riveleranno nella loro essenza una relatività ossia una conformità a un modo soggettivo che è tale da renderle insufficienti alla realtà di cui vorrebbero essere traduzione intellettiva. D’altra parte, poiché la negazione, essendo per definizione il giudizio di un giudizio, non può perdere il contatto con le cose, anche se è limitata alla semplice confutazione di un’asserzione e prescinde dall’enunciare quel giudizio affermativo corrispondente allo stato attuale dell’oggetto da sostituirsi al precedente, e poiché ancora questo ultimo non è se non il frutto di un particolare atteggiamento che la coscienza assume di fronte alle cose sotto l’influsso delle sue leggi, l’analisi delle idee negative, o pseudo-concezioni, non si arresta alla revisione, ma è destinata a pronunciarsi su quella metà, che è sottintesa nella negazione e che costituisce una conquista di teoria pura, comprovando, quasi per via sperimentale, o discorsiva, la certezza dei dati acquisiti dalla coscienza come immediati. Il problema logico attinge nella [[sua*]] soluzione alla metafisica.
Dal procedimento analitico di Bergson, diretto all’indagine sui due «idoli» negativi, risulta da un lato il tentativo di comprendere sotto un’unica formula e di situare da un sol punto di vista i motivi determinanti la particolare conformazione del pensiero, motivi che deriverebbero l’intrinseca erroneità logica dall’attribuzione di valore ad un illusorio, dall’altro lo sforzo di ampliare il proprio orizzonte, al fine di giungere per altra direzione ai propri principi: alla funzione pragmatica della coscienza, al dualismo psicologico, alla polarità metafisica. E tale questione deve assumere per lui importanza estrema, se questo è uno dei pochi passi ove si faccia esplicito accenno a una dottrina gnoseologica e metodologica proprie- 254 -e si proceda alla revisione, da un punto di osservazione dichiarato apertamente in funzione cognitiva, del complesso delle teorie precedenti. Ma, a ben guardare, l’importanza è reale, se la funzione intellettiva e la dignità logica del giudizio di negazione la ritrova formulata in termini press’a poco identici, presso altri pensatori di ben diverso indirizzo e con conseguenze tutt’altre da quelle da lui tratte, se d’altra parte questa definizione di valore viene in parte a coinvolgere con la formulazione di un ufficio pragmatico dei processi intellettivi e se, infine, le conclusioni, lungi dal discordare con la concezione dell’universo, ricevono un’ulteriore suffragazione dall’indagine sulla meccanica dell’intendimento, da cui meno si sarebbe aspettata una relazione di ordine positivo con costruzioni intuitive. Che se maggiore sviluppo ricevesse il problema degli idoli e la questione generale del negativo – i quali per la verità entrano quasi soltanto di riflesso come accessori elementi probanti l’intera teoria – lo stesso problema logico troverebbe uno svolgimento maggiormente autonomo, divenendo quindi una conseguenza – more logico demonstrata - quanto dapprima si è accettato come premessa, mentre la visione metafisica di un dualismo insito e tollerabile in un pensiero immanentistico avrebbe a proprio sostegno un indirizzo meno psicologico che razionale.
Perché di fatto la serrata analisi condotta sull’essenza della negazione presenta tale robustezza da indurre il pensiero a ricercare una eventuale direzione, che guidi direttamente alla dimostrazione dell’eteronomia dell’atto logico o riflesso, senza doverlo accettare come una presupposizione, atta a risolvere l’incognita della cognizione, in quanto rapporto del pensiero al reale. È certo che Bergson coglie questo aspetto positivo, se pure non completamente pertinente alla metodica assunta, il che dimostra col largo sviluppo dato alle argomentazioni del negativo e delle preconcezioni in cui il negativo si concretizza, e con l’affermazione, che la mancata indagine di queste, che in definitiva sono illusioni, vizia il pensiero nella sua pretesa di ridurre ad unità assoluta non solo il reale, ma i rapporti pure che possono stabilirsi fra questa realtà e la coscienza. Infatti, giungendo mediatamente alla postulazione di un dualismo, che oltrepassa rispettivamente il limite della trascendenza, e di un- 255 -dogmatismo, la questione del conoscere si pone in modo tale che la polarità dell’essere implica una polarità gnoseologica. Il conoscere intuitivo, teso all’apprensione di un reale, inafferrabile dalla coscienza e coesistente, in continuazione e in antitesi al tempo stesso a un altro reale, che l’intendimento adegua sufficientemente almeno per sprigionare un valore dalla propria relazione con esso, ha trovato in un primo tempo giustificazione nell’adattamento di una particolare metodica ad un oggetto di natura psichica o piuttosto psicologica, adattamento da cui si argomenta una dualità. Non appena tuttavia il dualismo venga necessitato dalla analisi di alcuni modi o schemi formali intellettivi, la medesima cognizione immediata pare sia comprobata dalla dichiarata cecità parziale dell’intelletto e dalla rispondenza dei suoi dati alle condizioni che in certo modo determinano l’insufficienza discorsiva, venendo d’altra parte meno l’esigenza di un ricorso ad una speculazione che ad ogni istante cela il pericolo di una petizione di principio.
