Giordano Bruno Cavagna
La dottrina della conoscenza in Enrico Bergson

Capitolo V L’INTUIZIONE

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

- 271 -

Capitolo V

L’INTUIZIONE

 

            Se si vuole penetrare nel significato della cognizione intuitiva, occorre premettere due dei criteri sottesi alla filosofia di Bergson, l’uno dei quali costituisce la valutazione del fatto gnoseologico, in quanto relazionalità necessitata, mentre il secondo implica una congettura, che, in fondo, non è se non un atto di fiducia nelle attitudini soggettive. Una volta contrapposto il conoscere puro, ossia disinteressato e definibile unicamente in se stesso, al conoscere subordinato alle esigenze vitali della coscienza in cui si verifica, si dispone di elementi sufficienti a riscontrare la differenziazione tra fondazione autonoma e fondazione eteronoma della teoria del conoscere in questo, che, pur andando l’una e l’altra partecipi della medesima nozione di atto cognitivo, come rapporto, la prima non è in grado di giustificare né se stessa né le diverse concezioni che le si sovraordinano. L’attribuire alla coscienza, atteggiata al conoscere, l’esclusiva funzione di contemplare, non solo costringe a fare dei suoi stati un qualcosa di giustapposto al reale oggettivo, un inutile duplicato, ma significa soprattutto, chiusi come si è nella propria soggettività, o precludersi ogni mezzo per dimostrare la qualità di doppio alla sensazione, ad esempio, vale a dire per attribuire esistenza all’oggetto, quando si faccia professione di realismo, ovvero rendere inintelligibile la riduzione del noumeno a fenomeno, quando si attenui il realismo in un idealismo trascendentale. Al contrario, sottendere ai diversi dati della conoscenza il principio dell’azione,- 271 -come orientamento fondamentale, vuol dire non già affermare pregiudiziale lo stato di rapporto al fatto di conoscere, ma presupporre la contrapposizione alla coscienza di un oggetto, che è tale meno nei riguardi delle operazioni soggettive che in se stesso.

Donde deriva una premessa realistica, che si ingrossa e si arricchisce, rispetto al possibile giudizio di confronto, di una relazionalità tale, che la fondazione pragmatica della conoscenza appare accompagnarsi a un modo di realismo gnoseologico. In secondo luogo, dal momento che questo trae come conseguenza immediata una insoddisfazione, che gli deriva dal fatto di dover rinunciare ad apprendere la natura della realtà extra-cosciente di cui è in grado di affermare l’esistenza, non restano se non due diverse soluzioni: l’una, già tentata, si sforza di attingere l’inconoscibile per un cammino che si distacca dalla sfera del teorico; l’altra sarebbe quella di ricercare la possibilità di liberarsi dal condizionamento che l’esigenza della prassi impone alla coscienza applicata al suo oggetto e di conseguenza di appellarsi a un secondo genere di relazionalità gnoseologica, che mutuerebbe la propria giustificazione dalla polarità, richiesta dal pragmatismo dei dati coscienti, e la propria validità da un’adesione immediata e disinteressata in essa implicita. Infatti per quanto lo stare a sé dell’oggetto per la definizione data della realtà materiale dia luogo a una opposizione di valori più che a una distinzione di sostanze e per quanto proprio a tale polarità si riconduca una rivendicazione di dignità dei dati intellettivi, nondimeno la relatività gnoseologica continuerebbe, dato appunto lo sdoppiamento immanente alla realtà, a permanere retaggio della coscienza discorsiva, se non le si affiancasse qualcosa, ancora intrinseco alla spiritualità, che di essa costituisce a un tempo la limitazione e l’ausilio. Quello di Bergson è dapprima un realismo gnoseologico, che al fine di non scivolare nell’assoluta relatività deve tendere a trasformarsi in un realismo metafisico, il che non è dato se non alla condizione di sottostare alla legge comune alle gnoseologie realistiche, attribuendo a un modo del conoscere la facoltà di adeguare il vero.

            Cogliamo qui qualcosa che, se non è un’aporia della visione di Bergson, è tuttavia, almeno, una deficienza di considerazione,- 273 -un’assenza di esame nella descrizione dell’attitudine conoscitiva dell’uomo. Pagine su pagine affianca Bergson per delineare la natura e il fondamento della percezione, le sue caratteristiche e il rapporto che la lega allo stato somatico; parole su parole allinea per scendere nella profondità dell’intendimento, per definirlo nel suo duplice aspetto di facoltà atta alla costruzione di strumenti artificiali e di potere capace di fissare il rapporto. Con questo il nostro filosofo fa della speculazione pura, non fa altro cioè che indagare su un oggetto e coglierne la realtà in vista di uno scopo che non ha alcun punto di contatto né con un’azione virtuale né con un’azione complicata, anche se i risultati di tutta l’operazione possono in seconda istanza incidere sul nostro modo d’agire futuro, come quelli che c’insegnano, in prima istanza, i limiti e l’uso degli strumenti di conoscenza. Questo non è tutto; infatti, a un certo momento, poiché il quadro posto a premessa, offre un numero determinato di pulsanti la cui manipolazione stabilisce il contatto con una zona della realtà, ma non riesce ad illuminare ciò che veramente questa è nella sua interezza, si va alla ricerca di un nuovo meccanismo che adempia esso a quelle funzioni cui gli organi gnoseologici finora considerati risultano inadeguati. E questo è ancora speculazione pura. Ora, val la pena di chiedersi come questi due atteggiamenti, l’uno di esame, l’altro di ricerca, l’uno di rappresentazione, l’altro di scoperta, si accordino con l’interpretazione generale data della coscienza, come concomitante di vita tesa a perpetuare la vita attraverso l’azione. Se tutto ciò che vien compiendo Bergson è atto di coscienza e se tale atto solo indirettamente si collega al fondamento pragmatico del conoscere, mentre direttamente sorge in funzione di interessi teoretici o speculativi, riesce difficile accordare questa nuova radice con quella che finora è risultata l’unica radice della coscienza atteggiata alla conoscenza, vale a dire col fondamento pragmatico. Questa osservazione sembra offrire facilmente il fianco a due obiezioni capaci di distruggerla. In primo luogo, Bergson non ha mai negato che in noi esista una conoscenza: intendendo per conoscenza la rappresentazione, cosciente o incosciente, - mi servo qui di aggettivi che il sistema accetta e suggerisce - della struttura e della realtà di oggetti che non coincidono con l’oggetto- 274 -rappresentante, tale operazione Bergson ha sempre ammesso esistente nella coscienza e non ha mai neanche lontanamente pensato che consistesse in sogni o fantasie o produzioni pullulanti da una cinematografia spontanea e creatrice. In secondo luogo, in lui non c’è neppure la negazione di una possibile attività speculativa: se l’istinto gli appare una macchina biologica, incarnata nell’edificio stesso dell’essere vivente che ne vive, e se tale macchina è al tempo stesso conoscenza e azione, in quanto atta a conoscere l’essere di un oggetto e, al tempo stesso, a montare uno strumento vitale e pragmatico che utilizza quell’essere a vantaggio del vivente, nell’intelligenza Bergson vede una ragnatela di rapporti in cui si «possono» incastrare a piacere le strutture di infiniti oggetti, anche di quelli che non saranno destinati ad entrare in nessuna azioneimmediataposticipata, né attualevirtuale; perciò l’istinto regna sul noumeno dell’oggetto ma non viene ad oltrepassare il piano dell’azione, l’intelligenza non è in grado di rappresentarsi gli oggetti se non come entità di rapporto, ma varca continuamente la soglia dell’azione per portarsi nella speculazione. Ma le due obiezioni non cancellano affatto la deficienza rilevata. È vero che dovunque si parla di conoscenza e se ne ammette la realtà, ma è altrettanto vero che sempre si dichiara la conoscenza legata all’azione come due differenti aspetti di una medesima e sola tendenza della coscienza: ci si rifiuta decisamente di scorgere nella coscienza un impulso al conoscere disinteressato; la conoscenza è un modo dell’azione e nell’unità psico-fisica dell’uomo il conoscere rientra nella sfera dell’agire come un suo aspetto, che vi appartiene con lo stesso diritto con cui vi appartiene la tensione di un muscolo o lo scatto di un centro nervoso. D’altra parte, è vero che Bergson ammette una funzione speculativa dell’intendimento e di conseguenza del linguaggio, ma questo non ha nulla che fare con l’assenza di cui sopra, perché la possibilità che un potere gnoseologico ha di agire in un certo modo non ha nulla che fare con l’applicazione pratica di esso: che l’intelligenza per la sua struttura pragmatica possa esser tale da comportarsi anche disinteressatamente, come in un mondo in cui sia permesso alla vita di sognare o di darsi al bel tempo, non significa affatto che essa debba agire in modo tale o - 275 -sia mossa a comportarsi disinteressatamente. Insomma, ciò che mi pare non completamente giustificato è non solo il carattere speculativo dell’intera opera bergsoniana, ma la ricerca stessa di un potere gnoseologico che sistemi l’uomo oltre la sfera di conoscenza che gli è assegnata. Perché si potesse accettare ciò, si dovrebbe trovare l’accenno a un impulso al conoscere e al contemplare presente nella coscienza, si dovrebbe trovare dichiarato da qualche parte che la vita, di cui la coscienza è la manifestazione principale, accoglie in sé non solo il bisogno di mantenersi, bisogno che si traduce alla superficie nell’azione e in profondo nelle tre facoltà della percezione dell’istinto e dell’intendimento, ma anche una tendenza alla contemplazione, cioè alla sosta, al ripiegamento, alla considerazione di se stessa. Ma una dichiarazione così esplicita, non compare. Bisogna ammettere che c’è un punto in cui sembra di scorgere un’ammissione di tal fatta: quando la coscienza individuale viene paragonata ad un cono la cui punta incide e penetra nel reale, si parla non solo di un movimento che dal passato sempre più sparpagliato e vagante tende a premere sull’istante presente per concentrarvi l’unità dell’esperienza utile ed utilizzabile, ma anche di un moto inverso, di una tendenza al distacco dalla vita per risalire nella dispersione dei ricordi frazionati e indifferenti. Ma al fianco c’è la condanna di questa inversione, che vien descritta come una negazione della vita e un distacco dal reale, non già come un impulso teoretico e speculativo anche se disinteressato. Resta, secondo me, ingiustificata non tanto la tendenza a una introspezione e a una sistemazione della coscienza, quanto la premessa necessaria all’introduzione a lato dell’intendimento di una ulteriore facoltà gnoseologica. Infatti il criterio che si assume di distaccarsi dalla condizionalità pragmatica e l’appello a un nuovo tipo di relazione di conoscenza, comunque si pongano e si articolino e a qualunque antecedente si appellino, altro non sono che la risposta data all’eterna richiesta di conoscere tutto e tutto il vero e, date le premesse, in altro non si possono tradurre che in un nuovo atto di conoscere.

            La definizione pragmatica della conoscenza per percezione e per intelligenza tende per sua natura a un soggettivismo, il quale- 276 -a sua volta impone il proprio superamento nell’appello a una superiore facoltà, così come il guardare all’universo come alla divergenza di due enti, mentre consente la fiducia nei risultati del processo intellettivo nei confronti di uno degli aspetti, ne conferma per esclusione l’insufficienza rispetto all’altro ed esige insieme la collaborazione di un’ulteriore potestà del conoscere. Allora sia  l’orientamento della coscienza all’azione, sia la polarità ontologica immanente stanno alle fonti dell’intuizione: invero, se l’oggetto diverge nei due differenti aspetti, l’uno quello della materia, in cui si tende come al proprio limite alla giustapposizione e alla ripetizione omogenea, vale a dire alla spazialità, dove il fatto è riversibile, misurabile, distinto e molteplice, l’altro, quello dello spirito, in cui è attuale la pura durata, sottraentesi alle categorie dell’uno e del molteplice, aliena dalla legge e dalla misura, assoluta irriversibilità ed eterogeneità completa, e se per la sua funzionalità pragmatica l’intendimento cosciente vive in un’atmosfera satura di spazialità, l’intelligenza sarà in grado di conoscere, cioè di fare esperienza –perché conoscenza significa in primo luogo esperienza - del primo dei due aspetti del reale appunto in grazia del condizionamento impostole  dal suo tendere all’azione, in uno dei suoi modi, ma rivelerà l’incapacità che è innata ad aderire a ciò che si sottrae alle leggi dello spazio. Qui non può che subentrare un modo di esperienza, che attinge immediatamente la durata, senza tradurla in alcun simboloconcettualeverbale, come quella che sussiste al di dei confini della coscienza in una totale indipendenza dalle esigenze della prassi.

            Chi vuol fare del pensatore francese il portavoce di un nuovo romanticismo scorge forse nell’intuizione vincoli sotterranei con l’intuito intellettuale degli immediati post-kantiani: ma, concesso che le risonanze non mancano o per l’intimità dell’atto o anche per la sua creatività, come armonizzare ciò che conduce a un unitario indistinto con quel che qui coincide con un distinto in una cosmologia fondamentalmente polarizzata? Attraverso una perenne discordia di distinti si fanno per Bergson  le cose e la vita, di modo che, una volta dichiarata l’intuizione conoscitrice della vita, non resta alla sua esigenza di realismo che coonestare la dignità dell’intelletto,- 277 -apportando una correzione al primitivo relativismo gnoseologico. La polarità di essere si rifrange allora nella polarità di conoscere, potendosi anche parlare di compensazioni e collaborazioni. L’intimità potrebbe pure richiamare l’in-te-ipsum-redi agostiniano, ma l’innegabile immanentismo da un lato, se non altro iniziale, dall’altro la rigida contrapposizione di intuito ad intelligibile, la svuotano di qualsiasi luminosità condizionante la cognizione. Infine l’ineffabilità dell’intuizione, quale appare nell’Evolution, ha in sé presupposti mistici, che potranno ricevere ulteriore sviluppo, ma, quantunque ciò che essa appercepisce sia qualcosa che trascende l’Unità e la Molteplicità a un tempo, nondimeno non potrà mai venir definita come l’atto supremo del conoscere, non solo per la sua estrema naturalità, ma anche per la sua inadeguatezza all’essere in tutta completezza. Siamo dinanzi a una nuova nozione di intuito, cui sono sottesi presupposti sulla natura nostra e delle cose.

