Anton Giulio Barrili
Raggio di Dio
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Capitolo V. Al soccorso di Pisa.

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Capitolo V.

Al soccorso di Pisa.

 

Il palazzo di Gian Aloise Fiesco sorgeva sul colle di Carignano, accanto alla chiesa patronata che un cardinal Luca Fiesco, diacono di Santa Maria in Vialata a Roma, aveva ordinato nel 1336 fosse eretta in Genova col medesimo titolo; donde il nome di Vialata si stese a tutta quella parte della collina, corrompendosi poi nel dialettale "Viovâ" per rifarsi ancora italiano in "Violato" e dar occasione a qualche moderno di derivarlo "dalla copia delle viole che vi nascevano e soave fragranza diffondevano intorno". Chi sente l'arcana poesia dei fiori può anche contentarsi di questa etimologia, che ha dopo tutto il gran merito di suscitare graziosi pensieri.

Non ne suscitava di tali il palazzo, edificato presso il fianco sinistro e perciò a mezzodì della chiesa, con la quale faceva angolo il suo fianco destro, conterminando il piazzale di quella fino al bastione, che in guisa di belvedere si stendeva lassù verso ponente per un gran tratto del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la mole dell'antico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di vele, che uscivano dal porto o venivano all'approdo, passando sotto i suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle d'Albaro, colla imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.

Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che dall'Acquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di Carignano, e si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente, ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato appena il convento e la chiesa de' Servi, si levava pel dorso della Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva ad un loggiato coperto, di riuscendo ad un ingresso laterale dell'edifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica, onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre, inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con bell'arte d'intagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro, rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto, certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare d'un capo d'aquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli scudi e l'arme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. mancava la "conoscenza" ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era murata la targa indicante il privilegio d'immunità dalla forza della giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli dell'edifizio, si vedevano scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni "ultra quae non licebat satellitibus homines infestare".

Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII, che alloggiò in Vialata nell'anno 1502, ebbe a dire, certamente prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia. Io, per amore dell'arte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove; motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai monti di Voltri; ritornato di a cose quiete, non perdonò la paura che gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata, abbattendone l'orgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo fastoso.

Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dell'Aquila, finalese, e da Giacomo Serfoglio, da Salto, l'eccelso Gian Aloise ricevette il parente aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei vecchi. dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce, alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale. Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna, riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e in vistose credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo; idrie, guastade d'argento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti d'argento istoriato, confettiere d'argento niellato alla barcellonese. Ma più assai delle opere d'orefice, più ancora d'una collana di grosse perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi ond'erano coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal piede d'argilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.

Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò l'eccelso Gian Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin d'allora si chiamava "da consigli" poichè già si fabbricava a quell'uso, di coprir tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno d'ebano intarsiato, nel manico d'argento del temperatoio, e sul pernio delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il consapevole orgoglio d'un principe. Non ci maravigliamo se mirasse al dominio di Pisa.

Dall'anno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver libera, e quella volendo signoreggiarla. a Genova al suo potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero maggiormente l'imperio, poichè non solo questi agognavano l'occupazione di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si accoglieva l'ambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi. Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso, salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quell'altre, che pur da talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dall'altro. Ma l'appoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro, e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali, lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV, in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel primo trentennio del secolo XVI andar pienamente d'accordo i Fieschi coi Doria.

Tornando alle offerte di Pisa, com'erano fatte solennemente al Senato genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa. Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante. Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che la Riviera di Levante aperta a quell'esercito; onde per allora scemata l'autorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto l'util dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei Fieschi.

Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balia. E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse lui, se n'esplorasse l'animo, prima di deliberare il soccorso di Pisa. Così nascevano le due ambasciate d'ufficio; una ai Pisani, per dar buone parole, l'altra al re Luigi, per averne il parere.

Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar l'animo dei Pisani, mandando loro un altr'uomo per chiedere se il valido e sicuro aiuto d'un gran signore genovese non potesse convenir loro assai più dell'incerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti, occorreva che l'uomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente agli interessi del futuro padrone.

Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi e piccole, che gli argomenti tutti dell'oratore e tutti i lenocinii dell'arte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il capitano Fiesco accettava di esser egli l'uomo per Pisa, il partito di soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio sarebbe rimasto colla voglia; i popolari genovesi non avrebbero più potuto alzare la testa; mentre dal canto suo Gian Aloise avrebbe posseduta di schianto una tal potenza principesca, da pesar poi, bene o male, ma sempre moltissimo, sulla bilancia mal certa delle fortune d'Italia.

Ma il capitano Fiesco non voleva esser quell'uomo. Più sentiva ragioni che lo dovessero smuovere, più ne trovava da opporre. Lo aveva giudicato male, il suo eccelso parente, argomentando di lui da stesso.

- Ahimè! - diss'egli, quando vide venire quell'altro a mezza spada. - Riconosco la bellezza audace del vostro disegno; ma tanta bellezza e tanta audacia non sono il fatto mio. Senza contare che io non son destro ai maneggi politici, e mi ci troverei davvero come un pesce fuor d'acqua, penso che nella parte militare dell'impresa fallirei per precipitazione, che è il guaio dell'indole mia, e di cui non son mai riescito a guarirmi. Troppo grande è il carico che vorrebbe darmi la vostra fiducia, ed io sono troppo piccolo uomo.

- Ma pensate, - replicò Gian Aloise, non vedendo altro nella risposta del capitano Fiesco che un effetto di modestia soverchia, - pensate che sareste spalleggiato da tutti. Duemila uomini son pronti a Sarzana, e mille a Pontremoli; tutta gente che al vostro cenno correrebbero sotto Pisa. Non vi parlo della gente che ho tra Rapallo e Lavagna, che ben sapete quant'è. L'avreste tutta, come si suol dire, sotto la mano.

- Ripeto, non è il fatto mio; - ribattè Bartolomeo Fiesco. - Voi mi fate più esperto capitano che io non mi sia mai sognato di essere. Chi ha comandato i cento, e magari i cinquecent'uomini, può ritrovarsi con diecimila impacciato come un pulcino nella stoppa.

- Eh via! s'ha da credere? Chi è stato a tanti sbaragli, meritando la lode e l'affetto del vicerè delle Indie occidentali, non vorrà mica perder la testa in una faccenda che deve andare da .

- Se deve andare da come Voi dite, perchè metterci a capo un uomo che mostrate di stimare più ch'egli non sia stato mai? Ogni altro, che abbia risolutezza, dovrebbe bastare.

- Risolutezza e perspicacia; - ripigliò Gian Aloise. - E perspicacia ed ambizione di far bene. Non avete Voi ambizione?

- No; - rispose Bartolomeo Fiesco.

- Per un Fiesco, è nuova; - ribattè Gian Aloise. - Per Bartolomeo delle Indie, è strana. -

Lo toccavano sul vivo; e naturalmente gli saltò la mosca al naso; che la pazienza non era mai stata il suo forte.

- Ecco; - diss'egli, assumendo a suo modo una cert'aria di gravità e promettendo colla solennità dell'accento un lungo discorso; - facciamo ad intenderci. Ne ho avute, delle ambizioni; e potrei averne ancora, ma in un campo diverso. Bartolomeo delle Indie, avete detto, e sta bene. Rimandatelo dunque alle Indie. Qui si fanno gran cose, che potranno riuscir piccine alla prova; laggiù si fan cose piccine, che potranno esser grandi. E questo, badate, non per diverso vedere, ma perchè laggiù si taglia dalla pezza, potendo fare una cappa da gentiluomini, mentre qui si raccozzano scampoli e stracci, volendo cucirsene un manto reale. Perchè questo? Perchè qui siamo gli eredi di un gramo passato, e in molti e in troppi ci contendiamo un osso già spolpato da Goti e Greci, da Longobardi e Franchi, da Ungheri ed Alemanni; un osso, mi capite? che oggi han preso a smidollare Francesi e Spagnuoli. Laggiù, vivaddio, non si è eredi di nessuno; laggiù si può esser magari gli autori della stirpe e gli arbitri del futuro, preparandolo con libertà, bene o male, meritandone la gratitudine o le maledizioni dei posteri.