Ma, ripetiamo, l’argomento degli idoli entra come aggiunto e indiretto, simile al lampo che illumini e rilevi un particolare di una scena già tutta avvolta nel fascio di una sorgente luminosa. La minuta indagine sulla negazione, infatti, ti si apre quando ormai l’intero sistema si è eretto ad edificio solido. Nondimeno da parte nostra si sostiene che negazione, disordine e nulla costituiscono uno degli aspetti più vivi e più sicuri di tutta la dottrina e che ad essi si deve far capo tutte le volte che si voglia stringere un punto che non tremi e oscilli presentando sicurezza e vigore logico.
L’idea illusoria del Nulla, o del non-essere, che è la seconda delle deduzioni dalla definizione della negazione generica e che - secondo Bergson - si insinua con sottigliezza e tenacia nella speculazione filosofica, determinandone l’indirizzo, non ha qui interesse immediato, perché concerne meno le questioni inerenti al modo e alla natura del conoscere che la particolare interpretazione della universa realtà, sorta appunto, come in secondo grado, in seguito allo sdoppiamento dei poteri di conoscere e all’attribuzione di oggettività all’uno di essi, ossia in seguito all’erezione compiuta di una teoria del conoscere. L’argomentazione di Bergson in- 256 -linee succinte può ridursi a pochi punti fondamentali: il disdegno di ogni metafisica a interpretare il reale in termini di durata si giustifica appunto da questo che la durata è concepita come eterno passaggio dall’essere al non – essere e che un essere che dura non sembra possedere in sé forza sufficiente a rendersi attuale vincendo l’inesistenza. L’essere, dicono i metafisici, vince il nulla e si distende al di sopra di esso soltanto in virtù di quella potestà che gli può derivare unicamente da una natura logica; donde i criteri di identità e di non-contraddizione assunti come argomenti di quell’esistere di un essere che si proietta con la sua immobilità nell’eterno, così come in un eterno immutabile si erge la logica. Ora, se alla concezione di una durata concreta del reale è ostacolo l’idea di Nulla, converrà portare l’indagine e la critica su di essa.
Ma parlare di Nulla significa rappresentarselo, e la coscienza si dà rappresentazioni o per immagine o per concetto. Dal momento che il non essere o Nulla non può venir rappresentato nella coscienza da un’immagine e poiché come concetto o è distruttivo di se stesso o vi si ritrova almeno tanto – se non più – quanto è contenuto nel concetto di tutto, ne consegue il difetto di dignità e di esistenza, sia pure concettuale e logica, del Nulla: l’essere, allora, quale realtà, sufficiente a se stessa, può concepirsi ed esistere come fondato su altri principi da quelli logici di identità e di non contraddizione; può cioè essere durata reale. Ma ciò riguarda direttamente la cosmologia e presuppone una soluzione del problema gnoseologico.
Ma l’analisi della prima delle pseudo-rappresentazioni negative, quella di disordine, investe il problema della conoscenza e rafforza la concezione dualistica del reale, da cui la gnoseologia mutua la propria polarità. Ciò che su di un piano teorico compie il giudizio di negazione, tendendo a correggere una posizione errata di fronte al dato oggettivo, nasconde un’operazione di pratica e quindi una trasposizione di procedimenti dall’una all’altra sfera. Quando meditiamo la nostra azione sulle cose, attendiamo che esse si dispongano in modo da consentirla; che, se invece di tale situazione ne troviamo un’altra, ormai immersi in questa specie di rappresentazione,- 257 -non affermiamo più quel che ci offre l’esperienza nei termini stessi in cui l’esperienza si dà, ma lo definiamo «negando» quel che credevamo di rinvenirvi. Questa operazione negatrice, tutta in funzione di un orientamento puramente pragmatico, non può non trasferire la propria finitezza e inconcludenza al piano della pura speculazione quando vi venga adottata. Per Bergson è incontrovertibile che l’operazione intellettuale, mediante la quale erigiamo ad entità reale, almeno nel pensiero, una nozione negativa, o meglio un termine del linguaggio che vorrebbe esprimere la negazione assoluta di qualcosa che ci vien offerto dalla esperienza, non è un puro atto dell’intendimento: esso si origina dalla mescolanza di elementi intellettivi propri dell’indagine spassionata con altri fattori psichici, che rappresentano più l’interesse vincolante la coscienza al reale, per asservirlo alle necessità vitali, che il fine puramente speculativo di una rappresentazione intelligibile [[dal]] del* reale. Questi ultimi elementi che vengono abbracciati sotto la designazione di affezioni, compenetrano l’attività dell’intelletto e lo inducono a una teoria sotto cui opera vastamente la pratica.