            In verità, si disse altrove che difficilmente potrebbesi sceverare quel che in Bergson è psicologia da ciò che concerne una teoria del conoscere e dalla parte più specificatamente metafisica. Non si può seguire passo passo il cammino battuto per arrivare a questa senza rifarsi come a premesse ineliminabili, ai principi che già sono stati posti come comprensivi di tutto un pensiero psicologico e che hanno costituito la rigida conseguenza del punto di vista da cui si riguarda la relazione fra coscienza ed oggetto. Ma né gli uni né l’altra possono venir illuminati, da chi non assuma a fondamentale una proposizione che, rispetto alle definizioni dei modi del conoscere, appare nulla più che una ipotesi, mentre, ricondotta alle estreme soluzioni, si dimostra essere il solo vero, cui le altre scoperte fanno corona e di cui sono conseguenza: essere la nostra soggettività qualcosa di trascendente il pensiero, qualcosa che non può essere pensato, appunto perché il pensiero ne fa parte e che quindi non può venir abbracciato da esso, come il tutto non può venir compreso dalla parte. Trascendendo la spiritualità il pensiero, non costituisce un intelligibile, né può essere oggetto se non di sentimento, di immediata apprensione irriflessa.

            Di qui si impone il distacco da tutta una tradizione intellettualistica, il cui inizio coincide  con una definizione dell’esistenza,- 278 -che, oltre a portare in sé i germi delle successive posizioni di immanenza, riduce la spiritualità ad assoluta razionalità, facendo della riflessione autocosciente la norma e il principio di ogni metodologia. A questa formula fa capo, con maggiore o minor consapevolezza, la gran parte del pensiero odierno, come a quella che, mantenendo inalterata la perenne esigenza di ridurre come a limite la molteplicità ad assoluta unità, conchiude il processo dei tentativi di fare del pensiero umano una norma per tutte le cose.

            Ma Bergson rovescia i termini e dall’esistenza, che si proclama nella sua coincidenza con la ragione soggettiva, trapassa all’esistenza, di cui il pensiero è una delle possibili conseguenze. La premessa dunque sta in un motivo psicologico, lontano tanto dall’esigenza ontologica insita nella formula cartesiana, quanto dalla pretesa di ridurre tutto e massime la soggettività all’uno, quasi che il senso di identità comporti come conseguenza necessaria una reale identità di struttura. Il fatto che sia l’essere a condizionare il pensiero e non il pensiero l’essere concede a Bergson di trattare l’uno di essi, in quanto intelletto, in modo aperto e indipendente da qualsiasi impaccio di origine metafisica. La teoria della conoscenza si svincola sotto un certo aspetto dalle catene dell’essere e consente un libero gioco del pensiero, in quanto metafisica: la teoria della conoscenza si svincola sotto un certo aspetto dalle catene dell’essere e consente un libero gioco del pensiero, in quanto metafisica: nell’immanentismo di ragione coincidono per subordinazione reciproca logica metafisica e psicologia, determinando il cogito una metodica e insieme una concezione  dell’universalità delle cose. Ma se la funzione muta e diviene dal pensiero all’essere, la determinazione del metodo dovrà ancora adeguarsi alla definizione del soggetto, ma si renderanno entrambe complementari di una nuova definizione dell’essenza. Così la possibilità di un dualismo psicologico determina necessariamente una distinzione ontologica, mentre l’uno e l’altra aprono la via ad una cosmologia polarizzata.

            Ora, una volta che si fa propria la negazione della coincidenza di esistere e di coscienza empirica, manifestantesi essenzialmente come pensiero discorsivo, una volta cioè che si rigetta la definibilità dell’una per l’altro, il complesso dei problemi deve orientarsi attraverso i seguenti punti: costituzione e dignità del pensiero, sotto l’aspetto soggettivo e nelle sue relazioni col modo di un esistere- 279 -che trascende la razionalità del soggetto; deduzione di una limitazione della spiritualità, ossia di un modo siffatto, dall’esserci di un pensiero, formatosi in intendimento; ricerca di un principio pel quale sia dato coordinare nel complesso di una formula il modo di esistere, che è soggettività, con la sua limitazione, che è oggettività; superamento della trascendentalità dell’intelletto attraverso l’uguaglianza dei rapporti, che viene ad essere fondata dall’applicare un identico criterio valutativo all’oggetto e al pensiero. Come si è visto, dalla fondazione pragmatica, tesa a risolvere la prima questione, si snodano via via le successive spiegazioni, sia quella riguardante il secondo punto, in quanto la pragmaticità di una conoscenza non può essere tale se non in vista della soddisfazione di uno scopo, che impone l’azione, e dell’esistenza di un punto di applicazione per l’azione stessa; sia le altre concernenti gli ultimi due problemi, che si appellano a un criterio di analogia. Ma l’immediata osservazione delle quattro proposizioni rivela la presenza di un termine comune, che, essendo fondamentale per la stessa postazione della loro problematicità, esigerebbe una dimostrazione assolutamente antecedente, poiché, data la sua natura, non tollera alcuna interferenza da nessuna delle particolari risposte. Quando inoltre si riconduca l’intera teoria della conoscenza di Bergson alla premessa metodologica della pragmaticità, si riconosce implicitamente che ad essa vengono anteposte due considerazioni, che investono la medesima questione: infatti, la definizione delle attitudini coscienti alla cognizione in funzione dell’azione, comporta già una asserzione di limite al fatto coscienza e conseguentemente la posizione di un problema, che è relazionale della coscienza a un qualcosa d’altro di cui essa è limitante e da cui insieme è limitata, e con ciò parziale.

            Se dunque il pragmatismo gnoseologico definisce non tanto la funzione, quanto la natura della coscienza, come quella che è conformazione strumentale di una entità adattantesi alle necessità dell’esistere, esso può essere in grado di porre la questione in termini di rapporto del tutto alla parte, risolvendola al tempo stesso solamente in quanto si è in grado di muovere dal tutto e non dalla parte, vale a dire per questo motivo che dei fattori costitutivi del rapporto- 280 -

si è già a conoscenza del fondamentale. Che se infine sembra che il fare della coscienza una funzione di azione racchiuda al tempo stesso la denuncia di un relativismo e la possibilità del suo superamento, non si saprebbe affermare fino a qual punto l’adesione a questo abbia consentito l’enunciazione dell’altro, appunto in virtù di una cognizione immediata di quel modo di esistere soggettivo, il cui possesso, consentendo la formulazione delle quattro proposizioni fondamentali problematiche, conduce ad erigere un sistema e costituisce a lato del relativismo pragmatico l’altro primo principio del pensiero di Bergson.

            Data quindi la sfiducia pregiudiziale nei poteri dell’intelletto discorsivo, stabilito di conseguenza un rapporto di parzialità fra coscienza intellettiva e modo di esistere spirituale, non appena si riconosca distintamente che l’intera speculazione filosofica presuppone la nozione di questo modo, la problematica della gnoseologia si arricchisce dell’introduzione di una nuova potestas, che, in quanto offre nozioni, rientra nella sfera del conoscere, ma necessita di venir osservata da un nuovo punto di vista, distinto dall’argomentare, come la coscienza si distingue dalla spiritualità, senza contrapporlesi. Si ritrovano qui i presupposti sufficienti e generici per dar vita all’intuito.

            Non è opportuno qui seguire il Bergson nelle progressive precisazioni, cui volle sottoporre l’intuizione: come la correzione apportata alla relatività intellettiva sembra in diretta dipendenza dall’impulso di ridar prestigio a una delle forme conoscitive umane, alla scienza, così l’immagine dell’intuito, che si immerge oltre la massa inerte e discontinua dei dati sensoriali e dei concetti, per stringere contatto diretto con il fondo mobile e vivente dell’essere e che risalendone cristallizza l’impalpabile traccia serbatane in enti intelligibili rigidi e immutabili, appare un tentativo di interpretare la filosofia e la sua storia sotto un sol aspetto, il medesimo da cui egli guarda al mondo e a se stesso, e di ricondurre quindi ad unità l’apparente divergenza degli indirizzi. Ed esteriori e sopraggiunte sono le altre caratterizzazioni: il dato intuito è l’elemento vivificatore dei diversi sistemi, un qualcosa di semplice, un movimento di contemplazione, più che la contemplazione di un oggetto, che si snoderà- 281 -via via nelle successive argomentazioni logiche, che dovrà servirsi del già dato, manipolandolo e conformandolo in modo diverso, a seconda degli elementi preesistenti, ma che manifesterà la propria forza di vitalità e di verità, non nella parola o nell’immagine, bensì nel loro reciproco rapporto. Considerato in sé, questo immediato possesso presenta due differenti facce o atteggiamenti: da un lato un unico attributo positivo vi si può riconoscere, la sua vis repellendi, un impulso a negare, a rigettare, a dichiarare impossibili quelle costruzioni al cui contatto sente un soffio di morte, la morte dovuta alla codificazione e rinserramento in formule schematiche di precedenti possessi. D’altra parte, la seconda caratteristica è di indole assolutamente negativa: il dato intuito sfugge di sua natura all’espressione completa ed esatta di sé per formule o immagini o definizioni: simile a un’ombra di insensibile consistenza danza il suo ritmo preponderante sulla spiritualità del pensatore, destinato a compiere la fatica di Sisifo, di riprendersi e rifarsi, di completarsi e complicarsi, onde dar corpo intelligibile e sensibile a ciò che di sua natura trascende il senso e l’intelletto. Altre immagini ancora ricorreranno qua e , tutte dovute a motivazioni contingenti e tutte inutili agli effetti di una reale valutazione di quel che in Bergson è l’intuizione: perché in lui l’immediata acquisizione, che essa fornisce, non si restringe a una traccia del fondo vivente dell’essere, come potrebbe pensarsi da una sua affermazione, ma investe l’universalità delle cose, fornendo non solo una faccia, ma un punto di vista, ossia un criterio normativo di interpretazione. Si potrà sì restringere la sua funzione a quella di guida, pur che tuttavia al di sotto dell’orientamento e a pregiudiziale di esso si ritrovi la sua ragion sufficiente che è nozione dell’essenza «intera» di noi e del mondo.

            Allora l’intuizione, qual è veramente in Bergson, e quale è assunta da lui nella strumentalità speculativa, rivela una positività in questo, che, se anche non suscettibile di espressione in sé e per sé, è pur valida a influenzare profondamente il procedere discorsivo dell’intelletto e a fornirgli un primo principio, indefinibile, irriferibile, ineffabile, ma pur sempre atto a compenetrare e vivificare il ragionamento. E a ciò si allude quando dell’intuizione si- 282 -fa l’alone soffuso, la corona digradante del raggio distinto dell’intelligenza. Ne è prova che per una tensione di intuizione, continuata, non momentanea, si adegua quel modo di esistenza soggettiva, la cui acquisizione, essendo fonte di assoluto, è la condizione inderogabile dell’orientamento di Bergson. Soltanto da essa trae spunto la distinzione di parte a tutto, che viene applicata alla coscienza individuale, allo strato superficiale dell’io, che risulta quindi sotteso da una corrente universale e al tempo stesso particolarizzata dalle singole condizioni di esistenza.

            Altrove il francese ha tentato, per una via argomentativa, con una applicazione della metodica sperimentale alle questioni della psiche di dimostrare che si può parlare di un esserci di stati, che non è definibile negli unici termini della coscienza riflessa. L’argomentazione sulla memoria, come sopravvivenza di un passato nel presente non tollera di essere spiegata da una posizione materialistica, come conservazione di stati già presentatisi alla coscienza tramite il permanere di modificazioni fisiologiche delle cellule cerebrali; d’altra parte, se il criterio di esistenza va ampliato al di della presenza simultanea o della concatenazione causale, il presentarsi frammentario dei ricordi alla coscienza e l’insufficienza della soluzione epifenomenica comporterebbero l’esistenza della totalità dell’esperienza trascorsa in una sfera di spirituale da cui il ricordo singolo affiorerebbe per concretizzazione, ogni volta che la contingenza gli offra il destro di legarsi alla corporeità di un’immagine. Questo nondimeno non oltrepassa per portata la prova di esistenza, mentre l’intuizione soltanto ci offre non la sola esistenza, ma la stessa concreta struttura di questa sfera totale dello spirito, struttura che consente di porre una relazione con le attitudini dello strato superficiale e di definire queste nella loro funzionalità pragmatica.

