Anton Giulio Barrili
Raggio di Dio
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Capitolo VIII. Dolenti note.

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Capitolo VIII.

Dolenti note.

 

Non avendo speranza di leggere un altro capitolo dei Commentarii di messer Bartolomeo Fiesco, che se ne va con buon vento alle coste di Spagna, cercheremo di dir noi brevemente quanto sarà mestieri conoscere dei casi di Cristoforo Colombo, ritornato che fu dal suo quarto viaggio di scoperta, e della condizione tristissima ond'egli era stato consigliato a scrivere la dolente sua lettera al virtuoso capitano. Dovremo per ciò ritornare un passo indietro (e sian pur molti, a patto che non paian più d'uno) fino alla partenza del signor Almirante dall'isola Giamaica, dove il fedel Diego Mendez gli aveva condotto un naviglio, e il perfido Ovando, non potendo più oltre ignorare lo stato del grand'uomo, gliene mandava un altro, che finalmente si era risoluto di trovare.

Su quei due navigli s'imbarcavano i fedeli dell'Almirante e i pentiti seguaci del Porras, facendo vela il 28 giugno 1504, dopo un anno e quattro giorni di forzata inerzia nel villaggio galleggiante sulla spiaggia di Maima. Ancora non si era chetato lo sdegno degli elementi contro il magnanimo nocchiero, che primo aveva osato sfidare i flutti dell'Atlantico; e le correnti fortissime tra la Giamaica e la Spagnuola diedero assai travaglio alle navi, che solo il 13 agosto afferravano il porto di San Domingo. Col livore nell'anima e col sorriso sulle labbra, accolse don Nicola Ovando l'aborrito Colombo; gli profferse ospitalità nel palazzo del governo, e mostrò di volergli usare ogni maniera di cortesie. Quella era la pace dello scorpione, come si diceva con energica frase intorno al signor Almirante; e non senza ragione, poichè il gran commendatore d'Alcántara, ch'era lo scorpione in discorso, mentre faceva la bocca dolce al suo ospite, metteva in libertà il Porras, che questi aveva condotto prigione, unico escluso dal perdono concesso ai ribelli, come quegli che li aveva istigati e spinti alla prova delle armi. Non pago di ciò, don Nicola Ovando parlava di voler fare egli stesso un'inchiesta di ciò ch'era avvenuto alla Giamaica, sostituendosi audacemente all'autorità del signor Almirante, e usurpando il diritto dei reali di Spagna, ai quali si spettava, se mai, di rivedere il processo e di far piena giustizia. Ma qui il signor governatore non andò oltre la minaccia, che forse aveva fatta per giustificare lo scarceramento del Porras, ed anche per fare dispetto al suo ospite e indurlo ad abbreviare i termini del suo soggiorno a San Domingo.

Messer Cristoforo non voleva già rimanere a lungo in quel triste luogo, dove i segni dello sgoverno e della rapina erano troppi e troppo evidenti; dove ancora non tacevano gli echi delle orribili carneficine che avevano funestata da un capo all'altro la povera Haiti; dove infine non c'era verso di ottenere alcuna soddisfazione delle sue rendite, e nemmeno un'ombra di conti. Al signor governatore aveva oramai restituito il naviglio, e un altro ne aveva acquistato del suo. E per tal modo, su due legni proprii, come un privato armatore, riconduceva in Ispagna tanti servitori della Corona, che per Castiglia e Leone avevano due anni intieri messa a bei rischi la pelle. All'Ovando e al soggiorno di San Domingo lasciava ancora tutti i ribelli del Porras, che il signor governatore li premiasse pure secondo i gran meriti loro, e magari li facesse del suo consiglio di governo. Ed egli, co' suoi due legni, si mise alla vela il 12 di settembre.