Siano due dati, che la coscienza coglie nell’esperienza e che appunto perciò – secondo la definizione della percezione – ne colpiscono l’interesse vitale: «ogniqualvolta» saranno colti, si creerà nella coscienza uno stato particolare che non sarà esclusivamente rappresentativo, ma dovrà di necessità suscitare un determinato stato affettivo nei confronti di ciascuno dei due; essa non rimarrà mai indifferente di fronte all’uno o all’altro, dell’indifferenza dello spettatore disinteressato, ma sarà costretta a parteciparvi vivamente e attivamente con reazioni appropriate, dovrà essere attrice dello spettacolo cui assiste. Se la coscienza, di cui si parla, fosse dotata della pura e semplice facoltà rappresentativa, simile con ciò a uno schermo senziente su cui si disegnano le immagini, per cancellarsi subito dopo, non appena cessa il rapporto di simultaneità fra l’oggetto e il dato percettivo, essa vivrebbe in un eterno presente, in cui si ripeterebbero indefinitamente stati sempre identici a se stessi e per contenuto e per affezione; ripresentandosi il dato, si riprodurrebbero sia l’immagine sia il sentimento affettivo che- 258 -colorava e colorerà sempre di sé la percezione e che non è se non l’indice della partecipazione vitale dell’io alla realtà dell’oggetto, il frutto di un compromesso fra le necessità per l’esistenza dell’uno e i mezzi dell’altro, atti a soddisfarle. Ma la coscienza ha la capacità di conservare quanto si è in lei verificato in tutti i singoli istanti della sua esistenza; è capace di dar vita al passato o, in altri termini, di mantenere nel suo presente quel che il presente dell’esperienza ha cancellato. In conseguenza la partecipazione attiva, che è partecipazione di scelta, alla totalità delle cose, viene ampliata e approfondita; in virtù del ripetersi di una percezione e del permanere immutato di un bisogno si crea uno stato particolare, per cui ogni qualvolta si ripresenti l’ambiente concomitante di consueto la percezione, si risvegliano sia il bisogno che l’affezione specifica, sì da indurre la coscienza a rappresentarsi in anticipo l’oggetto e ad attendere la comparsa reale della percezione che venga ad adattarsi nel quadro della prerappresentazione e a soddisfare il bisogno ridestato. La percezione isolata dunque sarebbe una rappresentazione immediata rispondente a quanto nelle cose cerca un bisogno, che si dia sempre identico: vivrebbe quindi secondo una ripetizione automatica di un succedersi di stati e di atti, che si presenterebbero e svanirebbero così come sono venuti. La percezione, arricchita [[dalla]] della* memoria, è fonte di una molteplicità di nuovi stati che vanno dall’affezione all’abitudine e che si distinguono per un determinato atteggiamento di attesa e di speranza.
Supponiamo ora che i dati da percepire non solo siano due e perciò soddisfacciano due diverse necessità vitali e rispondano a due differenti affezioni, ma che oltre ad andar partecipi di una medesima natura e di uno stesso genere, siano l’uno opposto all’altro, l’uno inverso all’altro, «due contrari nel seno di uno stesso genere». Si darà allora il caso che la coscienza, che per ipotesi è dotata delle facoltà di scelta per via di rappresentazione ed è capace di attendere la rappresentazione ricordando, prima ancora di giungere alla presenza di uno dei due, entri in quella fase di prerappresentazione, in cui si ridesta il bisogno e se ne attende la soddisfazione da uno ben determinato dei dati; ma, se, giunta di fronte al dato offerto dall’esperienza in quell’istante, invece di- 259 -ritrovare quello atteso, si trova di contro l’altro, l’inverso, resterà delusa e sotto l’influenza dello stato in essa formatosi di totale affettività, in cui il reale non esiste più di per sé, ma è del tutto in funzione del valore rappresentato al cospetto del bisogno che urge, sarà costretta a soffocare l’attesa e a ciò riuscirà negando il dato di cui era in attesa. In tale caso la proposizione negativa non è per nulla, o soltanto apparentemente, un atto logico, perché non rende ciò che è stato percepito, ma traduce in termini di pensieri uno stato di affezione, esprimendo ciò che è in funzione di ciò che avrebbe dovuto essere. Avendosi poi la situazione contraria, in cui cioè sia l’oggetto inverso ad essere atteso e si dia invece l’altro, ancora una volta sorge in noi l’attesa, ancora una volta l’attesa viene delusa, ancora una volta traduciamo in termini logici quanto l’esperienza ci offre, mediante il riconoscimento dell’inesistenza o irrealtà attuale di quel che avremmo voluto ci avesse offerto. Insomma due dati reali e distinti, sembrano partecipare di qualcosa che li accomuna al tempo stesso che li nega entrambi. Che se la coscienza si fissa su ciò e, nella discordanza e diversità di tutte le componenti questo momento di esperienza, riesce ad accorgersi che esiste qualcosa, almeno in essa, che permane identico in tutti i passaggi e in tutte le oscillazioni, nel suo desiderio di assoluto erigerà questo immutabile ad un reale, per sottenderlo come denominatore comune alla diversità dei fattori. Fuor di metafora, avendosi i due dati e le rispettive negazioni, si astrarrà dal tutto l’elemento negativo, il «non» delle due proposizioni, e se ne farà quel reale costituente la sintesi indifferenziata sottesa al tutto, e ad esso, temporalmente o pur solo logicamente, anteriore, sintesi da cui i due reali procedono come determinazioni successive. A questa nuova entità, che in definitiva non esiste né come oggetto né come idea, si dà un nome e si crede alla sua oggettività, se non altro virtuale, applicandogli il privilegio, comune agli elementi del linguaggio, di testimoniare dell’esistenza dell’indicato.