            Si potrà allora parlare di una «surcoscienza» o principio spirituale di creazione e di vivificazione, individualizzantesi nei corpi e appuntantesi in coscienze empiriche, differenziate hic et nunc. Essa sarà da un lato l’inconscio sfondo, conservatore della intera vita di ognuno e come tale atto a particolarizzarsi nell’intero quadro della totalità dell’organico, dall’altro l’impulso motore  indistinto e indifferenziato, che alle singole determinazioni imporrà- 283 -la propria legge specifica, la durata. Dalla coscienza riflessa, di immutabile identità logica di processi per le categorie dell’uno e del molteplice, si sale allo spessore profondo del passato conservantesi in una tela di arazionale e di qui alla corrente metafisica dello slancio creatore.

            Il concetto di interruzione e di inversioneinterruzione della causa coincidente con una inversione dell’effetto – di questa corrente che di sé fa a un tempo soggetto ed oggetto, deve essere spiegato con un salto dal particolare al totale sulla norma del principio analogico. Però qualunque sia la metodica dell’induzione, si procede sempre a una distinzione, che è contrapposizione di valori, dello spirituale dal materiale, donde l’esigenza realistica impone da un lato la rivalutazione dell’intendimento, dall’altro l’introduzione di una nuova attitudine del conoscere. Il conoscere per coscienza fissa l’immagine, facendone qualcosa di statico – a simiglianza della parola, simbolo e mezzo gnoseologico, che rende immobile e distinta la propria significazione – e lo statico è un passato che non è più, qualcosa che si è venuto facendo e a cui noi guardiamo così come oggi ci appare già fatto, non nel suo presente di farsi. La coscienza è retrospettiva, afferma più volte Bergson. Ora, questa cognizione che distingue e distinguendo spezza la vita e l’esistenza nel suo divenire, non può applicarsi a quel che perennemente si fa, perché condannata a proiettarlo nel passato e renderlo un fatto. Subentra allora l’intuizione, in quanto potere di conoscenza, che è volontà di conoscenza e quindi non può trovar attuazione se non nel vivere ciò alla cui cognizione aspira. Quando si voglia portare a lume di ragione il dato inafferrabile, allora dal momento che procediamo dal centro alla periferia, dobbiamo rendere passato quello che non lo è mai, o riprodurre ciò per immagine, affinché la fantasia altrui lo accetti e lo trasformi. In tal modo l’intuizione è una simpatia, che è meno “coincidenza del soggetto e dell’oggetto” che apprensione dell’essere di sé da parte di se stesso, e di cui noi andiamo partecipi appunto per la nostra esistenza dall’essere e nell’essere: simpatia appunto perché è ritorno della parte al tutto per un richiamo dell’identità, ma in cui va perduto quell’annullamento dei contrari cui potrebbe far pensare una coincidenza di soggetto- 284 -e di oggetto, appunto perché l’intuizione non è annullamento di intelletto, né trascendenza di coscienza, ma compensazione della parzialità loro. Il senso di compenso, che mai fa difetto all’intuito di Bergson, lo distacca dalle interpretazioni che pongono l’apprensione immediata come l’estremo grado del conoscere: in Bergson non c’è questa idea del sommo che comprende ed annulla i gradi intermedi: la polarità dei distinti proclama la complanarità delle attitudini ad apprenderli, la coesistenza dello spirito e della materia nell’universo fonda l’integrazione reciproca dei dati coscienti discorsivi e intuiti. Da ciò si giustifica l’intento di definire con assolutezza, dal punto di vista dell’oggetto, le forme distinte del conoscere.

            Che, nonostante l’attribuzione al conoscere di un orientamento pragmatico, ci si sforzi di rivendicare una corrispondenza fra le immagini che vediamo raccogliersi attorno ad un’unica immagine centrale, la cui variazione sembra determinare il mutamento delle altre a lei facenti capo, e le immagini che appaiono vincolate all’unica dipendenza reciproca, questo è da collegare più con un’esigenza di realismo, che pervade tutta l’opera sua, che con la libertà consentita dalle premesse. Queste possono sotto un particolare aspetto far luogo a una teoria, che interpreti dualisticamente l’universo, ma non consentirebbero di elidere la relatività gnoseologica, senza l’intervento di un fattore ab-extra. Anzi, appunto da una delle argomentazioni, fondate su un tale fattore, procederà la soluzione del problema accennato della corrispondenza. Se il dubbio verte sulla validità della rappresentazione, perché, - si chiede Bergsonproseguire l’indagine dal dubbio, senza una precedente disamina delle condizioni inerenti al dubbio stesso? I dati, che vengono racchiusi sotto il termine comprensivo di conoscenza, debbono contenere la risposta: esistendo l’inadeguazione, conviene anzitutto ricercarne la causa e vedere se, trovatala, non sia dato liberarsi dagli elementi che, sovraggiunti, hanno modificato colla loro presenza il tono dell’assieme, in modo tale da precludere ogni soluzione. Riferirsi immediatamente al fatto gnoseologico quale si presenta normalmente già elaborato e adattato ad esigenze profondamente diverse da quelle cui fa capo, prendere le mosse da un complesso,- 285 -che condizioni di vita hanno imposto e condotto, vuol dire elevare di fronte a sé ostacoli  ed antinomie insuperabili. Dal momento che della soggettività è origine una sovrastruttura, togliamola e vediamo se al disotto non fluisca una corrente vergine abbandonandosi alla quale ci sentiamo trascinati nel seno stesso delle cose, fondando su questo immedesimarsi della coscienza con il suo altro una certezza di corrispondenza che è la precisa determinazione di una teoria del conoscere. Vi sarebbe in altri termini una conoscenza immediata, intuitiva, un contatto diretto fra noi e il nostro oggetto, un profondo strato di realtà cosciente che si adegua a ciò in cui la coscienza è immersa. Ma quale prova noi avremmo di una cognizione siffatta? In nome di che cosa potremmo contrapporla all’altra, riflessa, onde da essa risalire alla metafisica, nella pretesa di costruire l’essere di ciò che va oltre il cosciente? L’esperienza interna soltanto può rispondere con un’acquiescenza nell’intuizione: questa solo è argomento e difesa di sé.

            L’intuizione, in definitiva, ha il compito di apprendere immediatamente, per una partecipazione simpatica, uno degli aspetti del reale, quello a cui noi siamo più intimamente partecipi, quello infine che costituisce la nostra stessa natura. Tuttavia, in quanto questo reale costituisce meno un’entità che un aspetto formale, da cui altri fatti possono essere improntati e caratterizzati, l’orizzonte intuitivo si allarga oltrepassando la soggettività ed investendo anche una parte del reale extra-cosciente. Tuttavia prima di procedere e di lumeggiare queste relazioni, che si riducono a tre, intuizione-durata, intuizione-movimento, intuizione-organico, è necessario accennare in breve a un’osservazione superficiale, a cui tutto lo svolgimento dottrinale sembra condurre. Fare del linguaggio uno strumento sociale ed economico, vuol dire sottrarre all’umanità l’unico mediatore di comunicazione; ritrovarvi le medesime caratteristiche dell’intelletto o in genere della coscienza riflessagiustapposizione, differenziazione, assoluta individualità, molteplicità ed unità - significa porlo alla medesima stregua dell’intelligibile e negargli di conseguenza una qualunque azione su quello dei distinti, su cui l’intendimento non potrà mai avere presa alcuna.

            Sembrerebbe che Bergson qui voglia giustificare e proseguire- 286 -sotto una diversa nozione quel che già afferma il positivismo, ridursi la filosofia, almeno quella espressa ed esprimibile da individuo ad individuo, a una semplice funzione di collegamento e di sintesi suprema di quei dati scientifici, i quali, in quanto assunti da una applicazione dell’intelligenza alla materia inorganica, sono gi unici che oltre ad avere un’oggettività o adeguatezza intrinseche, tollerano la traduzione in termini verbali. Sembrerebbe ancora che il superamento dell’attitudine scientista si riduca a un’interiorizzazione della metafisica, che viene sì riconosciuta attuabile e sperimentabile, ma la cui ineffabilità la relegherebbe nella sfera dell’incomunicabile e quindi al di di una filosofia, come scienza, almeno umana. Non appena Bergson, pur avendo stabilito la distinzione recisa fra dato intuito e dato intelligibile e pur avendo definito i confini dell’espressione linguistica, pretende di introdurre le apprensioni simpatiche dell’intuito nella sfera del linguaggio, entra - si dice – in contraddizione con se stesso, in quanto delle due l’una: o egli ritiene una possibilità di rivelazione orale di ciò con cui l’intuito simpatizza, e allora contravviene alle proprie presupposizioni; ovvero conserva ogni validità alle premesse e allora deve riconoscere inutile ogni tentativo di fare della filosofia una metafisica e di dar a conoscere l’inesprimibile, come quello che viene alterato ed ucciso dal linguaggio.

            L’osservazione - se si vuole – è alquanto superficiale e parte essa stessa da premesse, che da un lato ricollegano l’intuizione di Bergson alla intuizione mistica ed ontologica del più acceso misticismo, dall’altro non solo si ostinano a guardare al suo più come a un sistema compiuto qual è nelle ultime pagine dell’Evolution, che a un metodo, quale avrebbe voluto essere alle origini, ma ignorano pure certe affermazioni dello stesso pensatore, che sembrano presentire la critica e in certo modo prevenire e giustificare. Teniamo presenti tre differenti considerazioni, che qua e si ritrovano anche ripetute e che hanno preciso riferimento con l’argomento in questione: l’immagine del sostrato luminoso di cui l’intelligenza sarebbe la solidificazione radiante, è da assumersi come una delle ultime posizioni sue, in cui si tenta l’estrema attenuazione possibile della incomunicabilità  fra intuizione e coscienza discorsiva;- 287 -il lavoro del filosofo, paragonato a quello di un artista che fa e disfa, corregge e amplia, lima e sostituisce, sia pure senza giungere mai alla perfetta rappresentazione dell’oggetto intuito, vuole essere riferita pure a quel che egli stesso ha fatto nelle sue opere, valendo il giudizio sui diversi sistemi della storia della filosofia, pure per il suo, che a pieno diritto vi rientra; d’altra parte la naturalità e universalità umana dell’atto simpatico lasciano supporre in lui la credenza che ognuno è in grado di riempire per esperienza personale ciò che il pensatore gli presenta di discontinuo e di incompleto e di muovere da quella che nel sistema offerto è pura immagine od ombra, a ciò che è oggetto di verità e che necessariamente non può non essere unico ed identico per qualunque cognizione. Ora, con la citazione dell’attenuazione, del canone critico, della caratterizzazione dell’atto di intuizione, non si vuole giustificare il vizio, che continua a restare tale, ma soltanto dimostrare che una revisione condotta solo su questo punto pecca di superficialità e lascia nell’ombra quel che in Bergson vi è di veramente ingiustificabile rispetto alle premesse e di dogmatico rispetto alla presupposizione di ordine trascendentale.

            Dalla naturalità appunto è necessario partire, per comprendere l’intuizione: questa è eminentemente penetrazione in noi stessi, conoscenza di sé al di fuori degli schemi analitici, soggetti alle esigenze di chiarezza e distinzione, possesso per simpatia del nucleo profondo, costitutivo della personalità individuale. Quivi si raccolgono gli elementi di tutta l’esperienza propria in ognuno degli istanti di vita, quivi alberga quel che comunemente chiamiamo carattere e che non è se non la manifestazione del proprio io attraverso a spontaneità creativa di atti non riducibili agli antecedenti e quindi contingenti e liberi; quivi insomma cogliamo la “formadistintiva di quel che si contrappone alla ripetizione e alla riversibilità, che non si assoggetta ad alcuna ricostruzione dal punto di vista del principio di causalità, e che in quanto tale si ritrova dovunque il tempo faccia sentire la sua azione, dovunque ci sia uno scorrere nel tempo.

L’intuizione  con ciò appare come la manifestazione di sé del temporale, come la simpatia per sé di ciò che è durata, e, vivendo- 288 -noi nel tempo concreto, essendo noi stessi soggetti alla legge del procedere reale, lo strumento che è intimo a noi, appunto perché connaturale a noi per il fatto di esistere nella durata. Si descriverà con Bergson la durata come un complesso di stati confondentisi l’uno nell’altro, compenetrantisi a vicenda, sottraentisi quindi alle definitorie categorie intellettuali dell’unità e della molteplicità, senza che per questo nessuno di essi cessi di perdere la propria individualità, in un gioco di reciproche influenze, in cui l’aumentare apparente dell’uno di essi, è soltanto la partecipazione viva di altri alla sfumatura che gli è propria. Uscendo però dai limiti della saggistica psicologica, e ponendosi sotto l’angolo del tempo, la durata appare come compresenza del passato e del presente, di un presente che incessantemente si «muove», perché il tempo non può essere che mobilità, né potrebbe esserci passatoconservazione di passato, se non ci fosse stato il mezzo di creare senza posa il passato, attraverso un ininterrotto progresso dal presente al futuro. A un tempo che sia concreto si richiede tuttavia che i suoi componenti si differenzino non tanto «spazialmente», quanto qualitativamente, che cioè il passato il presente e il futuro rappresentino non un’identità in tre istanti diversi, vale a dire che non si diversifichino secondo la distinzione relativa propria dei punti dello spazio, ma che stabiliscano la propria inconfondibilità in una eterogeneità assoluta, ossia in una differenziazione nell’essere: saranno quindi del nuovo, e il processo del tempo un balzo da nuovo a nuovo, un progredire di libertà. Che se ogni istante di tempo è qualitativamente diverso dagli altri, accogliendo per necessità discorsiva la distinzione intelligibile di istante e la conseguente nozione di rapporto, fra di essi si stabilirà una relazione di indeterminazione reciproca, di contingenza, di irriversibilità, mentre intollerabile apparirà un’applicazione alla durata del principio di identità – come quello che necessita di distinzione – e della relazione di causalità, che di tal principio rappresenta una particolare determinazione. All’immagine tradizionale del tempo raffigurato con una linea retta, conviene sostituire quella di una spirale a triplice dimensione, la cui punta avanzando viene costruendo senza sosta il solido.

