Anton Giulio Barrili
Raggio di Dio
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Capitolo XI. Invito a palazzo.

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Capitolo XI.

Invito a palazzo.

 

Israele aveva levate ancora una volta le tende. La marchesa di Moya si era dunque apposta al vero, dicendo al capitano Fiesco che la Corte sarebbe passata di quei giorni da Segovia a Valladolid. Sappiamo le ragioni politiche di quegli spessi tramutamenti; dobbiamo anche conoscere come e perchè se ne avesse così pronta la notizia nel convento di Santa Chiara a Siviglia. E non solamente in quello, ma in tutti i conventi di Castiglia. Era il tempo che la politica degli stati la facevano i vescovi e i grandi ordini religiosi, padroni dei re, nel nome istesso di una autorità superna, che innalzava e sbalzava di seggio i potenti. E i re, si capisce, non potendo fare in casa tutto quello che volevano, se ne ricattavano fuori, con le guerre di predominio e di conquista, l'alto clero non disapprovando la supremazia militare della nazione a cui pur esso apparteneva, e potendo mandare le ragioni dell'amor patrio di pari passo con quelle del tornaconto di classe. Così il cattolico re Ferdinando, libero di accrescere la potenza spagnuola in Italia, dov'egli trasferiva alla Spagna le pretensioni dinastiche della casa d'Aragona, non era altrimenti libero di fare in tutto a suo modo nelle terre di Castiglia; e più ancora si sentiva le mani legate dopo la morte della moglie Isabella. Bene cercava egli di prolungarsi la reggenza sui dominii della morta; ma da quei dominii, ostinate nella sostanza quanto rispettose nella forma, resistevano le autorità da tanti secoli stabilite, dell'alto clero e del basso, vescovi e capitoli, abbazie, priorati, parrocchie e monasteri.

Anche i conventi di donne partecipavano a questo lavoro di resistenza: e ciò s'intenderà facilmente, chi pensi che negli ordini monastici erano allora numerosissime le figliuole delle grandi famiglie del regno, famiglie a cui pure appartenevano i magnati del clero, alleanza naturale di nobiltà religiosa e di nobiltà militare; e che delle personali rinunzie al mondo le nobili claustrali si ricattavano, anch'esse partecipando largamente alle ambizioni delle casate dond'erano uscite, e di cui serbavano, se non in tutto il fasto mondano, certamente il ricordo e l'orgoglio.

A quei centri di vita monastica affluivano, da quei centri si diffondevano le notizie politiche utili a sapersi da ogni classe di aderenti. Le vaste possessioni degli ordini religiosi favorivano il continuo viavai dei razionali, dei vicarii, dei gastaldi, tramutati in messaggeri. Il servizio delle poste pubbliche era in mano delle università; quello delle poste segrete in mano dei conventi. E non poteva dirsi una distinzione, ma piuttosto una affinità di uffici, poichè nelle università  primeggiavano i frati, come maestri di teologia e d'eloquenza, di diritto canonico e civile, di filosofia, perfino di medicina.

Ritornati a Segovia, Bartolomeo Fiesco e il mozzo Bonito seppero avvenuto ciò che a Siviglia avevano udito imminente. Da cinque giorni la Corte si era trasferita a Valladolid, nell'antico reame di Leon, lasciando nel mezzo Medina del Campo, dov'era morta Isabella, e avvicinandosi a Burgos, la capitale antica dei conti di Castiglia, e la patria del Cid Campeador. Burgos, a cui si avvicinava Ferdinando, era anche la città del pericolo per lui. Di laggiù, infatti, doveva avanzarsi Giovanna, se mai si fosse risoluta di lasciare le Fiandre e di approdare alla costa di Biscaglia. Ma egli, da Valladolid, risalendo da levante la gran valle del Duero, aveva nella fida Aragona la sua ritirata strategica. Perchè egli viveva in istato di guerra, tra tutte le apparenze della pace; ed era guerra di ambizioni personali e di diritti dinastici tra il padre e la temuta figliuola. Pazza la dicevano a bassa voce, e sarebbe piaciuto a lui che pazza fosse gridata a larghi polmoni: ma più pazza era, e più si doveva temerne il troppo sollecito arrivo. Ah quei nobili Castigliani, così superbi e così ostinati! Non c'era dunque verso di tirarli dalla sua?

