Anton Giulio Barrili
Raggio di Dio
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Capitolo VII. "Dove amore non è, più nulla è il resto".

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Capitolo VII.

"Dove amore non è, più nulla è il resto".

 

Non era Philippinus, no; nient'altro che un cavallaro, un corriere, un messo, o che altro si voglia dire, mandato da Genova per portar lettere alla Gioiosa Guardia. Polidamante, sceso a pigliar lingua, tornava su tutto affannato, con un plico, fatto di quella grossa carta di filo, che già da un secolo e più si fabbricava a Voltri, sul far di quella che aveva dato fama per tutta cristianità alle cartiere di Fabriano.

- Sire Iddio, che letterone! - esclamò il capitano Fiesco, torcendo lo sguardo atterrito.

- Vedi? - notò madonna Bianchinetta. - Ci avrai da leggere un bel poco, e Filemone e Bauci dovranno aspettare.

- Chi manda la staffetta è Giovanni Passano; - diceva Polidamante in quel mezzo.

- Strano! - ripigliò messer Bartolomeo. - Ci siam visti mezz'ora prima che io rimontassi a cavallo. Che bisogno c'era di mandarmi un corriere alle calcagna?

- Questo, senza dubbio, - replicò sua madre, - di farti giunger notizie importanti, avute da lui subito dopo che tu eri partito. Ma c'è un modo di saper tutto; - soggiunse con un placido riso la veneranda signora; - aprire quel letterone, non ti pare?

- Ecco, fuman le dapi; - disse il figliuolo, niente persuaso della utilità di aprire il messaggio. - Rischiavo di seccarmi con Filippino bello, e già n'ero tutto rimescolato. E poichè da questo lato respiro, non voglio procurarmi altre noie per ora. Che cosa mi diceva il Passano, nel prender commiato? Che andava al banco di San Giorgio. Vorranno dunque esser filze di numeri, tutta roba da levar l'appetito. Ceniamo; e tu, letterone, aspetta. -

Il letterone ebbe riposo su d'una credenza, e il capitano Fiesco pensò d'aver pace a tavola. E volle ridere, volle scherzare, secondo l'uso; ma non gli veniva fatto come le altre volte. Credeva anche d'aver portato dal suo viaggio frettoloso una buona dose d'appetito; ma non fu nulla, ed egli mangiò poco, e bevette anche meno. Quel letterone, posato laggiù sulla credenza, gli pesava sull'anima.

Perchè poi tanto sgomento per due o tre pagine di scritto? Ecco qua; bisogna sapere prima di tutto che messer Bartolomeo Fiesco, dacchè aveva fatto ritorno alla casa de' suoi padri, era diventato nervoso. Non già stizzoso, o di mala voglia, perchè quasi sempre era ilare; ma in mezzo a tanta allegria sentiva di tanto in tanto i brividi dell'uomo che ha paura, che teme o sospetta di qualche cosa che non sa, ma che sente venirsi addosso, o pender da un filo sulla sua testa, come la famosa spada di Damocle. Le visite sopra tutto gli urtavano i nervi, e pareva che si aspettasse sempre una seccatura enorme. In verità non aveva tutti i torti. O per recitar sonetti della Bella mano a sua moglie, o per mandar lui a Pisa, capitava messer Filippino assai più spesso del bisogno. Ed altri ancora, parenti come Filippino, o partigiani della gente Fiesca, o vecchi conoscenti, si affollavano a Gioiosa Guardia, per ossequiare, per visitare, per esplorare, sopra tutto per far discorsi inutili, tra i quali non mancava mai l'accenno alla vita operosa che doveva aver fatta il capitano Fiesco, e alla impossibilità che egli si contentasse della vita tranquilla, uniforme e noiosa del castellano. Volevano saper tutti quando ne sarebbe uscito, e come contasse di usare il suo tempo. Ond'egli aveva già incominciato a capire che si sarebbe stati assai meglio in un bosco, e ben fuori di mano, anzi ben fuori di quella regione, dove, o di qua dall'Appennino o di , erano sempre castella dei Fieschi, con Filippini in moto, e parenti e conoscenti, e cacciatori e curiosi, cavallari, staffette e via discorrendo, fino alla consumazione dei secoli e della pazienza degli uomini. Quel letterone, frattanto! Che diavolerìa si nascondeva dentro? Messer Bartolomeo, diventato più nervoso che mai, non se lo poteva levar dalla mente, lo sbirciava da lontano con occhio sospettoso, quasi temesse da un momento all'altro di vederne saltar fuori uno scorpione, una vipera, un basilisco; questo, anzi, più facilmente, essendo una bestia dell'araldico serraglio Fieschino.