La durata, questa inventività creativa, che conservando il passato- 289 -nel presente crea l’avvenire in una continuità di progresso unidirezionale, è semplicità indivisa in un’assoluta eterogeneità qualitativa, che dal continuo dinamico irriversibile trae la propria imprevedibilità. Le raffigurazioni simboliche, cui Bergson ricorre, non ci interessano; ma la nostra attenzione è ridestata dalla necessità di ricorrere all’immagine e alla metafora e dalla concezione che si sovraordina a tale esigenza. Ricompare la norma del criticismo gnoseologico e la trascendentalità dei modi coscienti del conoscere, trascendentalità determinata dalla morfologia spaziale, cui percezione e intelletto soggiacciono.

            Dal momento che l’intendimento per la sua natura e per la sua funzione, che l’orienta al mondo dell’oggetto materiale, deve procedere per confronto, e dal momento che l’atto intellettivo  del comparare fonda una propria intrinseca relazionalità, la quale a sua volta soggiace alle presupposte esigenze di distinguere e di giustapporre, la conoscenza razionale è inadeguata a tutto ciò la cui natura comporta durata e temporalità. La noumenicità kantiana ritrova la propria rinascita unitamente al proprio superamento. L’intelligenza discorsiva, infatti, atteggiata ad autocoscienza, ricrea in sé la durata concreta, privandola al tempo stesso di quello che le è essenziale, ma da essa incomprensibile: di contro alla durata anaritmetica e pur pluralistica, per la sua complessità eterogenea, sostituisce una durata numerica e molteplice, nel senso delle relative categorie concettuali, di una molteplicità che, essendo somma, cioè unità organica di addendi, i quali, pur in seno all’unità, conservano la loro individualità distinta e differenziata, va unita alle nozioni di quantità e di misura. Ora, in una pluralità di fattori distinti e inconfondibili, non è discernibile una successione, se non pel tramite di una coscienza la quale a lato della sua fondamentale organizzazione spaziale, per cui la sussistenza nel mezzo omogeneo coinciderebbe con una eterna presenza, ossia con una attualità esistenziale condizionata dalla soppressione delle attualità passate, annovera il ricordo col quale è dato conservare gli stati antecedenti e giustapporli, previa una differenziazione di prima e di poi, agli stati presenti.

            Tanto la durata, sotto l’aspetto del tempo, che la durata sotto- 290 -l’aspetto dello spazio comprendono in sé la variazione: ma il mutamento della durata concreta è un’invenzione, un apporto di nuovo da parte di un presente, funzione di un passato che continua ad esistere come sfumatura e come reagente e sull’attuale e sul futuro; al contrario la mutazione degli elementi giustapposti, nella concezione spaziale, non può consistere che nel venir meno di uno stato e nella sostituzione simultanea di un altro, senza che fra i due si possa porre oggettivamente quel vincolo, che solo la coscienza soggettiva può stringere. L’una dunque è successione nel cui seno non sussiste distinzione; l’altra è simultaneità, costituitasi su distinzioni e sostituzioni: qui fatti simultanei ed esteriori gli uni agli altri, privi di un legame di successione; stati succedentisi gli uni agli altri, intolleranti di distinzione ed esteriorizzazione reciproca. L’intendimento allora opera una fusione fra la successione e la simultaneità, creando quella idea comune di durata, in virtù della quale i fenomeni spaziali mutuano dagli stati psichici la forma temporale, concedendosi alla simultaneità di mutarsi in successione e alle cose che erano esteriori, distinte, quantitative, di legarsi l’una all’altra, di continuare ad esistere anche quando son venute meno, in una parola di durare come noi. D’altra parte, lo strato superficiale cosciente, arricchitosi del criterio di divisione, di distinzione, di incompenetrabilità, desunto dalla simultaneità spaziale, lo applica alla conoscenza dell’intimo spirituale, introducendo in questa successione concreta una tale elaborazione spaziale, da fare del suo progresso eterogeneo ed indistinto una suddivisione in parti – gli stati psichicidistinte e l’una all’altra esteriori. In tal modo, se prima si poteva parlare di sviluppo e di evoluzione del mondo materiale, ora è lecito creare la nozione di stato di coscienza distinto, trattabile alla stregua di una cosa, scissa e indipendente dalle simili, munita di una propria individualità e sfumatura, non più racchiusa nell’indistinto di una catena qualitativa ma proiettata su di un mezzo omogeneo, in cui né compenetrazioneinfluenza reciproca son date. La concezione di durata è figlia di un compromesso fra la forma idonea al rapporto coscienza-materialità e la realtà della surcoscienza, sia perché si pretende di trattare la simultaneità- 291 -come una successione, rivestendo lo spazio delle caratteristiche del tempo, sia perché si tratta questo alla stessa stregua di quello, facendosi della successione concreta un progresso di simultaneità. Tale nozione è quindi un ibrido spazio-temporale, che è ricco di intima contraddizione, per la sua definibilità di simultaneità successiva o di successione simultanea, e da cui la scienza si guarda, poiché di essa conserva solo l’aspetto simultaneo, quando si applica alle cose.

            Ma anche questo è dato, di rendersi ragione a un tempo del flusso spirituale e dell’organizzazione delle cose sotto il criterio di una unica formula, ma soprattutto della rigida opposizione intrinseca ai due modi di conoscere, l’uno dal punto di vista dello spazio, l’altro dal punto di vista del tempo; di modo che la facoltà, che per ragioni  varie si è organizzata e conformata a un’apprensione delle cose sotto rapporti, vale a dire relazionalmente, appunto perché la condizione prima di ciò sta nel distinguere e nel giustapporre, nel procedere per elaborazione spaziale, è di sua natura negativa e inadeguata a quel che vive nel tempo ed è esso stesso tempo. Perciò la cosiddetta scienza positiva, che non è se non la genuina espressione di una tale elaborazione cognitiva, sembra tener conto [[delle]] nelle* sue formule del tempo t, ma alla condizione di un qualitativamente costante e invariabile, che appunto come tale influiscequantitativamente nel calcolo, ma non è in grado per la sua immutabilità di operare variazioni qualitative nei fenomeni. Procedere in tal modo significa rigettare come inutile il tempo, ovvero non far considerazione della diversità essenzialmente eterogenea, che la coscienza coglie immediatamente fra due entità di differente durata. I medesimi presupposti sono validi a fondare una interpretazione deterministica dei fatti psicologici, destinata a ritrarre motivi di insufficienza dalla falsa ricostruzione, che la spiritualità ricava dall’essere assunta per intelligibili. Dunque il vincolo di compenetrazione, che lega la continuità delle fasi della durata e per cui il ritmo di scorrimento è tutt’uno con il perenne crearsi della sua realtà, l’esclusione di quanto ha attinenza con l’estensione spaziale – la «étendue» -, l’assoluta eterogeneità accompagnante la progressiva esistenza spirituale, fanno di questa durata  concreta qualcosa- 292 -di assolutamente trascendente gli schemi e le definizioni intellettuali, qualcosa la cui cognizione non è data né per riferimento né per rapporto né per confronto, ma per apprensione immediata e intima.

            Subentra quindi l’intuizione, che sarà meno una facoltà, vale a dire un’attitudine a porsi un oggetto e a farsene una immagine, distinguendosi al tempo stesso da esso, che una identità con il suo stesso oggetto, la cui esistenza è determinante della propria intuibilità e la cui intuizione è coincidenza con l’essenza. Il fatto che alcunché è durata, è la presupposizione dell’intuizione e il fatto che l’intuizione ci qualcosa che dura è argomento dell’esistenza di una durata. Come l’intuizione investe la durata, così la durata pone di per sé e per propria natura l’intuizione. Questa identità intrinseca e questo reciproco conforto di argomenti è quanto si sottende alle numerose affermazioni di Bergson, che il tempo va vissuto e non pensato e che l’intuizione è meno contemplazione, cioè distacco dal contemplato, che adesione vissuta al suo oggetto. Si tralasci qui di rilevare il diallelo, che traspare e che non può risolversi se non per via dogmatica: resta pur sempre lo sfondo psicologico, onde coincidendo esso con la nostra essenza profonda, comune e differenziantesi al tempo stesso da individuo a individuo, l’intuizione è moto centripeto, affrancazione da ogni simbolo spaziale, simpatia dell’io con se stesso.

            Tuttavia in una concezione che al disotto delle cose pone una fluidità creatrice, perennemente arricchentesi di sé, in quanto trascorsa, e del nuovo, deve essere riproposta la spiegazione di un dato di coscienza, il movimento, per la sua fenomenicità, che è ricostruzione da parte dell’intelletto geometrico, e per la sua reale consistenza, che è semplicità indivisibile e creativa, inafferrabile  dall’intendimento riflesso. La sua finalità, costruentesi ab intra, non tesa, ma in tensione, la connessione con la coscienza, di cui appare insieme causa ed effetto, l’attinenza diretta con la questione biologica, son sufficienti a farne un assoluto, la cui acquisizione rifugge dall’argomentazione discorsiva ed esige il contatto immediato, intuitivo.

            Ogni movimento, inteso come spostamento da un punto ad un- 293 -altro per la norma generale della teoria del conoscere, può essere colto dalla coscienza da due punti di vista diversi, sotto un duplice aspetto: di esso si ha immediata cognizione, un senso intimo, qualora io stesso compia un movimento o un’immagine rappresentativa, qualora io consideri solo il dato offertomi dai sensi. Attraverso tale conoscenza il movimento mi appare come un tutto indiviso e indivisibile: la mia mano, che si porta da un punto ad un altro, suscita nella mia coscienza un sentimento profondo, che fa di quel percorso di intervallo un fatto semplice, un atto unico ed unitario, che mi è impossibile sottoporre a frazionamento. D’altra parte, se mi rifaccio all’immagine dello spostamento, non già quale la colgo nella sensazione provocata dal gioco muscolare, ma attraverso la percezione che mi vien porta [[dalla vista]]*, è ancora un tutto che viene intuito, un tutto di cui non colgopartipunti ma solo una azione, una mobilità. Ma poiché i dati offertimi da un contatto intimo e immediato non restano nella mia spiritualità isolati allo stato puro, dovendo venir accolti nella sfera chiara e distinta della coscienza ed inquadrati nello spazio, qualcosa si sovraggiunge al dato ed attua una sintesi: l’uno è immediato, l’altra è indiretta; quello mi un fatto, questa mi darà una cosa, soggetta, in quanto tale, a tutte le leggi cui sottostanno le cose che poniamo nello spazio.

            Se quel che ho colto come movimento è un tragitto, un passaggio da una posizione a un’altra, sotto tale passaggio la coscienza crede di scorgere un’entità, a cui sia possibile riferire il fatto del movimento. Fra i due punti, l’intendimento, infatti, vede la linea, ossia un dato che è di per sé spaziale e di conseguenza infinitamente suddivisibile. Potrò allora segnare su questa retta, che per conservarle l’attinenza alla mobilità ho denominato traiettoria, un numero indefinito di posizioni statiche, una serie innumerevole di posizioni intermedie, che segnano l’indefinito complesso di punti, la cui somma costituisce la linea spaziale congiungente l’un estremo all’altro. Il mobile allora sembrerà trapassare da un punto a un altro, mentre il suo movimento sembrerà seguire quella traiettoria, che non è se non l’irrigidimento della sua mobilità. Apparendomi poi ogni punto una tappa, suddividerò l’atto semplice del moto in [[tale]] tante* tappe- 294 -quanti sono i punti in cui ho frazionato la linea. Poi giacché alla mia coscienza non è dato, nella suddivisione che il pensiero ha operato sullo spazio, di comportarsi, ricostruendo la linea, allo stesso modo del mobile che la percorre, ossia dal momento che si deve sostare almeno pel tempo necessario a pensarvi, su ciascuno dei punti che si son mutati in tappe di un trasferimento, e poiché ogni punto dello spazio mi appare necessariamente immobile e fisso, ricostruendo il movimento sulla traiettoria, saremo indotti ad attribuire al primo ciò che è proprio della seconda e il mobile ci sembrerà sostare in ciascuna delle tappe un infinitesimo di tempo, pari a quello necessario a pensarvi, ed assumervi in essa l’immobilità e la fissità caratteristiche del punto spaziale.

            Alla conoscenza immediata del movimento, per cui lo apprendo come puro passaggio, si giustappone l’altra, ricostruita dall’intelligenza, che retrospettivamente lo interpreta come un successivo trascorrere da una immobilità a un’altra, da una sosta in un punto a una sosta nel punto susseguente, come una serie indefinita di stati di quiete succedentesi a stati di quiete la cui «somma» dovrebbe dare una mobilità. Questa operazione propria della coscienza discorsiva è ancora l’inquadramento, l’elaborazione di un dato intuito entro lo schema superficiale dello spazio. Essa falsa l’essere del movimento, poiché non coglie la differenza profonda che corre fra la tappa, elemento puramente spaziale, e il passare del mobile per la tappa, atto puramente qualitativo, e perché si sostituisce la traiettoria, ossia la traccia inesistente che si ostina a fissare a mo’ di fosforescenza fra gli estremi del movimento, col tragitto che è l’atto stesso con cui il mobile agisce superando l’intervallo.