Se l’espressione linguistica – è l’esempio addotto da Bergson - consta di due modi, il poetico e il prosastico, sarà facile giungere a supporre l’esistenza di un linguaggio non-prosa-non-poesia, che costituirebbe la matrice primigenia da cui uscendo la locuzione- 260 -si differenziò in prosa e in poesia. Ogni termine dunque, che esprima la negazione di un reale, non solo non è indicativo di alcuna realtà, ma è segno di una operazione pseudo-intellettuale, in cui le categorie della logica operano conseguenti a se stesse, però sotto l’influsso di una necessità pratica, di una tendenza affettiva che ha pervaso l’intelligenza e di cui l’intelligenza stessa stenta a rendersi conto; il che è molto verisimile, una volta accettata la particolare interpretazione dell’intelligenza propria del pensiero bergsoniano. Potremmo raccogliendo in sintesi esprimere il tutto con una legge generale: ogni volta che l’intelligenza in particolare o la coscienza in generale si trovano alla presenza di due reali, congeneri – o potrebbe dirsi anche «consustanziali» - e inversi l’uno dell’altro, espressivi quindi di due esigenze psichiche o fisiologiche reciprocamente opposte, sono dalla loro stessa conformazione pragmatica indotte a ipostatizzare la relatività reciproca dei due dati in una terza realtà negativa di entrambi, di cui essi rappresenterebbero il proseguimento e la contingenza.
L’indagine, condotta sull’esperienza, ci dice che in presenza di due realtà, essenzialmente identiche e qualitativamente opposte, ne riconosciamo immediatamente la realtà soltanto nel caso in cui ci sia congruenza fra ciò che è e ciò che deve essere, ma che, nel caso contrario, procediamo negando la realtà di ciò che dovrebbe essere a favore della realtà di ciò che è. Di fronte al succedersi alternato di negazioni, per cui in definitiva ci rinchiudiamo in noi stessi e accogliamo l’esperienza soltanto in vista di quanto essa rappresenta per un nostro stato e non nella sua assoluta realtà, trasferiamo una parte di oggettività alla negazione: il rapporto fra il fattore negativo e i due fattori reali, che non era se non una relazione imposta dalla condizione di impurità gnoseologica della coscienza, si erige ora a rapporto di genesi o di successione. Infine trasferiamo la relatività, insita nei due stati e frutto della loro opposizione, dalla condizione reciproca a quella soggettiva, nel senso cioè che ognuno dei due termini apparirà contingente non già rispetto al suo contrario, ma rispetto a noi che lo cogliamo e ne giudichiamo il valore. È evidente quindi che abbiamo dato vita a una entità inesistente e che attraverso l’inversione e il contrasto- 261 -reciproco delle due realtà abbiamo operato un raccostamento, ponendole, per dir così, sullo stesso piano, ravvicinandole o addirittura unendole, grazie soprattutto sia alla natura comune che le sottende entrambe, sia all’unico punto cui debbon far capo, per acquistare un significato e una dignità, la coscienza, che, mentre se le rappresenta, percependole o concependole, le giudica, sentendole affettivamente. Per deduzione giungiamo alle conseguenze, cercate da Bergson a sostegno della sua dottrina del conoscere e dell’essere:
a) ogni termine negativo non è reale, se non nella misura in cui noi gli attribuiamo della realtà; l’esperienza, infatti, ci può dare solo dell’essere – qualsivoglia sia il senso e il contenuto attribuitogli; il non-essere, sia particolare che universale, cui l’intendimento attinge, in quanto soggetto a leggi che son quelle della vita e dell’azione, non è dato dall’esperienza, così come non è un’entità intellettiva;
b) il reale, che nel linguaggio rinvenga contrapposta la propria negazione, non può essere uno e semplice; solo il nome che lo designa o ne indica la natura, è unico, per l’impossibilità insita nel linguaggio, pel suo finalismo sociale-pragmatico, di moltiplicarsi indefinitamente e di assoggettarsi a tante combinazioni, quante sono quelle di un reale coi suoi concomitanti e coll’interesse, indefinibile nella sua varietà, che suscita nell’individuo: ogni termine negativo esige che ciò che gli si contrappone nella realtà sia duplice;
c) d’altra parte, poste tali premesse, il senso di relatività che la coscienza riceve da una situazione siffatta, viene spiegato e giustificato: la contingenza, che volta a volta accompagna il presentarsi di uno dei due dati, è tale non rispetto alla coscienza che percepisce e ne è affetta, ma nei confronti del corrispondente contrario: contingenza quindi e relatività oggettive;
i due elementi, in cui si è sdoppiata l’esperienza, debbono essere di tal sorta da andar partecipi di un’unica realtà profonda, la quale, unitamente all’unico termine da cui son designati, consenta sia di ravvicinarli e confonderli, sia di trasformare la divergenza della loro opposizione in un semplice proseguimento di- 262 -
parti alle cui radici starebbe la negazione stessa eretta a realtà antecedente;
d) da ultimo, la duplicità del reale esige che nella coscienza possano darsi due differenti attitudini, ognuna delle quali congruente con ciascuno dei due termini; giacché, se la percezione è una scelta,vale a dire se ci si rappresenta soltanto quel che ha in sé la capacità di incontrarsi e di suscitare interesse, e se non può darsi negazione se non in presenza di dualità, il termine negativo attesta sì di uno sdoppiamento del reale, ma comprova pure la presenza di una polarità psichica, senza la quale non avremmo colto il reale nella sua duplicità e quindi non saremmo passati all’ipostatizzazione del suo negativo.