- Spaziate come un'aquila, cugino! - esclamò Gian Aloise.

- E sarò un nibbio, poi; - rispose il capitano Fiesco. - Ma vedo, se permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato di più in compagnia d'un uomo grande, l'unico grande che mi offrano le storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre vanità, quando vanno più alte. Il mio grand'uomo, col suo ingegno e colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quell'altro, con la sua forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.

- Povero a voi, se foste vissuto a' suoi tempi! neanche un paladino avreste voluto diventarci?

- Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo, avendo la Riviera di Levante per via, e la foce d'Arno per meta, sia pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere l'utilità, non ne vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia, niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del crescite et multiplicamini. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra mill'anni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno, ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un po' del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.

- Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri; - notò Gian Aloise imbizzito.

- E faran bene, vedete? - ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco. - I vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire, avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera, nell'opera stupenda, indimenticabile, eterna, d'un uomo nuovo, d'un marinaio, d'un lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete, oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che m'era più a grado, e il cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la certezza d'una pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco l'onore e la sicurezza dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal posto mio non mancherei all'appello. Ma questo per difesa, e sentendo la voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come l'ultimo degl'imbecilli. Facciamo l'obbligo nostro, cediamo alle necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei vincoli cari ch'egli stesso s'è imposti. Non mi date ragione?

- Siete un bel matto; - disse Gian Aloise, ridendo.

La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebb'egli potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra tanti consanguinei, tra gli aderenti più saldi, l'uomo che potesse andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto com'era, l'eccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile, egli avrebbe perduta, non che l'impresa, la fama.

Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando di parlar d'altro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo; i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere l'eredità di tutti, avendo poi da Maria della Rovere l'ultimo dei Gian Luigi, e il più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po' offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone d'un uomo nuovo, d'un lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo. Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte avevano contratto parentado con essi, e da trecent'anni si erano illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.

Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior d'oro, lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei, certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti all'eccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da quell'alzata d'ingegno del giovane innamorato!

Il capitano Fiesco aveva preveduto l'effetto del suo rifiuto sull'animo di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla morire del tutto, altrimenti mostrarsi impacciato.

- Ad un povero cavaliere, - incominciò egli allora, - ad un povero cavaliere che non vi può servire a nulla (e potete credere che gliene dolga nel profondo dell'anima) Voi concederete licenza di ritornare alla sua bicocca, non è vero? -

Gian Aloise fece da principio un gran cenno del capo, che pareva un segno di condiscendenza dell'olimpio Giove. Quindi con gravità d'accento, onde trapelava un pochettino d'ironia, lasciò cadere dal labbro queste misurate parole.

- -Non piaccia a Dio che vogliam dare alla nostra cara figlioccia maggior dispiacere di quello che ha avuto, restando un giorno lontana dal suo dolce marito. Ad un pronto commiato, che voi mostrate di desiderare senza neppur trattenervi alla nostra tavola per quest'oggi, mettiamo per altro una condizione, che troverete onesta ed assai temperata. Alla regina di Xaragua, che fu donna d'alto cuore e di forti propositi, riferirete tutto ciò che vi abbiamo detto, e la prova di fiducia che eravamo disposti a darvi. Così, buon cugino, avremo conforto a pensare che per la prima volta forse, ma non senza giusto motivo, la contessa Juana sentirà un po' diverso da Voi; in fatto di ambizione, per esempio, ed anche in fatto di amicizia. Lasciatemelo dire, - soggiunse il vecchio gentiluomo, vedendo che il capitano Fiesco faceva l'atto di provarsi a rispondere, - perchè davvero vi siete mostrato più tenero della quiete vostra che della mia amicizia. Non la perdete, però; Gian Aloise Fiesco ha il cuore più alto che la gente non creda. -