Qui subito incominciò la disdetta. Avevano fatte appena due leghe di cammino, che sulla nave dell'Almirante si spaccò per lungo l'albero di maestra, dalla vetta fino in coperta. Buon legno, e stagionato, anche tu? L'Almirante passò sulla seconda nave, che era sotto il comando dell'Adelantado, e rimandò a San Domingo la caravella inservibile. Si veleggiava con buon vento, e i cuori si riaprivano alla speranza; quand'ecco, il 18 ottobre, una terribil fortuna di mare, che mette l'unica nave in pericolo. Se n'esce sani, e torna il mare in bonaccia; ma il giorno appresso, in quella gran calma, e quasi non lavorando le vele, si spezza in quattro l'albero di maestra.

- Piove sul bagnato! - si contentò di dire l'Adelantado, che tosto, consigliato dal fratello, a cui la gotta non consente di lasciare il giaciglio, prende un'antenna di rispetto, ne fa un piccolo albero, fortificandolo di legname preso dai castelli di poppa e di prora, strettamente lega ogni cosa con gran giri di fune, e vi adatta la vela. Si naviga ancora verso levante, ma incappando presto in un altro fortunale, che porta via l'albero di trinchetto. In tal guisa l'Atlantico rabbioso dava congedo al suo domatore: e in tal guisa, fatte settecento leghe di mare e d'angoscia indicibile, nella mattina del 7 novembre il legno disalberato afferrava San Lucar di Barrameda, donde il signor Almirante, sfinito da due anni e mezzo di continui travagli, tormentato dalla gotta e più dal pensiero della umana malvagità, si faceva trasportare a Siviglia.

Sperava di trovar pace colà, e di ricuperare tanto di forze da potersi condurre a Medina del Campo, dov'era allora la Corte, necessariamente un po' nomade in quel primo periodo di ricostituzione del regno. Ma non ricuperò punto di forze, non avendo trovata la pace, bensì in gran disordine le cose sue, poichè dal tempo della sua prigionìa, avendo il Bovadilla preso possesso della sua casa e delle sue sostanze in San Domingo, non pure non gli pagavan le rendite, ma non erano state neanche esatte con la debita puntualità, e quel tanto che se ne veniva raccogliendo restava nelle mani del governatore. Ond'egli, un mese dopo l'arrivo a Siviglia, scriveva al figliuol suo Diego, ch'era paggio alla Corte: "Il governatore m'ha crudelmente trattato. Mi dicon tutti che io posseggo undici o dodicimila castigliani; ed io non ne ho avuto un quarto". Si aggiunga che quel quarto gli era servito a comperar le due navi, per portare in Ispagna tanti buoni servitori della Corona, che ancora un mese dopo l'arrivo a San Lucar di Barrameda non avevano ricevuto il soldo di due anni e mezzo di onorati servizi; e a lui si volgevano, chiedevano denari a lui, che non ne aveva per .

solo scriveva al figliuolo che perorasse per lui e per la giustizia; scriveva al re, scriveva alla regina. Ordinassero che fosse dato il soldo a quella povera gente; comandassero all'Ovando di fargli pagare senza indugio il dovuto, perchè, senza una lettera regia, quegli si sarebbe mosso, gli stessi agenti dell'Almirante in San Domingo avrebbero ardito aprir bocca; provedessero finalmente, in guisa che meglio fossero amministrate laggiù le rendite della Corona; al qual proposito bastava accennare che una immensa quantità d'oro si ammonticchiava in mal costrutte case, esposte di continuo alla rapina, al saccheggio. Aveva risposte, ma fredde, che lo rimandavano di giorno in giorno, anzi peggio, di mese in mese. Erano andati alla Corte del re Ferdinando e della regina Isabella, i suoi due fidati amici, Diego Mendez e Alonzo Sanchez di Carvajal, ricevendo anch'essi un sacco e sette sporte di buone parole. Più non poteva fare la regina, inferma, da parecchi mesi inchiodata in un letto: più non voleva fare il re, largo promettitore, non senza un'aria di canzonatura, che tirava, sia detto col rispetto dovuto a su' Altezza reale, che tirava i ceffoni. Intanto, trionfava il Porras, parente in quel brutto modo che sappiamo al regio tesoriere Morales. E il re Ferdinando a tutte le sollecitazioni del povero infermo di Siviglia mandava a rispondere: "si vedrà, si farà quanto è dovuto, e più ancora"; la regina Isabella, in cui era riposta l'ultima speranza dello sventurato Colombo, la regina Isabella moriva.