Una volta accettata la teoria della negazione e dimostratone l’indirizzo tutto pratico e relativo agli interessi vitali dell’individuo, non resta che vedere se anche su di un piano universale, anche là dove in modo particolare l’intelletto crede di aver assunto un abito puramente teoretico, la presenza di un termine negativo non consenta di applicare la proposizione e le sue conseguenze come criterio metodico. Di qui il compito, impostosi da Bergson, di ricercare se nella posizione di una teoria qualunque della conoscenza, vale a dire nel tentativo della coscienza di stabilire da un punto di vista speculativo i modi del rapporto fra sé e una presunta realtà e di fissare le condizioni di una maggiore o minor certezza di adeguamento in termini di rappresentazione, non entri come componente una nozione di ordine «negativo».
Quando lo spirito a contatto con le cose crede di ritrovarvi se stesso con le proprie leggi e le proprie forme, quando sente porsi un accordo fra quello che è il suo modo di concepire e di modificarsi e quello che può essere lo svolgimento, l’assetto e il rapporto delle cose, e quando dalla concordanza, stabilita in tal modo fra soggetto e oggetto, nasce in lui il senso del riposo che è soddisfazione, allora lo spirito sa di conoscere, sia che tutto ciò si riduca a un semplice suo modo di vedere, sia che abbia oggettivamente colto il reale. Ora, tanto per un relativismo gnoseologico, quanto per un realismo, il ritrovamento, l’accordo e la soddisfazione sono compresi sotto l’unica denominazione di «ordine», sì che potrebbe- 263 -
dirsi esservi coincidenza fra una teoria del conoscere e la definizione che essa dà dell’ordine. La ricerca dell’ordine e della sua natura non va mai separata dal bisogno intrinseco alla coscienza di unità, di racchiudere cioè sotto un’unica visione, sotto un’unica definizione e formula il complesso indefinito delle qualità: onde l’ordine, fissato il quale si è risolta la questione gnoseologica, non può essere che uno solo e deve da solo abbracciare l’universo.
Conseguentemente la facoltà cosciente, per cui fra noi e il mondo si stabilisce una concordanza, dev’essere anch’essa unica, sufficiente a se stessa e al suo compito, se è vero che conoscere significa ricostituire e se la ricostituzione non differisce dall’ordine, se non come una formula si differenzia dalla sua applicazione. Ma se l’esigenza unitaria non mi consente di riferire ad alcunché d’altro, che sia oggettivo, la contingenza dell’ordine e se quest’ultima non la possiamo riportare alla coscienza, la contingenza dell’ordine, ritenuto unico, verrà spiegata col porlo in rapporto di possibile sostituzione con la sua negazione, con «l’assenza di se stesso», cioè in rapporto con uno stato di cose «in cui non vi sarebbe affatto ordine». In ogni dottrina, dunque, da parte della quale si pretenda di ricostituire sotto un sol punto di vista la complessità del reale, entra di necessità la nozione di una negazione della formula stessa ritenuta risolutiva: che se chiamiamo ordine tale formula, la sua negazione non può essere che una parola, che riprendendo i medesimi suoni di quel che vuol negare, soddisfa al suo ufficio aggiungendo a tali nomi un prefisso privativo. Il «disordine» è un termine generale che si contrappone all’altro, pure generale di «ordine»: su tutt’ e due e attraverso la varia specificazione di entrambi, si sono dovute necessariamente - secondo Bergson - fondare le singole teorie del conoscere, tanto quelle del pensiero antico che quelle del moderno.
In tal modo siamo stati condotti là dove si voleva giungere a ritrovare una negazione nella sfera dell’universale teorico, cosicché possiamo applicare la proposizione, già vista, e le sue conseguenze. Il «disordine» è un negativo, ma conserva o sembra serbare tutte le prerogative di una realtà, se non altro virtuale, celando tuttavia nel suo profondo qualcosa che è compito della- 264 -indagine critica svelare, con la dimostrazione da un lato di un’attitudine cosciente, orientata alla prassi, posta alle sue radici, dall’altro della necessità di una particolare condizione del reale, senza cui mai avrebbe potuto uscire alla luce appunto nella veste di termine negativo. Ma come la ricerca di un contenuto dell’idea di disordine era stata imposta dalla definizione particolare dell’idea di ordine, come quindi di pieno diritto era entrato il disordine nella concezione di ordine, caratteristica delle gnoseologie unitarie, così anche qui non si può rifiutare il termine, non lo si può bandire, perché non ci si vuol privare di un potente ausilio logico, capace di «opponere auricolam» al dualismo gnoseologico, sotteso da una polarità metafisica; una differenza tuttavia sussiste ed è che il diritto delle prime era di tipo costruttivo, mentre questo è di tipo distruttivo, e che, mentre per le prime si trattava di coonestarlo e di riempirne quindi la capienza di una realtà, sia pure virtuale o intellettiva, a Bergson si impone di svuotarla di ogni contenuto teorico e di abbassarlo al ruolo di indizio di un atteggiamento con certezza determinabile della coscienza dinanzi a un oggetto, che offre materiale sufficiente per lasciarla procedere alla propria negazione.