Cristoforo Colombo aveva seguitata la Corte. Il capitano Fiesco seguitò dunque il suo viaggio, muovendo lungo il corso dell'Adarà, fino alla pianura insalubre di Medina del Campo; di passato il Duero, proseguì fin dove l'Esgueva, umile tributario, si getta nel Pisurga. Era finalmente a Valladolid, la opulenta città, che ancora non possedeva i centomila abitanti a cui giunse sotto Carlo Quinto, ma che aveva già tre volte e più i ventimila a cui è ridiscesa nei tempi nostri. E già allora Valladolid era fiorente d'industrie, famosa pel suo studio di giurisprudenza, orgogliosa del suo Campo Grande, vastissima piazza, fiancheggiata da diciassette conventi, dove già con grande concorso di popolo si arrostivano Mori ed Ebrei, a maggior gloria di Dio misericordioso. Da ventisei anni era stato legalmente riconosciuto e diffuso il Sant'Uffizio nella felicissima terra di Spagna.

Il capitano Fiesco, che pur non era di tenerissima fibra, torse gli occhi da quella piazza che doveva costeggiare passando, e dove appunto si stava rizzando un gran palco di legname per l'auto da del giorno vegnente; il mozzo Bonito rabbrividì, correndo involontariamente col pensiero agli orrori della piazza di Xaragua, dove ottanta cacichi erano stati bruciati sotto i suoi occhi; ed anche di un'altra piazza a San Domingo, dove per lui era stato rizzato il palco ferale.

Avevano preso lingua per via; e non era stato facile ritrovare subito la dimora del Vicerè delle Indie. Chi conosceva a Valladolid un vicerè delle Indie? Per fortuna s'erano imbattuti nel servo Geronimo, che li aveva condotti in una via fuori mano e mezzo campestre, dove sorgeva una casa di povera apparenza, quasi una masseria di campagna, con un gran portone pei carri, un pianterreno cieco, un piano superiore di poche finestre non grandi, tutte in fila, e un secondo, che prendeva luce più scarsa da quattro o cinque finestrini sotto i rozzi modiglioni del tetto. In quella casa era andato ad ospizio il vicerè delle Indie, presso un marinaio, Gil Garcìa, che, avendo riconosciuto il suo Almirante, non aveva voluto lasciargli cercare alloggio più oltre.

- Forse lo trovereste migliore; - aveva detto il buon Garcìa; - ma stancandovi nella ricerca. E pensate, mio signore, che se la casa è povera, neanche a Valladolid son ricchi i cuori di chi possiede i palazzi.

- Gil Garcìa, tutto il mondo è paese; - aveva risposto l'Almirante. - E Valladolid è una gran capitale, se ha la tua casa per reggia. -

La fatica del viaggio non aveva troppo stancato il signor Almirante; e il capitano Fiesco, entrandogli in camera, lo ritrovò seduto sul letto in una di quelle alcove di cui gli Arabi avevano dato il nome e l'uso alla Spagna, donde uso e nome passarono poscia all'altre parti di Europa. Come già parecchi giorni innanzi, l'infermo si rianimò alla vista dell'amico; e non sentì più i suoi dolori, udendo le nuove del colloquio che questi aveva avuto con la marchesa di Moya.