- Morale della favola; - diss'egli ad un certo punto tra . - Imparate, o giovani, a non lasciar chiusa una lettera che abbiate ricevuta. Meglio è morire sul colpo, che patire un'agonia di due ore. -

E madonna Bianchinetta e Fior d'oro, che parevano essersi scordate di quel misterioso letterone! La cena era finita, la tavola sparecchiata, e del noioso messaggio l'una l'altra delle due donne faceva parola. Doveva parlarne lui, facendone nascer lui l'occasione. E l'occasione fu questa, di fare una giratina per la sala, di accostarsi a quella credenza, e di salutare il letterone con un grido di maraviglia.

- Oh, eccolo qua, il bossolo dei segreti. Prendi, Juana, mia dolce amica, aprilo tu, ch'io non lo leggo. Piacevole non è di certo; e ci sarà almeno questo di buono, che la sua prosa, passando per la tua bocca, avrà acquistato buon suono. -

La contessa Juana aperse, e lesse. Non faccia maraviglia che sapesse leggere. Fior d'oro certamente non leggeva ancora a Maguana, nella casa di Caonabo, suo terribil signore e padrone. Ma già leggeva a Xaragua, avendo presto imparata la lingua castigliana. Aveva seguitato a leggere alla Giamaica, e poscia in viaggio, imparando via via l'italiano, e continuandone con mirabil profitto lo studio in Gioiosa Guardia. La Corinna di Haiti aveva ingegno potente; le cognizioni a lei nuove della civiltà europea erano venute insieme coll'esercizio di quelle due lingue, fondendosi, estendendosi, formandole un nuovo tesoro, dandole quasi un'anima nuova.

Per contro, aveva abbandonato assai dell'antica, o forse l'aveva sepolto nel profondo. Più non toccava il maguey dal malinconico suono; meditava più, cantava più l'areyto in cui era maestra. L'ultimo era stato quello di Cahonana nell'atto di partirsi per sempre dalla sua isola natale. Bene sulle rive dell'Entella s'era provato Damiano a chiederle la grazia d'un canto nella lingua d'Itiba. Ma ella se n'era schermita.

- Bambino amato, non esser cattivo; dolce signore, non esser tiranno. L'areyto era la gioia di un popolo semplice e buono, che sapeva appagarsi dei frutti della mia povera mente. La poetessa dell'areyto è morta insieme col suo popolo; perchè vuoi tu risuscitarla, se non hai forza di ritornarle in vita il suo popolo? Con altro nome rivive Anacoana; rivive per miracolo d'amore e di gratitudine. Ti ho amato, conte Fiesco, dal primo giorno che ti ho conosciuto; sarei morta coi miei poveri sudditi, amandoti e benedicendoti. Tu hai voluto ch'io vivessi, e la mia vita è diventata cosa tua, poichè tu l'avevi salvata. Tua regina, o tua serva, ogni condizione mi è buona; comandarti mi è dolce, obbedirti ancor più. Ma ti prego, una cosa non chieder da me; non chieder la voce che piacque a tanti infelici, la cui sorte è il segreto tormento dell'anima mia. La voce di Itiba è morta; ed io soffro già tanto, sforzandomi di dimenticare quei giorni! Dunque, se m'ami davvero....

- Dunque più nulla; - aveva detto Damiano, troncandole la frase. - La bella bocca che diceva le belle canzoni, io la suggello coi baci.