Ora, il pensatore francese non si limita a muovere l’attacco all’idea di disordine, facendone un idolum vocis, l’espressione più di uno stato affettivo che di una entità reale o intellettiva, e svuotando di contenuto i problemi da essa sollevati, ma ritiene che la presenza di un termine di tal genere nel linguaggio sia sufficiente al passaggio del complesso conoscente-conosciuto sotto la giurisdizione della proposizione generale e delle sue deduzioni. In altre parole il disordine è un dato, che in virtù della sua natura negativa deve andar partecipe delle condizioni consenziente l’atto della negazione. Perciò l’immagine di una incoerenza, intesa come assenza di ordine, perde ogni dignità di realtà, al tempo stesso però che proietta da sé la testimonianza di due ordini distinti e diversi, che potrebbero essere dati entrambi nell’esperienza e la cui contingenza, implicita in entrambi, è da giustificarsi non con la sovrapposizione a un disordine primitivo, ma con la reciproca sostituzione, determinante una oscillazione continua della coscienza dall’uno all’altro.
Le condizioni tuttavia, che si sovraordinano all’esperienza, e i - 265 -modi da cui i due ordini sono caratterizzati, giustificano quell’operazione, di tipo eminentemente intellettuale, per cui l’opposizione di natura vien risolta in una differenza di grado e alla complanarità dei distinti si sostituisce la gerarchia del subordinato e del sovrapposto. Il fatto che la rappresentazione di entrambi debba aver come unico centro la spiritualità in genere e l’osservazione che l’orientamento di questa, più direttamente teso all’apprensione di entrambi, vale a dire la coscienza, conosce per agire, aggiunti a ciò che non solo i due termini, essendo l’uno inverso dell’altro, fondano la loro diversificazione meno sulla natura che sul valore, ma che inoltre, restringendosi costantemente l’orizzonte del conosciuto a poche determinazioni e manifestazioni di entrambi, si rende lecito un unico sistema di generalizzazione, condotto sui dati del primo e del secondo ordine, originano una confusione fra l’uno e l’altro, sì che il problema della conoscenza si dispone secondo un indirizzo unificato e unitario, in cui la generalità delle leggi, vale a dire lo schema multiforme e vario, sotteso dalla formula generica del rapporto di determinazione necessaria fra causa ed effetto, attrae nell’orbita del proprio metodo esplicativo la generalità dei generi, ossia l’ordinamento intellettivo, sotteso tuttavia questa volta da una corrente intollerante sia della causa efficiente che della causa finale, o viceversa. D’altra parte, se l’esistenza di un negativo dell’ordine può rinvenire una esplicazione soltanto in una polarità reale di quel che viene negato, dalla compresenza di un duplice ordine nell’oggetto è lecito dedurre sia una dualità psichica sia un duplice atto del conoscere, la prima dal momento che l’ordine non è che coincidenza dello spirito con le cose, ossia il ritrovamento dello spirito da parte di se stesso nelle cose, il secondo se è vero che la conoscenza percettiva e concettuale è indotta dalle proprie leggi a misconoscere la dualità e a sostituire l’alterna vicenda con una inconcepibile imposizione del coerente al disordinato. Un criterio del procedimento logico, normativo delle operazioni coscienti, conduce alla stessa meta che si era attinta con l’indagine introflessa: il principio generale della dualità è ancora una volta affermato nelle sfere della metafisica, della gnoseologia, della psicologia.
Ma questa del dualismo è una nota distintiva di un orientamento,- 266 -un segno connaturale e conforme ad un carattere, più che la conquista di una indagine teoretica. Alle sue radici è dato rinvenire il contrasto fra una natura condotta alla logica e al ragionamento, e la stanca sfiducia nei poteri dell’intelligenza; un’esigenza di avvilire e di svalutare la natura, relegandola al termine estremo di un’infinita progressione e di vederla a un tempo agire al sommo di questa scala in discesa; la discordia di quelle premesse, che coglie e fonda in un lampo di rivelazione intuita, con quelle cui è mosso dallo svolgimento discorsivo; l’opposizione della veduta immanentistica, che si insinua tenace nel pensiero contemporaneo e che egli stesso in definitiva non sa rigettare, alla trascendenza, verso la quale lo trascina un desiderio estetizzante di contemplazione. Tutte queste predisposizioni possono spiegare perché mai, ad esempio, sin dagli inizi si affidi alla soluzione del problema psicologico il compito di dimostrare la possibilità di attingere l’assoluto e la polarità di due enti l’uno insofferente dell’altro sebbene entrambi partecipi di una identica natura, mentre poi si rimanda alla sistemazione ultimata l’opportunità di offrire i presupposti atti a giustificare la soluzione stessa. Da esse vien giustificata la presa di posizione contro il positivismo, del quale non si vuol corrodere la fiducia nella cosiddetta scienza, ma soltanto dimostrare infondate e fontane di errori la distinzione puramente formale e l’identificazione sostanzialmente concreta, nei fini e nel metodo, di scienza e filosofia.