Il Fiesco, naturalmente, non gli riferiva appuntino ogni cosa. Più che dalla raccomandazione del segreto, si sentiva trattenuto dal timore di rallegrar troppo il grande sventurato. Voleva, se mai, ragionarne prima coll'Adelantado, dicendogli delle cose segrete almeno quel tanto che fosse mestieri, per farne buon uso ad ogni opportunità. Espose in quella vece all'Almirante come la marchesa di Moya gli fosse amica immutata ed immutabile; vedendo poi quanta letizia si diffondesse sul volto dell'ascoltatore, non tacque le confessioni che la nobil Beatrice di Bovadilla gli aveva fatte così spontaneamente, senza puerile ritegno. Impacciato si sentiva egli piuttosto a riferire quelle calde parole: ma per fortuna il viso aveva abbastanza celato nella penombra dell'alcova, poichè, stando seduto presso la sponda del letto, dava le spalle alla luce; ond'ebbe più coraggio a dir tutto.

Don Cristoval appariva trasfigurato da quel tiepido soffio di buona ventura. Gli si tingevano di vermiglio le gote; gli sfavillavano gli occhi; un sorriso della sua balda gioventù gli sfiorava la bocca bellissima. Qual miracolo si operava sotto gli sguardi del buon messaggero! e qual altro maggiore non si doveva egli aspettare, dagli sguardi della pietosa amica?

- Lasciatemi pensare; - disse l'Almirante. - È un'ora ben lieta, questa che voi mi portate. -

E pensò, mentre quell'altro rimaneva silenzioso a contemplarlo; pensò lungamente, sorridendo ai suoi pensieri, che tramutati in immagini parevano sprigionarsi dalla sua fronte, sciogliendo il volo tutto intorno e facendo risplendere come un lembo di cielo l'aria rinchiusa della malinconica alcova. Dunque ella non l'odiava? L'ombra di quel morto non aveva offuscata la immagine di don Cristoval nel cuore di Beatrice? Dunque ella era sempre Bovadilla, la pietosa, la soave Bovadilla, ogni cui detto, ogni cui gesto, anche imperioso, recava l'impronta della bontà, perchè lo aveva informato un senso d'amore? Ah, dolce cosa, e balsamo divino ad ogni angoscia patita! E che orribil tormento sarebbe la vecchiaia, la turpe, la paurosa vecchiaia, se non potessimo vivere qualche volta del nostro passato, chiamarlo a rassegna, goderne col pensiero, anche togliendo alle cose vissute i troppo chiari e vigorosi contorni? Il vecchio fu giovane; amò, fu amato; e quel ricordo, che è la sua beatitudine, è ancora la sua gloria. Per quell'amore egli compì grandi cose, o gentili, memorabili sempre; per quell'amore si sentì fatto migliore, sorrise alla vita, fu buono alle creature che gli stavano intorno. E passano davanti agli occhi i lampi di quelle giornate lontane; e figure da gran tempo obliate trascorrono in quella luce, animando la scena. La bella donna che si amò tanto forte, si muove in quel piccolo mondo, gloriosa e serena, sorridente della sua giovinezza; e par che non guardi, par che non veda nulla intorno a ; ma voi sentite l'onda magnetica del suo sguardo, che giunge a voi, che tutto v'involge, e v'inebria. Ah, lampi maravigliosi! spiragli divini di un dolce passato! Il quadro luminoso si scolora ad un tratto, e la visione si spegne; ma può ancora riaccendersi, può ancora colorirsi; e di quelle fugaci apparizioni si vive. Triste cosa, che, morti noi, spariscano anch'esse per sempre, possa più altri goderne! Attimo di eternità che dilegua; ciò che fu, ritorna nella notte delle cose che non furono mai. Perciò qualche volta la visione lascia un senso di dolore nell'anima. L'amaro è nel dolce; e fors'anche ha mestieri di quel senso d'amaro, per aver vita, e coscienza di stesso, il piacere.