- E ti basti, - aveva ella risposto, - pensando che il cuore trabalza, venendo ad incontrarli sul labbro. Piacerebbe a te di narrarmi il tuo passato? io, bada, chiederò mai di conoscerlo. Che colpa avresti ai miei occhi, se dal giorno che m'hai conosciuta il tuo cuore è stato mio, intieramente mio? Quanto a me, conte Fiesco, ho un passato, e tu lo conosci: ebbi un fiero padrone, che ho rispettato; n'ho uno assai cortese, che adoro. Tra l'uno e l'altro è il dolore d'una patria morta, a cui non gioveranno i miei pianti, ma a cui dobbiamo usare entrambi la pietà del silenzio. -

Il conte Fiesco riconobbe che sua moglie aveva ragione, e non chiese più nulla di quelle arti gentili di cui ella era stata maestra in Haiti. La cultura della contessa Juana si faceva del resto così profonda e così vasta nelle discipline europee, che veramente non era più necessario tornare col desiderio a prove antiche d'ingegno, le quali avevano il torto di destare in lei troppo dolorosi ricordi.

Or dunque, ritornando al racconto, la contessa Juana aperse il plico, e lesse; anzi tutto una lettera di Giovanni Passano, che diceva così:

 

"Magnifico Signor mio e padrone osservandissimo,

 

"Vi parrà strano che appena partito Voi per la Gioiosa Guardia io abbia da mandarvi il messo, come il cacciatore sull'orma. Così è piaciuto a Dio, dal quale vengono le fortune tutte e disgrazie di questo mondo, con che egli sperimenta le sue creature. Ma questa volta è misericordia sua e gran favore che sia evento piacevole, come io ben credo, trattandosi di lettera che Vi scrive l'uomo che più amate e venerate dopo il supremo dator di ogni bene.

"Sappiate adunque che, mentre Voi andavate verso porta di Santo Stefano glorioso, io me ne andai al magnifico Banco di San Giorgio per collocare il denaro che eravamo rimasti d'intesa. E mi avvenni per singolar fortuna nello spettabile iureconsulto messer Nicolò di Oderigo, che scendeva allora dallo scalone. Umanamente mi salutò, e mi chiese di Voi, che tanto desiderava incontrarvi. E gli dissi che appunto eravate giunto questa mattina, ma per stare sull'ali e ripartire; che anzi a quell'ora certamente andavate passando il ponte di Sant'Agata benedetta. Mostrò dispiacere di tal contrattempo, perchè aveva ricevuto lettera di Castiglia per Voi, e a me la diede, commettendomi di spedirla al più presto. E sì m'aggiunse il prefato messer Nicolò: "ignoro che cosa sia detto in tal lettera, avendola sigillata senza leggere; ma se somiglia ad altra per me ricevuta, certo è fatto di somma importanza, e merita che il vostro signore e parente subito la tenga in sue mani". Al che risposi non dubitasse, che avrei fatto ogni diligenza, siccome ero pronto, anche partendo io medesimo.

"Non fu mestieri di ciò, avendo io trovato Battistino di Certénoli, che si disponeva appunto a partire. Io solo gli ho fatto e faccio raccomandazione di non fermarsi troppo a tutte le frasche, più che non avvenga a me quando vengo a trovarvi. Ed egli, saputo esser ciò per Vostro servizio, promette e giura, se Voi non correte più di lui, di raggiungervi ancora in cammino. Quanto a messer Nicolò di Oderigo, richiesto da me che cosa fosse scritto a lui, per darvene contezza, risposemi queste parole: "Il nostro eccelso concittadino spera e dispera ad un tempo: è come un naufrago, che può toccar terra con l'aiuto di Dio, o andare sommerso nel profondo del mare. Egli è tanto disgraziato come grande".

"Messer riverito, io vi prego di star bene, e bacio umilmente le mani a madonna Bianchinetta e a madonna Fior d'oro mia nobil cognata; che veramente io non mi risolverò mai di chiamarla suocera, contro ogni apparenza di ragione. Bianchina mia a voi tutti si raccomanda.