Ancora il principio della dualità gnoseologica, che il dualismo metafisico impone, si erige qui a criterio di giudizio, come da altra parte interviene nella valutazione degli indirizzi, alla cui base sta una gnoseologia unitaria. La pretesa unità del conoscere consiste nel ritenere che tutto il reale sia un intelligibile e costituisca il campo di contemplazione dell’intendimento, che potrà sempre riscontrarvi una concordanza e un’adesione, vale a dire sarà sempre in grado di rinvenirvi il proprio ordine geometrico: ma l’unità e l’unicità del potere gnoseologico presuppongono l’ipotesi dell’unità della natura, sicché la fondazione dell’oggettività della conoscenza, cioè della sua universalità e necessità, si lascia preceder con maggiore o minor coscienza, da una interpretazione unitaria della metafisica.- 267 -Perciò Bergson crede di poter trovare al di sotto sia della distinzione puramente gerarchica di filosofia e scienza del positivismo, sia del dio aristotelico, intelligibile degli intelligibili, sia della Materia metafisica, sia dell’idealismo platonico, sia dell’idealismo kantiano, un identico movente, nato dalla medesima presupposizione di risolvere il problema del conoscere da un sol punto di vista, e ritiene di poter fare di questo la ragione prima della sfiducia, da cui è colto il pensiero, nella dignità dei propri poteri di cognizione, la sorgente di ogni attitudine scettica.
La fondazione pragmatica della teoria del conoscere, accompagnata al senso intimo del limite, per cui il porsi dell’individuo coincide con l’affermarsi del tutto, lo conduce a una distinzione fra coscienza ed oggetto di coscienza, distinzione, che in grazia dell’apporto intuitivo della durata, in quanto realizzazione concreta del tempo e della esplicazione spiritualistica dell’atto psichico del ricordare, trapassa alla contrapposizione di spirito e materia. Ma il condizionamento, imposto al dato gnoseologico dell’orientamento generale della coscienza alla prassi, se da un lato conduce ad una relatività della coscienza di fronte alle due entità «noumeniche», limita dall’altro l’inadeguatezza ad una sfera e consente esistenza a un’altra facoltà cognitiva, che sia aderenza e coincidenza col reale. Quando poi, in un secondo tempo, si voglia giustificare e definire la sfera del cosciente nel campo dello spirituale, si deve in certo modo far ricorso alla facoltà extra-intellettiva e ci si vede via via condotti ad una distinzione nell’ambito stesso dello psichico. Che se poi ancora, impostisi di attribuire una dignità teoretica, sottesa dalla funzionalità pragmatica, all’intendimento e di determinare la posizione del potere intuitivo in rapporto alla materia, ci si offre la differenziazione dell’inerte al vitale, che non è se non il contrapposto del determinato all’indeterminabile, del geometrico-logico-distinto alla durata aconcettuale.
Materia e spirito, coscienza e psiche, inorganico e organizzato sono distinti che traggono fondamento dal criterio di opporre la conoscenza per istinto, per percezione, per concetto, alla conoscenza per intuizione. Il dualismo gnoseologico impronta la costante polarità. L’atto del percepire e di concepire sono, se si vuole, la sintesi,- 268 -il compromesso di un duplice moto che dal di fuori, dalle cose, tende a modificare il soggetto e che dal soggetto si riconduce alle cose per condizionarne la cognizione secondo lo spazio e i rapporti reciproci. Kant si fermò e si limitò a quest’ultimo, facendone la base di tutta la sua interpretazione: ma quando li si prenda entrambi nella medesima considerazione, ci si dovrà assoggettare a una valutazione relativistica, che postula un superamento in se stessa, se ricondotta a una parte del tutto, e in rapporto ad alcunché d’altro, se comparata al suo fondamento pragmatico.