Povera donna, infelice regina, che non aveva avuto in tutta la sua vita fortunosa un'ora di pace! Abbiamo narrate le vicende della giovinezza di lei, e come le paresse liberazione andar moglie a Ferdinando d'Aragona. Ma proprio allora incominciò la prigionia, non della persona, bensì dell'anima generosa, del cuore pietoso d'Isabella di Castiglia e Leone. Le istesse gioie della maternità, che consolano tante donne d'un nodo malaugurato, volsero in lutto per lei. Le era morto l'unico maschio, il principe Giovanni; morta la diletta figliuola Isabella, e il figliuoletto di lei, don Michele; restava Giovanna, misera creatura che doveva rimanere nella storia col nome di Giovanna la pazza, maritata all'arciduca Filippo d'Austria, bel giovane e dissoluto, che la rendeva infelice vivendo, e doveva lasciarla infelicissima, morendo un anno di poi. Di tutti questi dolori materni nutriva Isabella i suoi anni maturi; e d'altri ancora, onde la colmò di continuo l'indole avara e tiranna del suo consorte e signore. Quell'astuto Aragonese, che, lei morta appena, sarebbe passato a seconde nozze con una principessa francese, non era fatto davvero per darle allegrezza della vita e del regno. E cercò sempre, la nobil donna, di nascondere al mondo la sua infelicità; fece quanto potè, anche in punto di morte, per esser creduta la più felice delle mogli.

"Che il mio corpo (diceva ella nel suo testamento) sia seppellito nel monastero di San Francesco, nell'Alhambra della città di Granata, in un modesto sepolcro, senz'altro monumento che una semplice pietra, su cui sarà scolpita l'iscrizione. Desidero nondimeno, ed ordino, se il re mio signore s'eleggesse sepoltura in una chiesa, o monastero, in alcun altro luogo o parte de' miei regni, che il mio corpo sia pur tramutato e sepolto accanto a quello di Sua Altezza; per forma che la unione di cui abbiamo goduto in vita, e di cui speriamo la Dio mercè che le anime nostre godranno nel cielo, possa essere raffigurata dalla unione dei nostri corpi in terra."

Isabella moriva il 26 novembre del 1504, a Medina del Campo, in età di cinquantaquattro anni. Il grand'uomo ch'ella aveva protetto, intendendone l'ingegno e la missione divina, trattenuto dalla sua infermità nelle mura di Siviglia, non aveva potuto rivederla un'ultima volta: neanche gli fu dato di conoscer subito la notizia della morte di lei. Sapendola aggravata dal male, e desideroso di recarsi al suo letto d'agonia, non aveva trovato mezzo di trasporto più adatto d'una lettiga che i canonici di Siviglia avevano usata poco prima per trasportare la salma del cardinal di Mendoza. Ma i canonici temevano per il fatto loro, che non andasse guasto o perduto; e l'istesso giorno che Isabella moriva a Medina del Campo, si faceva in Siviglia tra quei canonici e il "vicerè delle Indie" un regolare contratto per l'affitto di quella lettiga, di quella bara, restando mallevadore don Francesco Pinedo, tesoriere della marina, che la strana vettura sarebbe stata restituita. Già era per salirvi il dolente; ma le trafitture del suo male e lo straordinario rigore della stagione non gli permisero di mandare ad effetto il suo divisamento.

La morte d'Isabella era il colpo di grazia al grande infelice. Viva la regina, si poteva sperare ch'ella fosse un giorno e l'altro per vincer l'animo iniquo di Ferdinando; e ad ogni modo si poteva esser certi che la regia fede sarebbe stata mantenuta, com'era scritta in forme solenni. Lei morta, le ragioni di Cristoforo Colombo, lasciate così a lungo sospese, sarebbero state sicuramente disconosciute, e le speranze deluse. E ancora tentava, scrivendo lettere su lettere, mescolando le umili supplicazioni alle giuste querele. Nella primavera del 1505 tentò per lui don Bartolomeo suo fratello di ottenere a voce quello che per iscritto non si era potuto fin allora. L'Adelantado conduceva seco il secondo figliuolo dell'Almirante; savio e costumato adolescente, allora nei diciassette anni, che aveva partecipato alle fortunose vicende del quarto viaggio. Si chiamava Fernando, l'adolescente; Fernando, come il re; ma non gli valse altrimenti che ad ottenere un altro sacco di buone parole.