 

"Di Genoa, li 6 marzo anno Domini 1506.

"Johannes Paxano."

 

Il capitano Fiesco era stato a sentire con una certa curiosità la prima parte della lettera di Giovanni Passano. Alla seconda, ricominciò a non poter più star fermo sulla sedia, tanta era l'agitazione che gli entrava addosso; agitazione a cui partecipava l'animo di Fior d'oro, com'era dimostrato dall'andar più spedito, quasi convulso, della lettura.

- All'altra! all'altra! - gridò messer Bartolomeo, com'ella ebbe finita la prima. - Che sarà mai, mio Dio, se un uomo grave e tranquillo come il dottore Oderigo si mostra così sgomentato per la sorte del nostro grand'uomo? -

Fior d'oro prese allora la seconda lettera, e con molta reverenza ne lesse la soprascritta, in lingua spagnuola: "Al muy virtuoso Señor micer Bartholomè Fresco"; poi ruppe il suggello, aperse il gran foglio, e lesse il contenuto, scritto in lingua italiana, mescolata di forme spagnuole e latine, di questo tenore:

 

"Virtuoso amico.

 

"Iddio nostro signore ha disposto che quando la creatura è nel fondo delle afflizioni, ella a Lui abbia ricorso e in Lui solo confidi: ma non è senza suo consiglio che ella si volga agli amici, nei quali è come un raggio in terra della sua eccelsa bontà. Tra i miei mali ho questa sorte, che ancora qualche anima mi resti fedele. Ma perchè i pochi che mi amano son tutti lontani da me?

"Amico, la mia querela col mondo è antica oramai, come l'uso ch'egli ha di maltrattarmi. Già mille combattimenti mi diede, e a tutti ho resistito finora; in che non mi ha giovato nessuno. Ei mi tiene crudelmente colato a fondo: solo mi regge la speranza di Chi creò tutti, e sudditi e re. Il soccorso di Lui fu prontissimo sempre. Un'altra volta, è già molto, trovandomi assai abbattuto, mi sollevò col suo braccio divino, dicendo: levati su, uomo di poca fede, che son io, non aver timore. Ma adesso la voce misteriosa non parla più come prima; temo forte che voglia altro di me.

"Da più d'un anno sto qui aspettando che don Fernando mi renda giustizia e m'ascolti, come aveva promesso anche a Voi. Tutti ottengono da lui, di dovunque arrivino; checchè gli propongano, son tutti ascoltati: più ancora se nemici miei, o da lui avuti per tali. Di me non si fa caso; anche qui tutti mi sfuggono, come fossi un lebbroso. Pensate a questo, Voi che avete visto il mio arrivo a Barcellona. Ora io vi sto mallevadore che non è uomovile il quale non pensi d'oltraggiarmi. Se io avessi rubate le Indie per darle a Portoghesi, come una volta si sospettò indegnamente, quando la tempesta mi gittò nel ritorno alle rive del Tago, non potrebbero in Ispagna dimostrarmi nimicizia maggiore. Chi ciò crederebbe d'un paese, dove fu sempre tanta generosità di sentire?

"Grande aggravio ricevo da questo re, poi che la eccelsa donna mia protettrice è in cielo (che più non la vidi viva al mio ritorno), e non so come basteranno le forze a sostenere il mio dritto. Ma per rispetto a quella medesima dignità che Iddio mi ha data, quando permise che io discoprissi un mondo e lo rendessi alla sua fede, dovrò combattere fino all'ultimo soffio di vita. E son qui solo, nella mia pena, infermo, aspettando ogni da un uscio la giustizia degli uomini, dall'altro quella del cielo. Non è con me neppure il mio buon fratello don Bartolomeo, sempre in moto per mia cagione. Diego Mendez fu qui, vuole abbandonarmi del tutto; ma in troppe circostanze non fa al bisogno mio, dovendo, egli anche provvedere a stesso. Ah, i miei amici d'un tempo! Il loro affetto mi consolerebbe d'assai cose che mi mancano. E mi manchino pure per sempre; perchè "dove amore non è, più nulla è il resto". -

Tremava, per commozione profonda, la voce della bella lettrice; e gli occhi del capitano Fiesco si erano velati di lagrime.