            L’intervallo non è il movimento che lo supera: esprimere l’uno in funzione dell’altro vuol dire applicare le condizioni di un conoscere pragmatico a una cognizione intuitiva e come tale rappresentativa di una realtà di fatto. Quando si riconduce il movimento allo spazio, il possesso concreto di ciò che è vien di necessità confuso e trasmutato nella ricostruzione fenomenica della coscienza, cosicché  se pel primo l’atto del movimento risulta un tutto semplice e indiviso, uno stato qualitativo non soggetto a misura, qui la mediazione di esso attraverso le leggi della conoscenza pragmatica- 295 -ne farà una giustapposizione di soste, non il farsi di un superamento di intervallo, ma il fatto di un intervallo superato. Alle fonti della cognizione indiretta sta la medesima confusione del tempo con lo spazio, in quanto un concepimento riflesso del moto, che di per sé è tempo, vale a dire durata indivisibile, esige l’attribuzione delle proprietà e caratteristiche dello spazio, fra cui prima la indefinita suddivisibilità. Ma, quantunque la categoria spaziale e la sua espressione, che è il linguaggio, ritrovino una ragione sufficiente del loro procedere in questo, che  si sovraordinano a una cognizione orientata alla prassi e all’utilizzazione dell’oggetto, e non alla contemplazione dell’oggetto in sé, nondimeno perdono ogni validità di fronte a un atteggiamento disinteressato di pensiero, dinanzi a un’esigenza di noumenicità. Non appena dai limiti della pratica muovono alla sfera della elaborazione puramente teorica son costrette ad urtare in ostacoli insormontabili, le famose antinomie di Zenone, le quali argomentano l’inadeguazione della conoscenza discorsiva del movimento al suo oggetto.

            La conclusione del secondo argomento, dato come risultato dell’applicazione di un metodo, che mira a dimostrare la realtà di un rapporto concreto fra spirito e materia, dopo averne asserita l’eterogeneità, e tendente attraverso la discussione sul movimento a fondare la nozione nuova di «extension» contrapposta alla logica dell’«étendue», non potrà mai inquadrarsi negli schemi di una intelligenza discorsiva. La distinzione, che i primi fisici moderni posero fra qualità soggettive e qualità oggettive, segna la nostra impossibilità a considerare come cose in sé alcuni dati dell’esperienza, quando siano da proiettarsi nelle forme omogenee della spazialità. Nonostante che Bergson proclami che del movimento quel che intuiamo in maniera immediata è meno il suo carattere geometrico che la sua essenza qualitativa, ossia concreta, quantunque egli si sforzi di provare la realtà del movimento, quale alla nostra sensibilità profonda giungerebbe attraverso la coscienza offertacene dal senso muscolare, pure il pensiero sembra incontrare insormontabili difficoltà a concepire e ad apprendere il movimento nella sua essenza piuttosto che nella sua ricostruzione spaziale, come mobilitàqualità - piuttosto che come traslazione - quantità. Il movimento, assieme- 296 -alla grandezza e alla figura, sembra essere l’aspetto della realtà materiale, che possiamo con tutta sicurezza sottoporre a misura e a calcolo, sembra garantire una possibile traduzione del fenomeno in termini matematici, sì che, riducendo l’intero universo a movimento, è lecito racchiudere la moltitudine delle sue forme in una serie di leggi, vale a dire di formule. Il metodo sperimentale, che appariva ed appare il più proficuo e il più atto alla conoscenza della natura, ha a propria base appunto questa esigenza razionale: essere il movimento una quantità omogenea, le cui variazioni rientrando nelle cosiddette leggi del movimento conducono alla comprensione e al dominio dell’universo. L’intera meccanica non può esimersi dall’attribuire al movimento il fattore quantitativo ed omogeneo, se non a rischio di dover essa stessa rinunziare alla propria esistenza e alla propria necessità nei confronti della concezione e della scoperta della materia. Quindi scienza e intelligenza vanno d’accordo nel guardare al movimento come a un semplice spostamento reciproco di parti, a una pura variazione di distanze: l’intervallo, allora, essendo un dato spaziale, rientra a pieno diritto nel numero, le cui variazioni hanno la facoltà di offrire simbolicamente la presunta realtà di una sua diminuzione o di un suo aumento; di qui il principio di inerzia, da cui si deducono tutti gli enunciati sulla costituzione universale, compreso quello fondamentale della conservazione della energia.

            Il movimento quindi, in quanto puro dato qualitativo, non può venir compreso e trattato dalla riflessione, al pari delle altre qualità sensoriali, la cui eterogeneità, precludente ogni tentativo  di ridurle alla misura e al calcolo, costringe l’intendimento a considerarle meri simboli di una variazione omogenea, come quelle che celano al di sotto di sé uno spostamento di parti in un mezzo omogeneo e non si adeguano a vere e proprie entità esistenti nell’oggetto. Si comprende quindi come Bergson, applicando il medesimo criterio metodico già seguito per la valutazione del tempo da parte dell’intelletto, risolva il movimento, concepito come variazione d’intervallo, dato di relatività assoluta, in un medio fra il movimento qualitativo e assoluto, in quanto mobilità, e l’eterogeneità delle qualità soggettive: termine comune a cui scienza e coscienza- 297 -riconducono le une e con cui fanno coincidere l’altro. Ma se fosse dato ritrovare, come presupposto ineliminabile di una nozione siffatta, una concezione condizionante, che coincidesse appunto con la rappresentazione di spazialità estensiva del mondo materiale, cui è da riferirsi la ragione prima di una inconcepibilità di relazioni in una spiegazione dualistica, il possesso intuito di una mobilità, in quanto assoluto del movimento, dimostrando la soggettività dell’immagine relativizzata, comporterebbe l’insufficienza del concepimento che ne era condizione e ne consentirebbe un superamento, che non potrebbe essere se non l’attenuazione della dualità in semplice polarismo e l’intelligibilità di un reciproco rapporto d’azione e di conoscenza.

             Con questo la trattazione del movimento e la sua erezione ad assoluto qualitativo, rivela una finalità argomentativa, tendente da un lato ad eliminare le formidabili obiezioni, che la storia del pensiero già aveva sollevato, dall’altro a contrapporre i termini della dualità gnoseologica, che qui si manifesta come distinzione fra apprensione qualitativa e ripensamento omogeneo. Il movimento, infatti, in quanto traslazione, sussiste solo alla condizione che esistano delle parti nettamente distinte, ciascuna delle quali può essere presa in sé, come unità inconfondibile con tutte le altre: se si richiede una variazione di intervallo, reale e non simbolica, affinché il movimento per la sua omogeneità e quantitatività, si assoggetti a misura e a riduzione a formula, la condizione prima dell’interpretazione relativistica del moto è la sussistenza della variazione, che a sua volta è condizionata dall’esistere dell’intervallo, che non è possibile concepire senza distinguere e giustapporre gli estremi, come parti differenziabili per distinzione ed individualità. Considerare il movimento come spostamento reciproco di luoghi, vuol dire spazializzare l’universo, facendone un complesso di elementi distinti e discontinui nell’uniformità di un mezzo omogeneo. Ora, se il movimento diviene quantità omogenea, suscettibile di misura e di confronto, e se a ciò esso può sottoporsi solo alla condizione che il campo dove si verifica sia tale, quale poi lo cogliamo attraverso la elaborazione spaziale, vale a dire  molteplicità di elementi individuali e circoscritti da limiti, in cui non può esservi né confusione- 298 -compenetrazione, per infirmare la validità di questo modo di conoscere, basta sottoporre a critica la concezione intellettiva del movimento e rifarsi al dato immediato che di esso ci può fornire l’intuizione. In definitiva, nella scienza in particolare e nell’indagine filosofica in generale, Bergson  vuol colpire non l’atteggiamento di pura conoscenza né il processo riflessivo né i principi della pura speculazione - ché anzi egli riconosce essere stati questi «attentamente analizzati dai filosofi»,- ma il fatto che quella conoscenza e riflessione pure hanno accentrato i loro sforzi su di un termine comune, che ritennero bell’e pronto alla loro operazione, libero da scorie, dato esso stesso di riflessione, senza supporre che i modi del loro oggetto nulla hanno che fare con una  contemplazione disinteressata, libera da finalità che non siano esclusivamente cognitive. Ricompare la coscienza nell’abito di supremo pilota, cui si addice di guidare e di dirigere l’azione del corpo, tesa quindi alla prassi, a prepararla, a renderla il più possibile adeguata alla contingenza.

            Chi determina la visione frazionata delle cose, chi dell’universo fa una somma di parti distinte e giustapposte è il corpo, cioè la vita. La scienza, che si pone sulla via già tracciata dalla coscienza e che pretende conoscere l’intima struttura delle cose, portando al limite quello spezzettamento che per la coscienza è una necessità di vita, non un adeguamento di forme rappresentative alla realtà dell’oggetto, non fa che allontanarsene. Questo atteggiamento di conoscenza si rifrange sul moto, che nella logica dello spazio appare come qualcosa di relativo rispetto all’oggetto stesso; ma appelliamoci all’intuizione: vedremo il movimento divenir un assoluto e la materia assumere una continuità estesa, alla cui ricostruzione del resto tende anche la scienza. Le deduzioni, che Bergson trae dal principio che il movimento lungi dall’essere uno spostamento relativo, è uno stato qualitativo, sono da un lato la rivalutazione dei cosiddetti fenomeni soggettivi o qualità secondarie, dall’altro la visione di un universo materiale, non più somma di moti frazionati e indipendenti, ma vera «continuità mobile»; entrambi i concetti tuttavia sono in funzione di una nuova posizione del problema della dualità.- 299 -Ora, una volta giustapposta o meglio contrapposta alla conoscenza discorsiva la seconda forma del conoscere intimo e immediato per simpatia, e una volta ammesso un contrasto di reali assoluti, di entrambi i quali è lecito parlare, in quanto dichiarati conoscibili, dell’uno come unità del molteplice in un indistinto fatto di compenetrazione, e come progressiva creatività in un tempo il cui scorrere accompagna e segna variazioni e mutamenti qualitativi non fenomenici, dall’altro come estensione continua, le cui mutazioni ancora qualitative si svolgono ancora in un tempo, nel quale tuttavia si tende alla distensione, vale a dire al ripetersi degli stati in un’ansia di determinazione reciproca che è abbandono di un passato e volontà di un presente eterno in virtù di una rigida discontinuità frazionata, che cosa resta se non fissare i termini di un possibile rapporto, stabilendone le condizioni e le finalità? Quando Bergson, discorrendo del contatto più appariscente, almeno al senso comune, crede di essere riuscito per la via dell’intuizione a introdurre nella sfera della materia la continuità di compenetrazione e l’eterogeneità dei molteplici indistinti e nella sfera dello spirito la estensività degli stati, stabilisce già quella differenziazione sull’omogeneità di un monismo e sulla diversità di una tendenza che, se pur presupposta già nella definizione dell’atto percettivo, attende la sua più completa utilizzazione dalla teorizzazione della cosmologia evoluzionistica.

            Il principio della durata concreta e la nozione del movimento assoluto lasciano già intravedere una distinzione fra creatività e ripetizione, fra contingenza e determinismo, fra libertà che è nuovo e irreversibile e necessità che è ripetuto o riversibile, di modo che, nell’orientamento all’immanenza, già delineatosi, ciò che per la teoria del conoscere era effetto di una corrispondenza reale e concreta, nata non dalla presupposizione di un parallelismo, ma da premesse fondanti un contatto, non può non trasformarsi nella causa di un contrasto, che è lotta, mutandosi la cosmologia in cosmogonia, divenendo l’estensione il negativo della tensione, negativo che mutua l’attributo di essere dalla limitazione logica, ed estendendo l’entità in tensione la propria facoltà di libera indeterminazione creatrice non solo al campo dell’individuale psicologico, ma dell’universale- 300 -cosmico. Se finora ci si era attenuti alla pura ricostruzione ed esplicazione, ora con l’introduzione del criterio mistico di lotta, si cerca di raggiungere la sorgente dell’esserci nostro e di tutte le cose, esserci non in quanto attitudine al conoscere o all’essere conosciuti, al compenetrarsi e al distinguersi, ma come esistenzialità in atto. E poiché la lotta non può ricondursi che al piano della libertà e dal momento che questa è apparsa relativa allo specifico stato di un essere, che non tollera la ricostruzione dello spazio, vivendo nel tempo, si ritiene che l’introduzione continua della contingenza nel grigiore progressivamente estendentesi di un qualcosa che via via si gonfia di determinismo e di causalità, sia ancora da riportarsi a quell’organizzazione di stati che è causa ed effetto al tempo stesso di una continua creazione di nuovo, e si crede così di aver creato un cerchio perfetto, allacciando in coerenza esatta le deduzioni estreme alle prime  premesse, perché non ci si accorge che in verità sussiste una frattura, che soltanto uno slancio mistico ha potuto riempire.