Un filo di speranza era venuto al signor Almirante dalla notizia che Diego di Deza, il dotto domenicano, allora vescovo di Palencia, ma innalzato ad arcivescovo di Siviglia, sarebbe rimasto alcun tempo alla Corte. Diego di Deza era stato l'unico dotto, e perciò l'unico sostenitore di Cristoforo Colombo, nel famoso consiglio degli indotti di Salamanca. Non avendo potuto persuadere i suoi ostinati colleghi, era pure tornato utile al navigatore genovese, consigliandolo a restare in Castiglia, aspettando una migliore occasione di vincere. Queste cose, che tanto onoravano il Deza, mandò a ricordargli Cristoforo Colombo: ma è da credere che l'arcivescovo di Siviglia non potesse far più, per l'amico, nessuno di quei buoni uffici che aveva fatti il lettore di filosofia del convento di San Domenico in Salamanca. Un altro amico parve la man di Dio allo sventurato Colombo, quando se lo vide comparire in casa, in quella medesima primavera del 1505. Quell'amico era Amerigo Vespucci, che al tempo del terzo viaggio di Cristoforo Colombo al nuovo Mondo, era stato con Alonzo d'Ojeda alle Antille, in quella spedizione che fu il primo colpo dato da re Ferdinando ne' suoi patti solenni coll'Almirante maggiore del mare Oceano e Vicerè governatore generale delle Indie. La conoscenza di Amerigo Vespucci con Cristoforo Colombo era anche più antica, poichè il Vespucci era stato computista presso il fiorentino Giannotto Berardi, ricco negoziante in Ispagna, il quale appunto aveva dovuto dare una sua nave alla grande spedizione dell'Almirante, allora per l'ultima volta in auge presso la Corte spagnuola.

Di lui scriveva l'Almirante al figlio Diego, il 3 febbraio 1505: ".... Ho parlato con Amerigo Vespucci, latore della presente, chiamato dal re per affari di navigazione. Egli ebbe sempre desiderio di compiacermi; è uomo molto dabbene; la fortuna gli fu avversa, siccome a molti altri; i suoi lavori non gli profittarono come ragione voleva. Parte assai ben disposto per me, e bramoso, se gli è possibile, di fare qualche cosa che mi sia utile. Io di qui non so di che potrei incaricarlo, perchè ignoro che voglia da lui la Corte; egli va, determinato di fare per me quanto gli sarà possibile. Vedi in che può servirmi, e adóprati a questo proposito, poichè egli farà ogni cosa; parlerà e metterà tutto in opera; ma tutto sia segretamente, a fine di non destar sospetti contro di lui. Io gli dissi quello che potei circa le cose mie, e lo informai della ricompensa che mi ebbi ed ho per le mie fatiche".

La lettera era bella, e doveva infiammare il giovine Diego Colombo di nobilissimo zelo a servire il buon Amerigo, che certo si adoperò per l'amico, e da amico lo servì, dando il suo nome di battesimo a quella parte del mondo, che senza l'ingegno, la costanza, la intrepidità del navigator genovese sarebbe rimasta Dio sa quanto ancora sconosciuta, ma sicuramente di dagli anni di vita concessi dalla natura al buon messere Amerigo. Non ci ebbe colpa, dicono, nella faccenda del nome; fu un capriccio della gran matta, il giorno che, sollevata un pochino dagli occhi la benda famosa, lesse a caso il nome del Vespucci sopra una carta delle terre di recente scoperte da un altro.