- Com'è vero! - diss'egli. - È questo il grido dell'anima.

- E noi lo sentiremo; - rispose Fior d'oro; - e correremo a lui, non è vero? -

Messer Bartolomeo si turbò forte, a quell'altro grido dell'anima.

- Andrò certamente; - balbettò egli. - Ma tu....

- Ed io con te. Potrei forse lasciarti solo?

- Perchè no! Andavo pur solo a Pisa!

- Che mi parli tu di Pisa? - proruppe Fior d'oro. - Non ci sei andato, finalmente. E laggiù, dov'egli soffre, dond'egli chiama soccorso, il debito nostro è di andare senza indugio. Non gli debbo ancor io qualche cosa? Ma lasciami leggere il resto; son poche righe ancora; - soggiunse ella, sforzandosi d'apparire tranquilla.

E proseguì, sebbene con voce alterata, la dolorosa lettura.

"Domando forse troppo? Vi conosco, fedele amico dei lieti giorni come dei tristi, e penso che ciò non sia. Avendovi presso, di due cose una mi verrà bene ad ogni modo. O mi rifiorirà la speranza, poichè avrete ottenuto Voi ch'io parli un'ultima volta al re; e Voi solo potrete ottenerlo, che foste ricevuto da lui, e congedato con buone promesse. Dovrà ricordarle, vedendovi; e forse egli sentirà rossore di ciò che fa, per mio danno ed onta sua. O non otterrete nulla neppur voi? Sarà segno ch'io non debbo aspettare più nulla dal mondo, se non questo, che Voi mi chiudiate gli occhi al gran sonno. In questo caso sarete ancora il ben venuto al mio fianco; nell'ultim'ora della mia triste vita mi sarà dolce l'aspetto della città dond'io venni, e nella quale son nato.

"Ricordatemi, ve ne prego, alla nobil signora che allieta i giorni del vostro riposo, e che ha tanto da perdonarmi anche lei. Ma io veramente non sono in colpa, e fu con buono intendimento tutto quello che feci. Iddio mi aveva guidato laggiù; gli uomini malvagi hanno guastata l'opera di Dio, come già aveva fatto il maligno, sotto forma di serpente, in quel beatissimo Eden, di cui mi sembrò l'imagine sulla terra di Haiti. E ancora salutate per me il virtuoso messere Gian Aloise con la sua signora madonna Catalina. Dite loro che mi perdonino, se non ho più date nuove di me, che liete e degne di loro non n'ebbi più da gran tempo. Neanche, per dirvi tutto, ebbi comodità di scrivere, negli umili alberghi per cui mi vengo tramutando, poverissimo come sono, e spesso costretto ad accettar prestito da qualche anima buona. Non che per iscrivere una lettera e dar beveraggio a chi la porti, non ho il più delle volte una "bianca" per l'offerta in chiesa. Le mie rendite sono a San Domingo, e le tiene e le gode il gran commendatore d'Alcántara, che Iddio non vorrà dimenticare, nella sua forza e sapienza infinita, mentre io sono sventurato come vi dico. Ho pianto molto in mia vita sugli altri; su me piangerà presto la terra, se ancora ha senso di carità, se ancora v'è in pregio la verità e la giustizia. E vi tenga Nostro Signore nella sua santa guardia, con tutti coloro che amate; poichè, vi ripeto, dove amore non è, più nulla è il resto.

"De Segovia, a 20 de febrero 1506.

 

"El Almirante mayor del mar Oçeano

"Visorey y Gobernador general de las Indias, etc.

 

S.

S. A. S.

X. M. Y

Xp̃o FERENS.