Il capitano Fiesco pensò che fosse meglio star zitto, lasciando all'eccelso parente la soddisfazione d'aver parlato per l'ultimo. Altrimenti, di parola in parola, Dio sa quel che sarebbe avvenuto; questo, ad esempio, ch'egli si sarebbe ripigliati tutti i suoi buoni argomenti, li avrebbe appesi all'arcione, e sarebbe corso a spron battuto su Pisa.

S'inchinò, dunque, con aria di molta confusione, e non disse parola in risposta a quel discorso agrodolce di Gian Aloise.

- Mi permetterete, - balbettò in quella vece, - di offrire i miei omaggi a madonna Caterina?

- Potete andare; è laggiù nelle sue stanze. -

Il capitano Fiesco non se lo fece dire due volte, e si allontanò, salutando con molta disinvoltura tutta la sua illustre casata.

La nobile Fiesca era , a pochi passi dalla caminata, nell'anticamera, o, per usar la lingua del tempo, nella "guardacamera" della sua sala di ricevimento. Non ci voleva molta perspicacia ad intendere che la signora contessa era stata in ascolto alla toppa dell'uscio. Ella stessa, del resto, lo confessò candidamente al suo visitatore.

- Vi ho udito; - diss'ella. - Vi eravate molto animato, e non ho perduto neppur una delle vostre parole.

- Immaginate, madonna Caterina; - rispose egli umilmente, - come io sia addolorato di non aver potuto rispondere meglio alla fiducia del vostro eccelso consorte.

- Non vi addolorate, cugino; - replicò la nobil signora. - Il mio cuore di donna vi ha dato ragione. Ma son cose da proporsi? ad un giovanotto che da un anno appena ha impalmata la più bella e la più cara creatura del mondo? E che idee di grandezza nuova son queste, che possono mettere a repentaglio l'antica? Che follia, poi, di rendere, con sempre più vaste ambizioni, scontenti i figliuoli del loro stato presente, che è già così alto, e tanto invidiato?

- Intendo la madre: - notò Bartolomeo Fiesco; - ma la discendente di Aleramo potrà forse giudicare più benignamente le vaste ambizioni di Gian Aloise.

- V'ingannate, cugino. La discendente di Aleramo sa che il grand'uomo si attenne alla marca che gli era stata data in custodia, volle alzar gli occhi, o metter la mira più in alto. E Guglielmo Lungaspada, e Gerberga sua moglie, amarono far lignaggio di cavalieri contenti al più modesto ma ancora assai nobile ufficio di governare pacificamente un popolo di quieti ed onesti lavoratori. Lungi dal pensiero di accrescere il dominio, o di tenerlo raccolto in un ramo della famiglia, lo spartirono equamente tra i loro figliuoli; e dove le città della spiaggia, fatte ricche dal mare, vollero esser padrone di , non furono i signori del Carretto quelli che si ostinarono a tenerle sotto tutela. Quando poi la cupidigia e l'ingiustizia tolsero ad uno di loro la parte sua, e che voleva esser sua per vincolo di amore, sapete bene che Dio non tardò a reintegrarne la famiglia nel suo giusto possesso. Ed io vengo di , buon cugino; vengo da quel dolce Finaro che sempre tenne fede ai miei padri, meritando ch'essi non levassero gli occhi a cose più alte, ma più vane, e più pericolose per giunta. -

Così parlava il cuore d'una madre. Sentiva egli già, cuore presago, le matte ambizioni condurre a ruina la casa? Quarantadue anni ancora, e nell'ambizioso figliuolo del suo Sinibaldo non pure la grandezza della casa doveva perire, ma la istessa progenie dei Fieschi.

 

 

 


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