Il quale seguitava ad illudersi; come s'era illuso, quando, ritornate da San Domingo alcune navi cariche d'oro per la Corona, della parte dovuta all'Almirante non portarono nulla, e dovevano esserci per lui almeno settantamila scudi; come quando, essendo mossa questione di far partire per il nuovo Mondo tre vescovi, indarno richiese che fosse ascoltato il suo parere prima di eleggerli. Questa, per altro, era stata ingiuria troppo grave alla sua dignità, e non aveva saputo tollerarla. Infermo com'era, proponendosi di andare a Segovia, dove allora si ritrovava la Corte, a far dimostrazione del suo desiderio di farla finita con tante tergiversazioni indegne di un re, come con tante offese al suo buon diritto, aveva chiesto per lettera il permesso di servirsi d'una mula per il viaggio, non potendo sopportare lo scuotimento del cavallo. È qui da sapere che il troppo frequente uso dei muli aveva fatto trascurare in Ispagna l'allevamento dei cavalli; onde già il re Alfonso XI aveva proibito l'uso dei muli per cavalcatura. Il divieto era stato mitigato in processo di tempo, ma poi rimesso in tutto il suo vigore dal re Ferdinando, che l'andare a dorso di mulo permetteva soltanto agli ecclesiastici, alle donne, ai fanciulli. Incomportabili angherie pei tempi nostri; ma allora un re poteva tutto quel che voleva; e a volere non mancavan pretesti.

La licenza, chiesta da Cristoforo Colombo negli ultimi giorni del 1504, non fu accordata se non il 23 febbraio dell'anno seguente. Il re Ferdinando, evidentemente seccato dall'idea di quella visita, aveva trovata quell'altra rémora, per allontanarsene quanto più potesse la noia. Forse ricordava il proverbio: "piglia tempo e camperai". Tante cose potevano accadere in due mesi! E ancora fu servito dalla mala ventura del suo Almirante maggiore, a cui le pioggie rovinose di quell'inverno avevano guaste le strade, di guisa che non gli venne fatto di mettersi in cammino se non un mese più tardi.

Il colloquio di Segovia meriterebbe d'esser narrato in disteso. Ma se uno degli interlocutori ci è caro, l'altro maledettamente ci è in uggia. Si sta mal volentieri con lui; si guadagna un tanto a vederlo di scorcio, e passando; specie quando si sa di dover presto ritornare alla sua non lieta presenza.

Cuoceva al re di tante concessioni straordinarie ad un navigatore straniero; concessioni la prima volta già fatte di mala voglia, tra per finirla con un molesto dimandatore, e per la convinzione di non impegnarsi a nulla. Che cosa avrebbe mai scoperto quel promettitore di regni? Qualche altro scoglio in mezzo all'Oceano, da far riscontro a Madera e Porto Santo; nel qual caso un titolo di vicerè contava poco, e si poteva concederlo, in vista d'un bruscolo negli occhi ai Portoghesi, fin allora troppo fortunati vicini. O non trovava niente; e buona notte al titolo di vicerè, come a quello d'Almirante maggiore, che andava a seppellirsi in fondo all'Oceano. E questa, poi, era la saldissima fede di Ferdinando d'Aragona; il quale non aveva apposta la sua riverita firma alle concessioni sullodate, se non per compiacere ad un vero capriccio della regina di Castiglia e Leone, sua magnanima consorte, troppo facile ad infiammarsi d'un disegno che a lui pareva d'imbroglione o di matto. Quelle concessioni maledette, le aveva poi confermate al ritorno del Genovese, non matto imbroglione, ma scopritore d'un mondo; le aveva confermate nel caldo di un entusiasmo che per un istante aveva sopraffatto anche lui. Ma il secondo viaggio, con tutte le spese che aveva cagionate, con tutte le speranze forsennate che aveva pel momento deluse, offriva il buon pretesto per scemare allo scopritore una somma di privilegi, che parevano inconciliabili colla maestà del regno. Non c'era ancor l'oro a botti; c'era un mondo da sfruttare; doveva scoprirlo tutto quell'uomo, aver la sua parte di tutto? Di qui la prima violazione dei patti stabiliti con quell'uomo, e la licenza data ad altri scopritori, che già diventavano legione; di qui tutto il resto, che si compendia in un ragionamento crudele, ma semplicissimo: dobbiamo noi lasciare tant'oro ad un marinaio fortunato, che ce ne ha ritrovata la vena? dobbiamo noi lasciare tanti privilegi ad uno straniero, che vuol trattar da pari a pari con noi, per il fatto che ha indovinata una strada sul mare? E qui dubbiezze, che la pronta calunnia convertiva in sospetti; qui malumori che la vigile perfidia traeva ad ostilità; qui facili sdegni e dure risoluzioni, seguite da tardi pentimenti, ognuno dei quali lasciava il suo lievito di rancori nell'animo di chi aveva dovuto mostrarsi pentito, e disposto a render giustizia. Ma il re Ferdinando, diventando a mano a mano più forte nei consigli della mite Isabella, e già in via di allontanarne il cuore del suo infelice protetto, era piuttosto vergognoso che poco desideroso di mostrarsi sleale. E ancora, vivente la regina, si dovevano rispettar certe forme; lei morta, e lui rimasto reggente di Castiglia in nome della figliuola Giovanna, non c'era più ragione di rispettar neppur quelle.