 

I titoli non mancavano mai, nelle lettere di Cristoforo Colombo. E potevano far sorridere gli sciocchi, e far piangere gli assennati, pensando che l'almirante maggiore dell'Oceano, il vicerè e governatore delle Indie era povero in canna, spesso nelle osterie, dov'era costretto a prendere i suoi pasti, non avendo di che pagare lo scotto. Quanto alla sigla che aveva sostituita alla firma, gli amici suoi sapevano che cosa volesse dire. Così l'aveva egli solennemente descritta nel suo testamento e istituzione di maggiorasco, del 22 febbraio 1498: "...... don Diego mio figlio e tutti i miei successori e discendenti, come pure i miei fratelli Bartolomeo e Diego, porteranno le mie armi quali le lascierò dopo morte, senz'aggiungervi alcun'altra cosa, e saranno scolpite sul lor sigillo. Don Diego mio figlio, o chiunque erediterà i suoi beni, andando al possesso dell'eredità, segnerà con la firma di che ora mi servo, che è una X con sopra una S, una M con sopra un'A, ed una S più in su, e quindi una Y sormontata da una S, colle linee e punti giusta il mio costume". Ma la descrizione non essendo ancora l'interpetrazione, bisognerà soggiungere quella che n'hanno tentata i moderni eruditi, ricordando che Cristoforo Colombo, a detta del figlio Fernando nella sua Historia dell'Almirante, "se alcuna cosa aveva da scrivere, non provava la penna senza prima scrivere queste parole: Jesus cum Maria sit nobis in via". Così avendo egli mutata la firma dopo le dignità ottenute, formò la sigla misteriosa, che si può sciogliere naturalmente in questo modo: Salva me Xristus, Maria, Yosephus. Quanto all'ultima linea, Xristoferens, mezzo abbreviato, è l'istesso nome di Cristoforo, portatore di Cristo, come anche dimostra la nota iconografia di quel santo, col famoso distico leonino e maccheronico che suol richiamare alla mente.

- Ed ora, - disse Fior d'oro, nell'atto di ripiegare il foglio, - sosterrai tu che io non debba seguirti? Vedi, egli vuol chiedermi perdono, non essendo in colpa di nulla. Io, io debbo portargli una parola di riconoscenza per me, con le benedizioni del mio popolo, ch'egli amò tanto, ch'egli avrebbe reso felice, se gli uomini malvagi non ne avessero attraversati i disegni.

- Sia come volete, Juana; - rispose il capitano Fiesco. - Il cielo forse v'ispira. Al letto di un infermo vale anche meglio una donna che un uomo. Iddio ha posto negli occhi vostri un raggio della sua pietà, e sulle vostre labbra il balsamo delle sue misericordie. il grand'uomo sarà solo, quand'io dovrò chiedere udienza al suo re. Non vorrà certo negarmela; - soggiunse messer Bartolomeo; - tanto cortesemente mi aveva egli accolto, che pareva non sapesse più spiccarsi da me. Niente al signor Almirante, e si capiva, quantunque promettesse di vederlo e di udirlo; a me tutto; mi avrebbe posto Castiglia e Leone sulle braccia, con le Indie per il buon peso. "Voi siete, signor conte, in grandissima stima presso don Nicola Ovando, che d'uomini s'intende, come del nostro servizio; stimato dal gran commendatore d'Alcántara, che così vantaggiosamente mi scrive di Voi, non sarete meno stimato e favorito da me: non dispiaccia ad un Fiesco di prender servizio presso un re d'Aragona, che conosce il merito, e sa ricompensarlo". La grazia delle sue ricompense! Ma bisognò sputar dolce, dopo inghiottito l'amaro. Infine, chi sa? Non è una ispirazione del cielo che l'Almirante mi richiami presso di , per ottenergli giustizia? E se fossi io quello che potesse fargliela avere.... colla reintegrazione dei suoi diritti.... colla spedizione sua ad un altro viaggio di scoperta!...

- Quante speranze ad un tratto! - esclamò Fior d'oro.

- Non per me, si capisce. Io non andrò più, certamente. Sarà un sacrifizio.... che farò lietamente a Fior d'oro. Ma per lui, che forse ad un tale annunzio ritornerebbe da morte a vita, mi par che sia bene tentare, e per intanto sperare. Sperare giova, e tentare non nuoce. Andremo dunque a Segovia. Ma ora che ci penso, come vi porterei io in Ispagna, dove forse Fior d'oro....