Concludendo, i problemi che Bergson incontra via via che procede nella costruzione della sua teoria del conoscere, sono da ricondursi al tentativo di interpretare realisticamente l’universo psicofisico, secondo un realismo tuttavia che da un lato non vada a parare nelle sabbie mobili di un dualismo, fondato sull’eterogeneità degli elementi costitutivi, e dall’altro salvaguardi alcune esigenze del senso comune, quali la distinzione fra spirito e materia, l’autonomia reciproca, la possibilità di una conoscenza, vale a dire dell’apprensione del vero. Il materialismo e l’idealismo, a lui contemporanei, nelle loro diverse forme, ricercano nell’interpretazione monistica il superamento dell’opposizione, che appare insufficiente a fondare una qualunque possibilità di reciproca azione fra lo spirituale e il materiale, sia di concezione e di inquadramento del secondo nel primo, sia di modificazione e di azione concreta di quello su questo. Ma la sua posizione, in quanto mossa dalla necessità di ridar certezza al senso comune e di riallacciare la filosofia alla consueta interpretazione della realtà spirituale, non può non condurre a una dualità: nondimeno, siccome è indotto a tener calcolo delle difficoltà che in sede teorica il dualismo solleva, lo attenua in una polarità non di enti eterogenei, ma di valori, in una distinzione matematica di segno, cioè di funzione. Sotto questo punto di vista, il pensiero di Bergson può considerarsi come la sintesi fra il dualismo volgare e il monismo filosofico, l’uno e l’altro insostenibili, il primo nei confronti dell’indagine critica, l’altro nei confronti dell’immediata fede che guida la comune azione. Per tal modo gli si impone anzitutto l’investigazione del rapporto fra corpo e coscienza, problema di natura prettamente psicologica. E così il- 269 -processo discorsivo non abbandonerà più la psicologia, ma le si intreccerà e vi si confonderà.
Immersa in una tale atmosfera, la teoria del conoscere, cui è riserbata come conquista recente la priorità, è costretta ad orientarsi in un duplice senso, richiedendosi ad essa in primo luogo la definizione di un atteggiamento soggettivo, che attinga, senza adeguarla, una realtà trascendente la coscienza, poi l’argomento di una capacità, connaturata allo spirituale, di cogliere il tutto secondo certezza. Il presupposto dell’elaborazione pragmatica del dato gnoseologico, conduce a una considerazione del rapporto corpo-coscienza, che, preservandosi dall’unicità, si riporta all’uniformità funzionale, costituendo la loro distinzione meno una differenza di natura che un passaggio per gradi. D’altra parte, se la conoscenza, ricondotta ai dati superficiali, di immediato contatto della coscienza con le cose, è condizionata da un movente pratico di azione, si fa della coscienza un complesso di funzioni, nate da una abitudine alla prassi contingente, funzioni che, qualora siano applicate all’indagine speculativa, non possono non trascinare seco sul nuovo piano la finalità dell’utile che già sovrastava alla loro genesi. Di qui deriva una relatività del dato cognitivo, o percettivo o concettuale, relatività che potrà attenuarsi o addirittura sopprimersi in seguito a una determinata valutazione metafisica dell’intendimento, la quale da Bergson viene introdotta come problema della genesi dell’intelligenza, ma che tuttavia non verrà meno alle prerogative attribuitele, quando la si consideri alle sue fonti e libera da qualsiasi interesse di sistematizzazione.
Di qui ancora deriva una delimitazione ben precisa della conoscenza, che può sottoporsi al criterio metodico dell’orientamento all’azione, anzi una sua restrizione agli atti che appaion dotati della qualità di coscienti, cosicché conoscenza e coscienza vengono ancora a coincidere sotto la premessa comune di una condizionalità funzionale. Ma questa restrizione, che pretende di fuoruscire dai limiti con l’imposizione di una questione genetica, che applicata ad una funzione, la intellettiva, viene a coinvolgere l’intera coscienza di cui l’intendimento non è se non un aspetto, anche se il più caratteristico e distintivo, è sinonimo di superamento, non appena- 270 -alla presupposizione, che fa dell’azione la condizione della conoscenza, si sostituisca l’ipotesi di un conoscere alieno da alcuna finalità di utile, da alcun vincolo con gli interessi vitali. La verifica di una tale ipotesi comporta da un lato la sconfessione dell’identità di spirituale e cosciente, già sottesa al problema della genesi dell’intelligenza, dall’altro una nuova nozione dello spirituale e della facoltà ad esso inerente di autocogliersi. Sotto di essa si cela tutta la premessa, di natura psicologica, che mai viene meno a Bergson, che lo spirito sia il principio animatore e primigenio della realtà e che la cognizione dello psichico non solo si identifichi con la comprensione dell’universale, ma trascenda quelle forme gnoseologiche coscienti, allo stesso modo che la coscienza sta allo spirito come la parte al tutto.
Se l’indagine sull’atto della percezione costituisce il fondamento della gnoseologia di Bergson, come quello che stabilisce il nuovo rapporto fra coscienza e corpo e chiarisce i termini della polarità di materia e spirito lasciandosi quindi sottendere dall’interpretazione pragmatica, la polarità gnoseologica tramezza fra il dualismo psichico e il dualismo metafisico in una oscillazione tale che ben difficilmente potrebbero tracciarsi i confini fra l’uno e i restanti. È suo merito tuttavia apportare la nuova proposizione che la sostenibilità di un dualismo cosmico postula l’accettazione di una polarità psicologica e gnoseologica. Questo dualismo insito nel conoscere si impronta alla fondazione pragmatica della teoria della conoscenza e alle conseguenti e contrapposizione della speculazione pura all’apprensione sensoriale intellettiva delle cose in vista della pratica utilizzazione, e eteronimia del fatto cognitivo cosciente.