Accolse dunque con fredda cortesia il gran suddito; ascoltò i lagni del suo vicerè ed almirante maggiore, senza dargliene i titoli; venendo al fatto, dichiarò di non potergli rispondere per , trattandosi di quistioni complesse, e da parecchio tempo malamente intricate. Erano giuste tutte le offese ch'egli diceva esser fatte ai suoi privilegi, con le patenti date ad altri scopritori, ad altri governatori? C'era per tutte queste faccende un Consiglio delle Indie. I re, disgraziatamente, non potevano sapere appuntino ogni cosa, bastando loro di vigilare dall'alto, perchè ad ognuno fosse facile sostener sue ragioni. Don Cristoval sosteneva che il Consiglio delle Indie gli fosse nemico. Come disingannarlo? come sincerarsi che si apponesse al vero? Doveva il re sciogliere il consiglio delle Indie, in tal dubbio, e per una accusa di parte? Non potendo scioglierlo, poteva prender licenza di non rispettarlo? Questioni complesse, questioni intricate; ci sarebbe voluto un arbitro, per vederci chiaro, e proferire un giudizio.

Don Cristoval si appigliò per disperato a quest'áncora di salvezza. Un arbitro, sì, lo accettava. E perchè non sarebbe stato il vescovo di Palencia, testè nominato arcivescovo di Siviglia, ma non ancora andato ad occupar la sua sede? Era , sotto la mano, il buon Diego di Deza, dottissimo uomo, savio, e prudente. Parve ottimo anche al re Ferdinando, che con questa trovata aveva l'aria di concedere ogni cosa. Intanto si levava di torno un argomentatore importuno; e guadagnava tempo, che era l'essenziale. Piglia tempo e camperai.

Ma l'arbitro, che era parso a tutta prima un tocca e sana, non rimediava a nulla di nulla. Sarebbe bisognato anzi tutto distinguere, stabilir chiaramente le materie su cui dovesse esercitare la sua autorità. Ferdinando intendeva su tutte; non così l'Almirante. Questi accettava l'arbitro per ciò che riguardava i suoi diritti sull'entrate delle Indie, arretrati da computare, redditi da stabilire pel futuro. E ci fosse anche da dare un taglio, per amor di pace; l'Almirante non voleva piatire per una questione di denaro; che anzi, senza arbitrato, si sarebbe rimesso alla coscienza del re, e solamente accettava l'arbitrato perchè il re non voleva far lui, per tema di apparir giudice e parte. Ma egli, l'Almirante, non poteva egualmente sottoporre ad arbitrato i suoi titoli di vicerè, d'almirante maggiore, di governator generale, coi privilegi annessi e connessi, i quali ancora di recente erano stati offesi coll'invio dei tre vescovi, senza averlo pure consultato.