- Fior d'oro può restar qui; - rispose la contessa; - ed anche può esser morta di dal gran mare. In vece sua può ben rinascere il mozzo Bonito, di cui conservo ancora le spoglie. -

Con quel nome e in quelle spoglie Anacoana era andata dalla sua isola natale alla Giamaica, e di ritornata a San Domingo, per passar poscia in Europa; mozzo per tutti, tranne per pochissimi che erano a parte del segreto.

- Eh, voi trovate rimedio a tutto, Juana; - disse il capitano Fiesco, sforzandosi di sorridere. - Ma questo mi fa pensare che avrò da trovar qualche cosa ancor io, non essendo naturale che un mozzo faccia così lungo tragitto per via di terra. Dove sarà il cavallaro? Probabilmente nel tinello a cena; che non avrà voluto rinunziare alla buona occasione. Polidamante! -

Il ragazzo non era in anticamera, e bisognò andarlo a chiamare dall'alto dello scalone. Udì la voce tonante del padrone, ed accorse.

- Battistino è ancora giù con voi altri?

- Sì, mio signore; anzi dormirà qui, avendo fatto tardi, per andare a Certénoli.

- E non ci andrà. Si tenga pronto a ripartire domattina all'alba per Genova. -

Ciò detto, il capitano Fiesco ritornò alla caminata, e scrisse in fretta una lettera per Giovanni Passano.

- E questa è fatta; - diss'egli conchiudendo, mentre suggellava il foglio. - Se il Paradiso è ancora in porto, può esser qui doman l'altro. Non sarà neanche mestieri che ci facciamo vedere a Genova. -

Madonna Bianchinetta approvò tutti gli ordini del figliuolo, e la fretta con cui erano dati. Aveva sparse tante lagrime, la veneranda signora, sentendo legger la lettera del signor Almirante!

Due giorni appresso, sull'ora del vespro, la nave Paradiso gettava le àncore davanti alla spiaggia di Chiavari. Subito si spiccava dal suo bordo un palischermo, con quattro rematori sui banchi di voga, e Giovanni Passano al timone. Un'ora dopo, il fido luogotenente e ministro del conte Fiesco era a Gioiosa Guardia. Non si poteva fare più presto, meglio di così, per contentare quell'argento vivo del conte.

Messer Bartolomeo s'imbarcò a notte alta, avendo non meno alte ragioni di far ciò. Quel mozzo Bonito non doveva esser visto da tanta gente, che nei giorni festivi ammirava la contessa Juana nella chiesa di San Salvatore. Con messer Bartolomeo e col mozzo Bonito montarono in nave due scudieri, Pietro Gentile, e frate Alessandro. Il frate tornava al suo secondo uffizio d'elezione; non dimenticando il primo, per altro, poichè portava la sua tonaca e la sua cocolla, delle quali aveva fatto il solito involto.

- Portar l'abito indosso e portarlo in mano è tutt'uno; - diceva il frate scudiero. - L'essenziale è di non lasciarlo per via, di non gittarlo ai rovi, come fanno certuni, dimenticando i loro giuramenti. Io tengo i miei, onorando il glorioso fondatore dell'ordine, seguendone gli esempi, facendo allegramente quel po' di bene che posso. Il benedetto san Francesco non voleva musi lunghi, ipocrisie. Gli uomini aveva tutti per fratelli; e chi si adoperava per utile dei fratelli, lo aveva per figliuolo. -

Anche don Garcìa avrebbe voluto seguire il padrone e accompagnare il conterraneo; tanto più che si approdava a Barcellona. Sosteneva di poter rientrare senza pericolo in Ispagna, avendo lasciato San Domingo col suo bravo congedo, per anzianità di servizio. Ma il capitano Fiesco non volle saperne di lui.

- Restate, don Garcìa; - gli aveva detto. - Dio guardi se qualcheduno vi riconosce....