Anche il capitano Fiesco pensava. Come sono maravigliosi questi vecchi, che serbano ancora tanta gioventù dentro l'anima! Ed ancora, che altezza di sentire in quest'uomo! Non fa egli ricordare i bei versi di Dante? "E se il mondo sapesse il cor ch'egli ebbe, mendicando la vita a frusto a frusto, assai lo loda, e più lo loderebbe". Amato dalla più bella creatura del reame di Castiglia, ha rinunziato a quell'amore, che poteva essere il suo premio, ben superiore a tutte le fortune, a tutte le dignità della terra. Virtù, certamente; virtù, che dobbiamo coltivare in noi, come un fiore divino! Ma questa virtù non è dato condurla oltre i confini della umana natura; ed egli non si salvò dalla forza indomabile della passione se non colla fuga. Avrebbe un certo Damiano saputo fare altrettanto, ai tempi suoi, consule Planco? È vero che Damiano non era un santo; non n'ha mai avuta la stoffa, con tanti cardinali e un paio di papi in famiglia!

L'Almirante ruppe finalmente il silenzio, e insieme con le meditazioni sue cessarono quelle un po' meno alte del suo reduce amico.

- La marchesa verrà, mi avete detto?

- Sì, messere, e presto. Ma silenzio, per carità; non si deve sapere prima del fatto; non si deve averne sospetto.

- E parlerà essa a Ferdinando? -

Qui il capitano Fiesco si ritrovò un pochettino impacciato a rispondere.

- Eh, lo immagino; - balbettò. - Vissuta tanto tempo a Corte, non passerà dov'è la Corte senza rimetterci piede.

- E perchè non è venuta con voi?

- Che so io? che debbo dirvi, messere? - rispose il Fiesco, più impacciato che mai. - Mi ha parlato vagamente di certe cose, che la trattenevano ancora. Hanno sempre tanti impicci, le donne! e non tutte, per cavarsi d'impicci, hanno l'arte e gli abiti del mozzo Bonito. Credo ancora che avesse da sbrigare un negozio più grave. Ma neppur questo mi ha detto, quantunque non fosse un segreto, poichè mi ha pregato di lasciarle il frate scudiero. Le servirà di scorta in viaggio; - soggiunse il capitano, felice di aver trovata una gretola, e scappando da quella. - A mezza monaca mezzo frate, non vi pare? Badiamo, dico così per dire; che il mio scudiero è frate, con tutti i tre voti. Ma egli pare così poco un frate, vivendo sempre fuor di convento! Come le ha, le dispense? non è il caso che se le pigli da ?

- Dovreste saperne voi qualche cosa, che lo conducete pel mondo; - osservò l'Almirante, sorridendo. - Ma non bisogna credere che frate Alessandro manchi al precetto dell'obbedienza. Non facciamo sospetti temerarii, e crediamo che abbia la sua brava licenza in tasca. -

L'Almirante era allegro, e celiava, come ne' suoi giorni più belli. Un'ondata di buona ventura entrava nella povera casa di Gil Garcìa; bisognava approfittare del vento; e don Cristoval, che si sentiva rinfrancato, volle vestirsi. Mentre il marinaio Geronimo lo aiutava in quella bisogna, il capitano Fiesco scese in cortile a discorrere coll'Adelantado. Con lui non poteva menare il can per l'aia; anche senza dir tutto, doveva aprirsi con lui della prossima venuta della marchesa di Moya, e del tentativo ch'ella si proponeva di fare. Per non mancare alle promesse sue, bastava non dire che la nuova regina di Castiglia era aspettata alla coste di Spagna. Restava, e bastava, che l'arrivo ne fosse sperato, per giustificare il passo di donna Beatrice. Dopo tutto, anche di quel poco che si lasciava uscir di bocca, il capitano Fiesco raccomandava il segreto alla conosciuta prudenza dell'amico; il quale a sua volta ne riconobbe tutta la importanza gelosa.

- Dicevo bene! - esclamò Bartolomeo Colombo. - Dicevo bene, se la marchesa di Moya veniva proprio a parlare col re. Non è lei, l'antica dama di palazzo della mite e generosa Isabella, che potrebbe commuover le viscere al marito di Germana di Foix. E notate che io avevo già mulinato il disegno di rivolgermi a questa, per chiedere il suo patrocinio. Sposa novella, pensavo, avrà potere sul maturo consorte, e potrà usarne a nostro vantaggio. Ma ho dovuto rinunziarci. La bionda reginetta è qui come un pesce fuor d'acqua. Già molto è se la tollerano, questi signori Castigliani, cedendo alle raccomandazioni del virtuoso Ximenes.