             La reciproca azione e reazione si concretizzano nella vita, sì che le forme biologiche, in quanto partecipi a un tempo dell’una e dell’altra polarità, sembrerebbero assumere la funzione di terzo fattore, se non rappresentassero la vittoria della prima sulla seconda, ossia la elaborazione da parte dello spirito di determinate energie materiali che non sono destinate a scivolare lentamente sul piano dell’eterna ripetizione, perché vengono, per dir così, assunte e investite di quell’afflato creazionistico, che solo lo spirito può dare. Alla materia vivente si cessa allora di guardare come a un semplice mezzo di cui lo spirituale si serve per mondanizzarsi, allontanandosi in tal modo dalle dottrine che fondavano la dualità sulla trascendenza, oppure come a un nuovo aspetto energetico della materia, da considerarsi e conoscersi alla stregua di tutti gli altri, elidendo così la concezione che soffocava la dualità nell’immanenza. In ciò che vive, Bergson vede il materiale ricondotto a forza alle sue sorgenti, oltre quell’inversione che ne ha fatto alcunché di distinto e di indipendente. Ma il concetto di contrasto, come superamento di una frattura, che in quanto tale richiede pur sempre l’adesione irrazionale al fatto primigenio  di un infrangersi dell’unità ritorna- 301 -non soltanto nella definizione generica della vita e negli esempi che valgono a rievocarla all’immaginazione ma soprattutto nella spiegazione sia del suo attuarsi in uno sparpagliamento di direzioni molteplici e divergenti, sia della forma tipica da essa assunta, la cui nozione teorica, ricondotta alla primitiva aristotelica, si rende ricca delle visuali del nuovo evoluzionismo.   

            Ora, che l’introduzione del criterio evoluzionistico nella cognizione dell’organico sia da ricondursi esclusivamente a motivi polemici contro chi di esse si era valso per un’uniformità gnoseologica nella sfera della metodologia positiva e materialistica dei contemporanei, è opinione arrischiata e unilaterale, come quella che, rispetto alla valutazione della storia del pensiero vede nel sistema la rielaborazione e diversa utilizzazione dei concetti forniti dall’età, o che assume ad litteram certe affermazioni, già di Bergson, misconoscendone i presupposti. Ma, d’altra parte, sarebbe altrettanto corriva l’affermazione che il creazionismo progressivo e immanente della terza opera speculativa di Bergson ritrova a proprio sostrato o criterio interpretativo la nozione di tempo reale, di cui si vale l’Essai  per un nuovo concetto della psicologia o il Matière per la fondazione di una polarità: fra queste e quello tramezza un elemento irriducibile, quel principio dell’«élan vital», che il fatto del procedere a salti della catena spirituale non è sufficiente a far diventare una forza di creazione, una energia differenziata, inconfondibile e indefinibile con il criterio di interpretazione meccanica dei fatti fisici. Fra la durata psicologica e la durata biologica vi è un vacuo, che Bergson sorpassa con l’erezione della psicologia a metafisica, in grazia di un attributo di universale creatività, in cui dovrebbero sfociare la libertà e l’irriversibilità, ossia in altri termini l’inintelligibilità del contenuto di coscienza. Ciò d’altra parte attesta la differenziazione, stabilita fra coscienza e surcoscienza e l’immagine analogica di quest’ultima, come di una corrente, che, investendo la materia, e agendo su di essa e subendone l’azione, riveste forme concrete e inconfondibili. Nondimeno anche se la cosmogonia immanentistica e le interpretazioni  trasformistiche attendono una loro coerenza con i primi principi da un nuovo atteggiamento od orientazione, il criterio metodologico non muta, che la presupposizione,- 302 -

 

per cui reale coincide con temporale ed essere con durata, investe e risolve il complesso delle forme vitali, dichiarandole un progresso di sviluppodonde l’introduzione del motivo di evoluzione – e sottraendole bruscamente ad ogni tentativo di inquadramento in schemi discorsivi donde l’opposizione all’argomentazione dei contemporanei.

            Di conseguenza ricondurre la concezione biologica di Bergson nell’orizzonte di un vero creazionismo non significa soltanto ritrovarvi sottese le medesime determinazioni, con cui si era tentato di caratterizzare la psiche, in quanto entità concretamente soggetta ai modi arazionali del tempo, ma vuol dire anche scoprire alle sue sorgenti un postulato gnoseologico, il medesimo appunto in virtù del quale si procede per distinti in una polarità del conoscere. Quando infatti Bergson ci dice che teoria del conoscere e teoria biologica mutuano reciprocamente la propria consistenza, sembra accennare soltanto alla fondazione pragmatica, vale a dire al superamento della metodica critica, e alla successiva rivalutazione dell’intelligenza, condotta sulla problematica dell’intendimento nella sua genesi. Ma, qualora ci si rifaccia agli immediati antecedenti della postazione di una problematica siffatta e si veda, nel porre l’intelligenza come germe attivo nell’ambito del criterio trasformistico, la conclusione di un metodo, che il trascendentalismo gnoseologico assume meno come norma esplicativa, e in certo senso autolimitatrice, che come condizione di cui si richiedono lo studio, l’analisi e la definizione delle esigenze che la imposero, non si può non concludere che la ricerca degli argomenti, comprovanti l’impossibilità di inserire i fatti biologici nel quadro dell’intendimento, costituisce un aspetto susseguente, le cui premesse stanno nel risolvere la vita in un effetto di contrasti e nel ricollegare l’organico all’azione concreta dello spirito sulla materia. Allora se l’organico è in relazione diretta con ciò che vi è di spirituale nel cosmo, dovrà di necessità sottostare alle determinazioni di questo, sia costruendosi come durata specifica od evoluzione in un procedere perenne nel tempo assoluto, sia sottraendosi a tutti gli schemi, che Bergson chiama «preesistenti», relativamente all’organico, in quanto fatto, come quelli che impone l’esigenza esistenziale. Di qui- 303 -per l’orientamento che sempre accompagna la sua dottrina gnoseologica, il polarizzarsi del fatto biologico rispetto al fatto fisico richiede l’intervento dell’intuizione.

            Questa riceve dalla stessa teoria trasformistica ulteriori precisazioni, perché quell’alone confuso e indistinto, ma pur luminoso di cui fino ad ora si è parlato, diviene la sopravvivenza in noi di una parte di quella corrente creativa, non informata dall’attitudine intellettiva e una reale facoltà di dilatare i poteri cognitivi al di dell’intendimento. Ma, tralasciando questo – che non si può interpretare con esattezza -, che cosa intenda Bergson per dilatazione e fino a qual punto sulle premesse e sugli ulteriori svolgimenti sia dato giustificare una eventuale collaborazione di intelletto e intuizione e coonestare tale concetto di allargamento con la trascendenza che sempre contraddistingue la seconda dalla prima, resta acquisito che per coincidenza di teoria gnoseologica e di teoria biologica è da intendersi l’applicazione della medesima metodica, che incontriamo nell’Essai a proposito della durata e nel Matière a proposito del movimento e che si enuncia come l’insufficienza dell’intelligenza alla vita e come necessità di un’apprensione originale e immediata, qualunque ne sia la natura e i caratteri con cui si vuole determinarla e specificarla.

            Infatti allo stesso modo che, quando l’intendimento rielabora nelle proprie forme ciò che dura, è costretto ad oscillare fra le categorie dell’uno e del molteplice, mentre, quando ricostruisce il movimento, ne può fare un assoluto alla condizione di relativizzare reciprocamente i termini, vale a dire di renderli eterogenei, o, se vuol essere coerente, è costretto a proclamare nell’omogeneo un relativismo totale e di luogo e di moto, così applicandosi alla vita, ne coglie sì l’originalità, che è spiegazione nel tempo da un impulso primitivo, ma di questa fa un nome, incapace com’è di cogliere la compenetrazione reciproca dei fattori, la loro unità nella molteplicità, l’irriducibilità recisa. La sua attitudine geometrica lo conduce al meccanicismo, in cui la trasformazione, essendo variazione di posizioni deducibile dalle antecedenti e riconducibile ad esse, consente la formula: d’altra parte, costretto a riconoscere la insufficienza di una tale concezione al confronto dell’indeterminazione dell’oggetto- 304 -assunto, risolve l’imprevedibilità degli stati futuri in una finalità immanente all’oggetto ed agente su di esso come impulso di tendenza a qualcosa che, esistendo formalmente, è un fatto la cui nozione consentirebbe la previsione: imprevedibilità allora diviene sinonimo non di impotenza, cioè di oggettivamente inadeguabile, ma di ignoranza, cioè di incapacità soggettiva. Entrambe le posizioni bandiscono la libera creazione, rigettano l’indeterminazione, l’una consentendo l’enunciazione di leggi, ossia la formulazione distinta dei modi di reciproca determinazione, l’altra, nella migliore delle ipotesi, dichiarandola impossibile, ma soltanto sui dati posseduti. Facendo ciò, l’intelletto procede coerentemente a se stesso e alle sue esigenze di chiarezza e distinzione, ma smarrisce quel che è specifico dei processi di svolgimento, vale a dire il farsi, cioè il passaggio dall’uno all’altro punto del movimento qualitativo, perché muta questa, che è ancora mobilità, in una giustapposizione di stati, che vengono assunti retrospettivamente come già fatti, non nel loro presente farsi. Ora, se meccanicismo e finalismo sono costruzioni intellettuali e se, riflettendo sull’organico mediante le categorie dell’intelletto, non si può fare a meno di oscillare dall’uno all’altro, costruire una teoria della vita, che ripudi il principio di causalità senza rifugiarsi nella causa finale, significa levarsi oltre la sfera del razionale.

            In altri termini, scorgere nell’evoluzione biologica una dispersione di linee creative, ciascuna delle quali è destinata a trasformarsi, sulla forza ricevuta da un impulso primitivo, informato da un determinato fattore intrinseco alla sua stessa essenza, in aspetti concreti la cui conoscenza retrospettiva può assumerli come fatti, ma il cui farsi sfugge ad ogni deduzione o finalità, come quelli che costituiscono un futuro attuatosi per l’arricchimento di un nuovodovuto all’impulso di creativitàinsorto nel presente conservatore del passato, vuol dire fare appello, per ciò che riguarda le premesse, a un possesso immediato, che è ciò che Bergson chiama intuizione. Non importa che Bergson accenni a una somiglianza [[ si riporta qui in corsivo il passo presente nel dattiloscritto e non riportato nel testo a stampa: della sua teoria con quella finalistica: a ciò forse  è indotto dal motivo spiritualistico, da cui questa è accompagnata. Una concezione del trasformismo, che si leghi a premesse volontaristiche di tal genere, non può ritrovare nei dati dell’esperienza motivi sufficienti di argomentazione: soltanto un atto intuitivo può giustificare quello che l’orientamento critico rigetta, di fronte all’incapacità di rispondere ai suoi interrogativi circa la validità delle premesse gnoseologiche.

            L’intuizione dunque è per Bergson conoscenza della cosa in sé, conoscenza, ossia comprensione, che le deriva dal possesso immediato o diretto del suo oggetto, o piuttosto dall’identificasi con esso, perché ciò che già si disse del rapporto, che è lecito stabilire fra intuito e durata concreta, vale pure per la sua relazione coi fatti biologici. Tre sono i suoi oggetti, o, in altri termini, i dati che essa possiede e che è in grado di offrire per l’interpretazione del reale sono tre, tutti assoluti, tutti atti a far cogliere sotto un nuovo punto di vista le cose: la durata o tempo, il movimento o mobilità, lo slancio vitale o principio spirituale mobile, plurivalente e creatore. La prima ci introduce nell’in sé dello spirito, il secondo spezza col nuovo concetto della sua assolutezza le concezioni meccanicistica e materialistica del mondo fisico, il terzo consente l’enunciazione di una polarità reciprocamente attiva.

            Ma, a chi ben guardi, il movimento medesimo è ricostruibile secondo le determinazioni della durata, mentre la catena degli esseri viventi, se empiricamente, per l’individualità che le compete, può essere assunta in una ripetizione meccanica, nella sua totalità svolgentesi nel tempo è ancora un tutto definibile attraverso la durata: onde quest’ultima appare il verace principio motore di tutto lo svolgimento di Bergson, il supremo criterio della metodologia non critica, ma filosofica. Perché è vero che le ultime conclusioni ridonano alla filosofia l’ufficio di costruire una metafisica, facendo di questa l’oggetto della cognizione intuitiva, in quanto totale comprensione e risoluzione profonda della vita. È vero che]]

se per metafisica Bergson intende kantianamente la conoscenza dell’in sé e se questo coincide con lo spirito, il problema privilegiato dell’indagine, condotta sull’intuito, deve essere la vita, in quanto- 305 -sforzo di una attività a sfumatura esclusivamente psicologica. Ed è pure vero che, considerato sotto tale aspetto, il conoscere per intuizione non può non andare soggetto a certe forme di limitazione. Ma come non vedere che al disotto di quel vitale progresso corre ferace l’intuizione della durata? Come infine non ricollegare quel farsi delle forme organiche col divenire dell’intimo cosciente? L’intuizione allora avrà buon gioco soltanto dove il suo oggetto sia nel tempo; e il suo sarà il senso del tempo, come perenne divenire delle cose su di sé e sul proprio passato. Slancio creatore di vita e mobilità qualitativa sono termini di un intuito solamente perché sono complessi di durata nel tempo, che si fanno su di sé e sul proprio passato, sia pure per l’impulso motore di una vera entità metafisica.

            A chi bene osservi, il procedimento di Bergson qui appare sotto un certo aspetto deduttivo. L’indagine psicologica, accettata come fondamento di ogni analisi speculativa, gli crea uno schema della realtà del soggetto, schema in cui trova posto sia ciò che la coscienza scorge chiaramente e distintamente in sé sia quanto oscuramente e confusamente sentiremmo esserci nella nostra intimità. Il senso della nostra identità personale non coincide allora con quel che ci appare illuminato e sempre presente, ma con ciò che si agita, in continua mobilità e in perpetuo cangiamento al disotto della soglia luminosa. E i due mondi sono soggetti a leggi differenti, cui debbono sottostare fatti ed elementi ogniqualvolta pretendano di entrare a far parte dell’uno o dell’altro.