- Avete ragione, signor conte; - aveva risposto don Garcìa, chinando umiliato la fronte.

- E non dico per questo che voi ora pensate; - replicò il capitano Fiesco. - Dico che anche essendo partito col vostro bravo congedo, vi siete allontanato da San Domingo insalutato hospite. E l'ospite era il governatore, che può aver notata la cosa. Il congedo, poi, era soltanto a voce. Insomma, vi dico che non è bene per voi venire laggiù, e meglio sarà che rimaniate qui, a godere davvero il vostro congedo benedetto. -

Così restò don Garcìa, e la nave Paradiso si allontanò senza di lui dalla spiaggia di Chiavari. Fortunata, aveva anche il vento in fil di ruota, che, avendo preso a soffiar nella notte dalle gole di Sestri Levante, doveva accompagnarla fino oltre la punta di Portofino. Di da Capodimonte, lo ebbe di fianco, ed era tramontana schietta: ma la tramontana era anche più favorevole del vento in poppa, perchè si poteva serrarla con tutte le vele, navigando al gran largo, che è la più gloriosa maniera, ed allarga altrettanto il cuore del capitano, che ha fretta di giungere al porto.

La nave non volendo toccar Genova, era rimasto a terra e per via di terra sarebbe tornato a casa il Passano.

Ora, mentre egli usciva da Gioiosa Guardia, dove era andato a prendere un cavallo dalle scuderie, indovinate chi gli passò davanti agli occhi, tra Paggi e San Salvatore. Il capitano Fiesco ci avrebbe dato alla prima. Messer Filippino? Lui, sicuramente, lui, che aveva trovato un altro buon pretesto, di andare in Fontanabuona, per passare davanti al castello del suo amato parente, fermarsi un tratto ad ammirare la contessa Juana e sospirarle un sonetto.

- Io arrivo, e voi partite? - diss'egli, facendo la bocca dolce.

- Sì, parto, come vedete, messer Filippino.

- E i miei buoni parenti stanno bene?

- Benissimo, - rispose il Passano, - e in via per la Spagna.

- Per la Spagna! - ripetè Filippino, stupito. - Il mio caro cugino, che non si voleva più muovere.... per nessuna ragione!...

- Eh, capirete, messere; quando si trattava di andar solo. Ma ora va accompagnato.

- Accompagnato! - ripetè Filippino, sgranando gli occhi, e impallidendo un pochino.

- Già, con la dolce consorte. Beato lui, che può portarsela allato come la sua buona spada. Io, poveraccio, vado e torno ad ogni tanto, sempre costretto a lasciare la mia sposina a Genova. È vero che i miei viaggi son brevi. -

Messer Filippino non gli dava più retta. Che importava a lui delle pene maritali di Giovanni Passano?

- La contessa con lui! - esclamò. - E quanto rimarranno?

- Questo non saprei dirvi io, messere. credo che lo sappia madonna Bianchinetta. Ma potete provare a domandargliene.

- Veramente, non contavo di entrare, questa volta. Ho da fare a Santo Stefano....

- Allora, buon viaggio, messer Filippino.

- E a voi, messer Giovanni, a voi. -

Giovanni Passano toccò il cavallo, che subito prese il portante, andando verso la Maddalena.

- M'è rimasto di stucco: - diceva il Passano tra . - Che fastidioso uomo è costui! Ed ora, se Dio vuole, per la prima volta non gli parrà Gioiosa, la Guardia. -

Aveva dato nel segno. Messer Filippino c'entrò, mezzo per consuetudine, e mezzo per curiosità, volendo sapere, se gli veniva fatto, come e perchè fossero partiti i due coniugi, e quanto sarebbero rimasti lontani. Ma la Gioiosa Guardia, dove più non era la contessa Juana, gli parve triste, desolata come un nido vuoto. Anch'egli doveva pensare quel giorno, ma con altra intenzione, quello che Cristoforo Colombo aveva scritto all'amico: "Dove amore non è, più nulla è il resto".

 

 

 


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