- Queste, - diceva egli, - sono mie dignità, regolarmente conseguite e guadagnate con l'opere mie a pro' della vostra Corona. Che se io ne facessi getto, e mi adattassi a rinunziarne solo una parte, lascerei credere di avere in alcuna cosa demeritato del regio favore, o di non esserne stato mai degno. E se io ne son degno, perchè dispogliarmi? La forza può tutto, ed io cederei alla forza; ma potrei appellarmi alla divina giustizia, presso a cui, nella gloria che alle sue virtù era dovuta, siede ora la nostra regina. Che direbbe ella, vedendo così deluso il suo volere e non mantenuti i patti da lei liberamente sottoscritti? Perchè i suoi voleri sian rispettati, non è stata nominata una Giunta degli scarichi? -

Don Cristoval toccava un tasto assai delicato. Castiglia e Leone vegliavano gelosamente alla custodia dei loro diritti. Nel matrimonio della loro regina col re di Aragona si preparava la unione delle due parti di Spagna in un solo reame; ma per intanto, uniti i sovrani, restavano distinti i diritti; il regno più vasto voleva essere assorbito dal più piccolo. Morta la regina di Castiglia e Leone, sotto colore di far rispettare gli obblighi che per isgravio di coscienza avesse ella potuto assumere in suo vivente (e qui si vedeva la mano del clero di Castiglia, le cui ragioni di classe si confondevano con quelle della patria dignità) era stata istituita quella Giunta, intitolata degli "scarichi della coscienza regale", che doveva nel fatto riuscire a freno del re Ferdinando, nel tempo della sua inevitabil reggenza in Castiglia. E quell'uomo ch'era tuttavia così potente per far pesare la sua autorità nelle cose d'Europa, sostituendo nella lontana penisola italiana il predominio spagnuolo al predominio francese, non poteva egualmente far pesare la sua volontà sul reame di Castiglia. Ne era il reggente, finchè non giungesse la figliuola Giovanna, col suo giovine marito, ad assumere la corona d'Isabella; e una giunta de los Descargos teneva infrenato il reggente. Casistica politica dei tempi; e a qualche cosa serviva.

Ferdinando aveva avuto comune con Isabella il titolo di Cattolico; ed era naturalmente devoto. Meglio sarebbe stato aver religione, pensare che ogni promessa è debito, e che ogni debito è sacro. Egli tentò in quella vece di persuadere l'ostinato avversario a recedere dalle sue pretensioni, accettando un gran titolo di nobiltà e un vasto dominio in Andalusia; Carrion de los Condes, niente di meno. Ma Cristoforo Colombo non s'era mosso per ricchezze e per titoli; bensì per l'onore del suo nome, che oramai era vincolato alle dignità conseguite. Ricusò dunque dominii e marchesati; al re Ferdinando non rimase altro che di chinare la testa, passando sotto il giogo de los Descargos. Giogo soave, per altro, e con cui si guadagnava tempo, assai tempo, fin oltre il bisogno. Quel vecchio ostinato, rotto nella salute, non avrebbe mica voluto durar tanto da veder la Giunta degli Scarichi della coscienza regale metter fine ai suoi delicatissimi uffici. Era composta di gran signori, chiesastici e secolari: ferma nell'opporsi alle prepotenze del re su Castiglia e Leone, non poteva sentire ugual voglia di render giustizia ad uno straniero, il quale pretendeva titoli e privilegi non mai ottenuti in tal copia con tale pienezza da alcun suddito di Castiglia, di Leone, d'Aragona.

Bene si avvide Cristoforo Colombo, che da quella parte non c'era niente a sperare. Passavano i mesi, e la Giunta studiava ancora, o diceva di studiare. per altra via aveva potuto smuovere il re, quantunque le buone parole non mancassero mai. E giunto così alla primavera del 1505, dopo aver scritto in quel modo che sappiamo al conte Fiesco, suo compagno di gloria, così scriveva desolato ad un altro amico, a Don Diego di Deza, fatto arbitro un istante, ma senza frutto, della sua querela col re.

"Pare che Sua Altezza non estimi a proposito di mantenere le promesse, da lui e dalla regina, la quale or si trova nel sen della gloria, ricevute sotto la lor parola e sotto il loro sigillo. Opporsi al volere di lui sarebbe un lottar contro il vento. Io ho fatto tutto ciò che dovevo; lascio il resto a Dio."

 

 

 


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