            La sfera dell’inconscio, senza limiti e senza distinzioni, la cui legge è il movimento, la cui nota è il ritmo del tempo, costituisce la natura concreta della «sostanza» cosciente. La coscienza discriminativa, la cui nota è la distinzione, la cui norma è la facoltà di concepire esclusivamente il chiaro e di accogliere questo, che è chiaro, solo quando ha assunto una individualità completa, vale a dire quando si è nettamente distinto da tutto ciò che è altro da lui, è una sorta di linguaggio dotato di tale struttura sintattica, da rendere impossibile all’esistente di tradurvisi senza smarrire la propria essenza, senza mutar di natura. Questo ambiente, la cui chiarezza e distinzione gettarono un giorno le basi di una cieca fiducia, è in- 306 -verità un regno d’ombre, i cui componenti sono fantasmi, trasformanti e travisanti il corpo reale, di cui costituiscono l’emanazione: l’intendimento vuole comprendere, ma per comprendere deve cristallizzarsi e per cristallizzarsi soffoca il movimento, spezza i legami, taglia e separa e astrae nel bisogno concreto di illuminare e di distinguere. Si ha dunque una polarità innegabile, fra cui oscilla la coscienza di identità, ossia il senso dell’io: dualismo tuttavia fittizio, come quello posto fra il corpo e l’ombra, o che almeno si conserva tale, fin che le esigenze di ordine metafisico non vengono a far velo alla rigida conseguenza dei presupposti gnoseologici.

            Ma si punti lo sguardo su quella natura profonda, che si è rifratta e disegnata come un’ombra sul nostro pensiero: attingeremo allora la durata e ci sentiremo, non in quanto identità logica immobile, ma come tempo, perché immersi nel tempo duriamo, accogliendo di istante in istante quanto alla coscienza proviene da altre foci per altre strade e immettendolo per via di sintesi in questo surcosciente creativo e cangiante, eternamente mobile e, in quanto tale, inafferrabile. Questo, novello Proteo, trascorre senza posa e continuamente si arricchisce di sé e di altro in sé, essendo tempo veramente vissuto, che per ciò non è passaggio dall’istantaneo all’istantaneo, ricostruito attraverso gli schemi intellettivi e riducibile al mero istante presente, astratto punto matematico in cui ciò che non è balena per morire subito dopo nel non essere, ma è conservazione dell’essere e del farsi nella loro completezza, mantenimento del passato e quindi memoria. Della durata, che per essenza è tempo ed è memoria per la vita, Bergson fa il primo principio, l’assoluto vero, la legge universalmente valida e necessaria, stabilita la quale le linee del sistema verranno tracciate deduttivamente.

            Ora, parlare di deduzione e di procedimento deduttivo non significa affatto concludere a una determinata considerazione generale, che spinga il pensiero a quei termini cui Bergson si oppone recisamente. Non si tratta qui di ricercare e fissare nozioni comuni, che l’intelligenza – per servirci dell’espressione di Bergsonritrova in sé universalmente accettabili e di ricavarne l’edificio di una dottrina, con incastonate e intagliate dentro le soluzioni dei singoli problemi. È lecito parlare piuttosto di procedimento per deduzione- 307 -in questo che risulta una concomitanza di movimento logico, un’applicazione di identica strumentalità nelle analisi dei vari rapporti, sia quello intercorrente fra i due piani della coscienza, sia quello dell’intelligenza alla vita o al movimento. D’altra parte una argomentazione che stabilisce dei rapporti diversi e ne fissa una immutabilità di condizioni, deve far capo, per le proprie premesse, sia a un fondamento dualistico che mantenga l’identità dei termini al di sotto delle apparenze variabili, sia a una teoria del conoscere che convalidi l’attingere dei fattori e l’enunciazione della loro eguaglianza. Che, se la durata concreta è principio di vita e di conseguenza causa di coscienza, pel vincolo che lega questa a quella, essa si pone come essere, ma al tempo stesso il suo esserci coincide col suo conoscersi in un atto intuitivo che soddisfa entrambe le esigenze del processo analogico.

             In questo progredire per deduzione o meglio nella pretesa dell’invariata applicabilità di un identico metodo ricorre quella frattura, che soltanto un superamento mistico colma in grazia di una estensione della portata e degli effetti dell’acquisizione simpatica del reale. Perché accanto all’intuizione e al disotto dell’intuizione si ripresenta il problema, che Bergson crede di aver superato con la fondazione pragmatica del conoscere discorsivo, ma in cui in realtà è ancora costretto a dibattersi, per aver solo spostato, non mutato, il primo presupposto: e il problema sta nell’incapacità di fuoriuscire da sé, gravante su quanti, fondato il loro pensiero sullo psicologismo, rivolgono lo sguardo alla propria soggettività, chiedendo alla riflessione intima anzitutto la conoscenza del proprio io e delle condizioni inerenti, prima ancora di ricercare le possibilità di un contatto con ciò che sé non sia, prima ancora di prefissarsi la questione della realtà di alcunché di altro da sé. Se in Bergson non si parla più di un pensiero, quale primo reale, ma della durata, se il principio dell’esistenza è al disopra e al di fuori della coscienza, se la coscienza stessa vien riconosciuta inabile alla speculazione, non è men vero che la prima preoccupazione è stata quella di ricercare l’essenza del senso di identità nostro, e che la scoperta del criterio metodologico coincide col ritrovamento di quell’immediato che giustifica e rimpolpa di contenuto concreto l’affermazione esistenziale- 308 -costante dell’«io sono».

            Non si erra quindi a parlare di uno psicologismo di Bergson, anche se la sua psicologia riguarda essenzialmente l’inconscio e considera la coscienza come una funzione di quel che la sorpassa [[infinitamente*]] e di cui sarebbe emanazione cristallizzata e immobile: infatti questo è ancora il nostro io, un esserci che non è se non la stessa nostra intimità profonda. Allora, quando, armati di tali premesse, distogliamo lo sguardo da noi per riportarlo sulle cose, su quell’oggetto che una presupposizione specifica – la medesima, d’altra parte, che ci ha prima consentito di fare della luminosità cosciente una parte del tutto e che di conseguenza non siamo in grado in modo alcuno di abbandonare - dichiara esistente, allontanandola insieme, nel suo essere, indefinitamente dalle capacità di apprensione da noi possedute, si avverte un senso di inadeguazione, che non è se non l’effetto del presupposto criterio soggettivistico: conseguentemente, per la relatività dell’intendimento e per la noumenicità dell’intuito, limitato pur sempre all’essere di chi conosca, restano due uniche soluzioni: o parzializzare la metafisica, soffermandosi al fenomenismo di ciò che è altro del’io-durata, o pretendere di attingere nel suo in sé l’oggetto, termine di azione, erigendo a legge universale la norma metodologica la cui validità si è legata finora al puro problema psicologico. Ma per far ciò Bergson dovrà ricorrere a un prestito di energie da donarsi all’intuizione, onde consentirle una deducibilità che risulta riduzione di tutto il reale all’essenza concreta della coscienza. In tal modo l’apprensione immediata, gonfia di tutte le virtualità gnoseologiche, si snoda e si insinua, adattandosi alle definizioni che di necessità debbono essere enunciate, in quanto conclusioni di un procedere che all’universo guarda dal medesimo punto, da cui aveva osservato il costituirsi dell’individuo esistente e pensante.

            Il dualismo, infatti, dal piano gnoseologico lo vediamo trapassare alla sfera della psiche e di qui investire il tutto delle cose, conservando quei medesimi caratteri di contrapposizione, che già avevano informato le precedenti polarità. L’attitudine pragmatica della conoscenza riflessa si oppone all’immediato contatto dell’intuizione disinteressata, l’indistinto eterogeneo della durata si delinea contro- 309 -l’omogeneità [[distinta*]] dell’intelligibile, il mondo della materia dovrà di conseguenza contrastare al mondo dello spirito. Come ancora delle due coppie precedenti l’una si lega all’altra per genesi innaturale di diminuzione di realtà [[o]] e* di smarrimento di vitalità, così qui la materia si legherà per essenza allo spirito – come già la teoria della percezione fa presentirecostituendo però di esso una dispersione, una variazione di orientamento. In un orizzonte, in cui domina la mobilità e la qualitatività degli stati, l’eterogeneità non può investire l’essere, ma solo l’esistere, nel senso cioè che si impone una omogeneità di essenza, per analogia con la descrizione della coscienza totale, la cui polarità insisterà meno sul distinguersi concreto che sul variare dei valori e delle tendenze intrinseche. Staccatasi dal flusso dello spirito, correrà parallela ad esso la corrente delle cose: ma mentre questa tenderà a distendersi per manco di energie, quella continuerà il suo cammino in ascesa in una conquista perenne di creazione che è arricchimento di sé su se stesso, che è tensione di durata. Questo dispiegarsi di un realismo in cui la coscienza ha modo di ripiegarsi per agire e per conoscere su oggetti realmente ed indipendentemente esistenti, necessita tuttavia di una facoltà che gli presti malleveria, come già abbiamo detto più sopra, nella sfera del conoscere: e tale compito vien demandato all’intuizione. La quale, pur continuando ad essere acquisizione diretta ed intima, noumenica, da identità di soggetto e di oggetto, qual era nella cognizione psicologica della durata, passa a contatto parziale del soggetto coll’oggetto, che non cessa – è vero – di organizzarsi in durata, ma che trascende tuttavia infinitamente i limiti ristretti della soggettività.

             Se il reale è durata, dovunque si dia un reale si darà una durata, che sarà di per sé conoscenza: questa è la premessa della conoscibilità dell’oggetto. Esserci dell’oggetto e conoscerlo costituirebbe dunque un’identità, cui però fa vizio l’origine psicologica dell’atto, sì che quando il problema si porta dalla realtà del soggetto a quella dell’oggetto, l’intuito appare modificato a tal punto da potervisi addirittura vedere una collaborazione e un compimento delle capacità intellettive.

            L’intelligenza, a sua volta, data la fondazione pragmatica della- 310 -cognizione, non può dichiararsi se non insufficiente ad attingere non solo l’essere del soggetto, ma le cose stesse della materia in sé. Infatti, come appare il mondo fisico alla coscienza, nella sua attività speculativa? Considerando i risultati della speculazione scientifica, ci si accorge che le condizioni gnoseologiche della coscienza vengono imposte quali norme costitutive alla materia: questa allora appare all’intendimento come qualcosa di omogeneo e di indefinitamente divisibile, nella cui estensione spaziale, essendo riducibile ogni mutamento ad una variazione di posizioni reciproche, il fenomeno può essere soggetto a misura e tradotto in una formula, nella quale il tempo, ridotto a una costante quantitativa immutabile, non può avere alcuna presa e in cui quindi domina la prevedibilità e la riversibilità. La materia quindi, ridotta ad intelligibile, non può essere altro che un’immagine simbolica, il che, del resto, era da attendersi, visti i presupposti con cui si spiegava il condizionamento della conoscenza per intelligibili. Ora, invece, la materia, considerata ancora, per le presupposizioni della sua genesi sotto il punto di vista della durata, è un indiviso, che concretamente esiste ed è altro dalla coscienza, ma che tuttavia conserva di questo la continuità, onde, se le cose inorganiche nella loro individualità distinta, sono relative alla percezione sensibile, in sé sono flusso, una corrente di qualità eterogenee compenetrantisi e soggette alle variazioni della mobilità. Qualcosa tuttavia distingue il flusso della materia dalla fiumana dello spirito: l’inorganico è soggetto alla legge di ripetizione , che è abbandono del passato o piuttosto identità del presente col passato, perenne attualità, che attraverso il processo di durata tende a disperdersi e a disgregarsi nella necessità causale e geometrica, in cui le identiche componenti in una situazione immutata daranno luogo sempre a un medesimo effetto.

            L’arresto e la simultanea inversione  del flusso creatore ci riconducono al carattere generale del pensiero di Bergson, perché la sua appare meno una materia che una materialità, piuttosto un materializzarsi che un essere materiale, il tendere a farsi piuttosto che il giacere in un fatto. Ma la continuità estesa, del cui concetto Bergson si serve nel Matière per operare l’accostamento fra coscienza e materia, dovrà subire una modifica profonda, quando al disotto- 311 -di essa si scorgerà un progresso continuo alla frazionalità spaziale. La nozione dell’indivisibilità dell’estensione la ritroviamo in Spinoza: ma l’aspazialità e l’indivisibilità della res extensa è in questo, a ben guardare, una condizione imposta dall’affermazione aprioristica che fa del corporeo un attributo dell’infinita sostanza di Dio. Anzi in lui non rappresenta un immediato ma il superamento di un’obiezione, per cui l’assunzione della consustanzialità del mondo in Dio sarebbe intollerante del concetto di estensione discontinua. In Bergson, al contrario, questo concetto di estensione continua è nulla più di un mezzo di argomentazione gnoseologica in una visione dualistica delle cose, concezione che consentirà di essere sostanzialmente attenuata non appena il rigido coordinamento delle parti del sistema imporrà l’analisi del rapporto fra intelligenza e materia inorganica. Infatti, a fondamento del ricondurre l’intendimento alla materialità, o piuttosto del ritrovare sotteso ad entrambe un identico postulato genetico, non sta soltanto il tentativo di salvaguardare i diritti gnoseologici della scienza positiva e di farne un valore a fianco dell’altro metafisico, ma sta soprattutto un’esigenza di carattere eminentemente speculativo – tra l’altro da Bergson ben rilevata – di fare della spazialità, nelle sue due forme dell’intelligibile e del materiale, una entità indipendente e al tempo stesso rapportabile con lo spirito, da cui si distacca meno per l’essere che per la struttura.

            Conviene tener presente che, se già le prime presupposizioni sulla cognizione orientata alla prassi fanno presagire una parzialità della coscienza che è trascesa e compresa da alcunché di più vasto, solamente con la posizione aperta di un problema di genesi dell’intelligenza dal flusso vitale che è lo spirito, è consentito lo sviluppo ampio e sistematico di una teoria di spiritualità immanente. Allora l’argomento metafisico della deduzione dell’intelligenza dalla surcoscienza da un lato viene a coincidere con una delle questioni della teoria del conoscere, dall’altro investe la problematica della materia, la cui soluzione attesa per tutte le pagine del Matière e per gran parte dell’Evolution, sarà condotta per analogia sulle linee del procedimento discorsivo, seguito già per l’intendimento. Ma stabilire un criterio di analogia fra il processo genetico di un fatto di coscienza- 312 -e quello di uno dei suoi oggetti, non vuol dire soltanto superare gli ostacoli che un dualismo oppone alla soluzione gnoseologica, ma significa soprattutto porre su di un piano di uguaglianza l’uno e l’altro dei termini, una volta che si sia dato come unico il punto di distacco e si sia stabilita unica e identica la ragione stessa della differenziazione. Il fatto che la deduzione della materia dallo spirito per un’inversione che è interruzione, tratti la materia alla stregua dell’intendimento, esige un’ipotesi preliminare, che cioè all’una e all’altra si possano attribuire le medesime caratteristiche e il medesimo orientamento e che l’una rappresenti il limite a cui incessantemente tende la corrente continua dell’altra. Ora, una simile ipotesi, oltre ad interessare il problema gnoseologico in quanto un’identità non soltanto sostanziale, ma di struttura è argomento di una applicabilità e azione reciproca e quindi di una validità di rappresentazione e di ricostruzione, deve attendere da alcunché d’altro dal dato cosciente la propria convalida, ossia da quell’intuizione che, essendo possesso del tutto, può ben abbracciare e definire la parte. Che se poi si paragona quest’ultima conclusione che rivendica nonostante alcune limitazioni, la dignità della cognizione intellettiva, con i primi principi e con le precedenti deduzioni da questi, si vedrà non tanto un salto, quanto una vera contraddizione che neppure l’appello a una facoltà immediata e simpatica può risolvere o sanare. Questa intelligenza, che dapprima dovrebbe costituire un fattore di relatività e che poi invece, per la conformazione che le deriva dal reciproco influsso sulla e della materia, è in grado con le proprie costruzioni geometriche e logiche di adeguare nella scienza le linee costitutive della materia o verso cui almeno la materia si orienta, non può spiegarsi se non con due diversi momenti speculativi, dei quali costituirebbe una prova il diverso uso e la diversa portata dell’intuito, in un primo tempo scisso e trascendente l’intelletto, poi atto a coadiuvare e a completare, almeno nelle premesse essenziali, l’opera della riflessione cosciente.

            Ma se vogliamo cogliere il senso vero e primo dell’intuizione di Bergson, non dobbiamo soffermarci soltanto alle sue funzioni arazionali e vedervi la traduzione sul piano gnoseologico di quel dualismo che si afferma sul piano della metafisica. Riconduciamo l’enunciato- 313 -di questo atto immediato del conoscere al problema che anzitutto lo ha imposto e di cui rappresenterebbe l’unica soluzione possibile.

            Una volta rifiutato come atto primo del senso autocosciente dell’io l’Io penso, sia nella sua dignità ontologica che nel suo ufficio trascendentale, che cosa resta all’individuo per spiegare la coscienza della propria unità interiore? Da un lato la riduzione della propria intimità a un complesso di stati giustapposti e distinti non è in grado di ridare l’unità pulsante del soggetto né attraverso un  sostanzialismo formale, che i singoli stati, assorbenti in sé ogni qualità e determinazione, rendono vacuo e informe, né attraverso un pluralismo fenomenistico, di cui non si riesce a riallacciare gli elementi, una volta distintili in parti indipendenti; d’altra parte resta pur sempre da risolvere e spiegare il sentimento dell’io sono, per cui siamo atti a ricondurre i singoli atti a un unico centro, raccogliendoli e racchiudendoli sotto un’unica denominazione. Questo problema eminentemente psicologico lo induce a ritrovare una nuova forma di conoscenza soggettiva di sé, una conoscenza che di necessità trascende le distinzioni della coscienza riflessa e che non potrà essere se non vita vissuta.

            La spazialità dell’intendimento, vale a dire l’impulso centrifugo che lo spinge al di fuori in un’ansia di comprendere la materialità per agire sulla materia, sottrae la spiritualità a una traduzione di intelligibili: che se poi si aggiunge la nozione di parte, da cui è caratterizzata la coscienza, risulta evidente l’impossibilità per la parte di distendersi e di far suo il tutto. Null’altro potrà comprendere lo spirito se non lo spirito stesso. Non importa che in uno sforzo di precisazione Bergson voglia definire l’intuito, come la comprensione del tempo concreto, della durata reale, struttura formale della spiritualità intima, e che, dopo aver dichiarato l’impossibilità di un’espressione dell’intuito sia per immagine sia per intelligibile, [[erige]] eriga* il dato immediatamente acquisito ad assoluto e noumenico, costitutivo dalla realtà di tutte le cose, facendo di conseguenza di questa adesione diretta non un unico atto, ma una serie di atti differenziantisi meno per la natura che per la portata, in relazione diretta col diverso grado di essere dell’oggetto accolto. Al nostro scopo- 314 -non interessa neppure che divenga un fatto di simpatia, un mezzo di trasportarsi nell’intimità dell’oggetto in virtù di una corrente profonda e irrazionale che lega il conoscente al conosciuto e che ad essa si sottenda una forma volontaristica e vitale. Ciò che è da rilevarsi è la sua funzione autocosciente e la capacità intrinseca di farci cogliere l’intima essenza di noi stessi, da cui scaturisce il sentimento dell’identità personale e a cui si ricollega la comprensione della realtà concreta di tutto l’[[inverso]] universo*.

            Affermando questo, Bergson si ripone nel flusso del pensiero moderno: infatti, se da questo sembra uscirne quando, rigettando la fondamentale funzione gnoseologica dell’autocoscienza riflessa, pone i presupposti del conoscere distinto, per percezione e per concetto, sulla condizionalità dell’azione, rivela poi con l’assunzione a primo principio del dato immediato di sé come durata l’incapacità di spezzare le barriere che la speculazione ha imposto al soggetto: cosicché non appena si costringe a ricostruire il reale, quel reale che la fondazione pragmatica ha dotato di «esistenza» concreta e indipendente, deve procedere analogicamente allargando il noumeno psicologico ad essere totale e ponendosi su di un piano, da cui, per le discordanze dai presupposti, l’intuizione ed anche l’intendimento rivestono nuove forme e riportano nuovi successi. Che cosa resta allora a Bergson da fare se non postulare una continuità fra la nostra coscienza e le altre, salendo dalla psicologia dell’individuo alla nozione di una coscienza totale, che non sarebbe che il criterio di una nuova «sostanza», vivente nel tempo ed essa stessa tempo, ed organizzantesi in forme intelligibili? Che cosa sarà il mondo se non una mobilità continua, che dura e varia in perenne eterogeneità e continuità indistinta su cui la coscienza non ha presa alcuna, se non per agirvi?

            L’intuizione allora, nata come coscienza del soggetto da parte del soggetto, coglie la reale natura di questo in quanto durata ossia libertà creatrice di un tutto senza parti, ma non unitario, catena di indefiniti stati eterogenei compenetrantisi e quindi non molteplice; e poiché questo mobile cangiamento, che si attua come libera creatività, pervade l’universo, sotto due diversi aspetti, a seconda che il suo progredire tende incessantemente a una complicazione che è- 315 -arricchimento ed evoluzione, o a una distensione che è depauperamento ed involuzione – si ritrova qui il concetto scientifico di entropia -, data la coincidenza fra intuito ed intuente, anche l’intuizione si estenderà, fuoruscendo dai limiti dell’io e abbracciando tutte le cose.

             Gli sviluppi e le modificazioni, cui vanno soggette e l’intelligenza e l’intuizione, rendono difficili il conservare la nozione che dell’una e dell’altra ci possiamo da prima essere fatti: l’intuizione per parte sua, in ciò che ha di più vivo, è e resta conoscenza di se stessi pronta tuttavia a trapassare nell’apprensione dell’essere che è durata e mobilità; l’intelletto, d’altra parte, pel suo operare nello spazio, dovrebbe immergersi nella più insuperabile delle relatività,se non subentrasse una correzione [[e]] a* renderlo almeno atto ad attingere uno degli aspetti dell’universo. Perciò non si sa fino a qual punto sia lecito parlare di anti-intellettualismo in Bergson, oppure conservare all’intuizione quello stato di incoscienza, ineffabile e intraducibile, che sembrerebbe donarle l’inintelligibilità del suo oggetto e come da ultimo si possa ancora riassumere intatta l’opposizione reciproca, su cui egli qua  e tanto insiste.

            Volutamente qui non si fa parola delle relazioni che Bergson crede di poter stabilire fra atteggiamento estetico ed intuizione o fra la medesima intuizione e l’attitudine mistica, perché non sapremmo dire quale influenza vi abbia il sovraggiungersi esteriore di interessi momentaneamente prevalenti e di quali interiorità questi siano ricchi. Ma motivo di ben altre considerazioni e chiarificazioni possono essere i rapporti da cui l’intuito appare in certe pagine legato all’intelligenza da un lato, all’istinto dall’altro. Il postulato generale, ripetiamo, è dualistico come quello che, considerando il meccanicismo e la materialità dell’intendimento, crea una sfera di assoluto nella scienza positiva, nella quale l’orientamento alla prassi, inetto a «muoversi nell’irreale», deve pur oltrepassare la relatività della cognizione, e la contrappone alla filosofia o conoscenza del vivente, in cui subentra un nuovo potere di conoscere, quello metafisico o intuitivo. Che in ciò non vi sia un atteggiamento di sfiducia nella capacità dell’intelletto, può a pieno diritto affermare Bergson, ma che da questa polarità gnoseologica sia consentito muovere a una- 316 -posizione in cui la polarità sia mantenuta e al tempo stesso superata in una reciproca collaborazione, questo non è solo difficile da dimostrarsi, ma è in grado di irretire la mente in una serie così intricata di sfumature e gradazioni da far temere che la gradualità confini spesso con la contraddizione.

            D’altra parte, nello slancio creatore, che vivifica la materia in individualità semoventi, i due impulsi fondamentali, atti a delineare due divergenti direzioni nel processo trasformistico, l’intelligenza e l’istinto, valgono sì quali doti di mantenimento e di conformazione all’esistenza, ma possono di fatto ricondursi a una distinzione di attitudini cognitive, l’una formale e di conseguenza indipendente dall’oggetto, l’altra sostanziale, ma inetta alla relazionalità, cui è da sottendersi sempre la finalità pragmatica. Ora, presupposti siffatti tollerano le varie definizioni, per cui l’intuito apparirebbe prolungamento della facoltà istintiva? Consentono essi che si faccia dell’istinto una restrizione della conoscenza intuitiva? Che una identità di orientamenti e di oggetti, che una medesima capacità di coincidenza simpatica possano apparentemente lasciar intravedere un raccostamento, questo è innegabile: come pure è innegabile che il raccostamento sia imposto da certe esigenze del conoscere, per cui l’applicazione all’oggetto – qui il flusso spirituale di creazione vitalepresuppone la compresenza nel soggetto cosciente di quelle specie di ragioni seminali, che agiscono nello slancio. Ma quando le premesse prime non restringono la differenziazione a semplici attributi formali, a gradualità di perfezionamento, quali potrebbero essere l’autocoscienza, la riflessione, l’attitudine ad ampliare all’infinito il campo della conoscenza bensì la stabiliscono su una opposizione di natura fra una finalità pragmatica e utilitaristica e un atteggiamento di disinteresse e di pura speculazione, sia pure attinto nel vivo fervore di alcuni istanti di tensione vissuta, è ancora lecito perseverare nella definizione di proseguimento, abbandonando definitivamente l’altra di giustapposizione distinta ed opposta?

            Ogni domanda, come si vede, è un problema che Bergson stesso pone entro i limiti della propria teoria, e la cui soluzione, contrastante a seconda che per essa si muova o dalle presupposizioni o dalle conseguenze ultime dedottene, imposta a sua volta il supremo - 317 -problema se sia dato conservare una conseguenza inalterata, una volta che si sia dichiarata una impossibilità di unificazione gnoseologica e che al tempo stesso le esigenze della speculazione la impongano. In verità, per le sue stesse dichiarazioni, l’intuizione è in Bergson meno un apriori assunto come punto di partenza, che una conseguente portata dello svolgimento logico dalle premesse: se da un lato il reale assume un aspetto determinato mentre dall’altro si organizza in una struttura opposta, e se di quel primo modo si dichiara la relatività, sull’esame del potere cognitivo che l’acquisisce, l’assolutezza della seconda, per coerenza metodica, non può non attendere suffragio da una facoltà apprensiva che ne confermi la validità assunta a priori. Con ciò quindi quando Bergson si appella all’intuizione non fa che offrire come soluzione del problema il problema stesso.

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License