- Il confessore della morta regina! - esclamò il capitano Fiesco.

- Ma sì; lo vedete, il confessore di quella santa, costretto a raccomandare la calma, a far mandar giù, come uno zuccherino, quella profanazione del talamo reale? E non ha aspettato che si raffreddasse la povera salma, il cattolico re! Appena era passato l'anno, e la nuova regina passava i Pirenei. Ma che cosa non fa fare la maledetta cupidigia del regno? Basta, - conchiuse lo sdegnoso Adelantado, - io non ci ho niente da vedere, da spartire: il cardinal di Toledo riconosce il male, e s'ingegna di ricavarne il bene. Signori miei, dice egli ai nobili di Castiglia, abbiamo pazienza un po' tutti; pensiamo che Germana di Foix, la graziosa nipote del re Cristianissimo, ci porta in dote la rinunzia dei Francesi a tutte le terre che possedevano ancora nel reame di Napoli.

- E che Consalvo avrebbe potuto riprendere senza sforzo; - notò il capitano Fiesco. - Ho anche sentito dire che per quella rinunzia del Cristianissimo, il Cattolico si obbliga di pagargli in dieci anni settecentomila ducati d'oro.

- Vero; - rispose l'Adelantado. - Per contro restano liberi dalla prigionia i baroni di quel regno, che avevano militato in favore del Cattolico. E di rimpatto, - soggiunse sarcasticamente, - è levata la confisca fatta contro coloro che avevano seguitato il partito francese. Sicchè, vedete, non si sa bene chi più ci guadagni. Questo rimane, per altro, che il Cattolico deve pagare settecentomila scudi d'oro, farsi amare da una sposina francese, e tollerare dalla nobiltà castigliana. Grattacapi non gliene mancano, adunque; ma ci pensi lui. Il guaio per noi è questo solo, che in tanta confusione n'andiamo di sotto. Perchè, s'intendano o non s'intendano, contro di noi sono tutti, Castigliani ed Aragonesi, ben risoluti di non farci giustizia.

- E il virtuoso Ximenes?

- C'è la Giunta degli scarichi; così dice egli a chi gliene parla. La Giunta degli scarichi è il suo grande argomento. L'ha inventata lui, difatti, per le questioni di Castiglia; e gli pare che sia la man di Dio. Con questa, egli ha scaricato anche la sua stessa coscienza. Poveraccio, finalmente! ha tanti carichi sulle spalle, che qualche volta mi vien voglia di compatirlo. Sapete, mio caro Fiesco, che io non l'ho con questa gente; l'ho colla nostra cattiva stella, che ci ha condotti qui, a piatire da vent'anni con un bugiardo, ad inghiottire ogni sorta di amari bocconi. Il mio grande fratello non vuol che si dica; e per rispetto a lui sto zitto. Ma qualche volta la pazienza di fuori, come se fosse una pentola. Se si dava retta a me, o con Francia, o con Inghilterra, sarebbe stato un altro paio di maniche. Ripeto e torno a dire: poichè il male è fatto e non si muta, venga Giovanna, e sia l'ultimo tratto di dadi. Di questo, poi, si potrà toccarne all'Almirante, quando sia il momento. Mi pare che una lettera alla regina dovrà scriverla anche lui. Per ora non conviene dir nulla. Quella sua gotta, o artritide che sia (sapete che i medici non sono neanche d'accordo sull'indole del suo male) può aggravarsi di schianto, con ogni commozione un po' forte; tanto che io non gli ho neppur detto una cosa, che ora mi torna a mente. Vedete che smemorato! Ma anch'io ci perdo la testa, con tanti pensieri. E si tratta appunto di voi.

- Di me? - chiese il Fiesco.

- Sì, di voi, che il re Ferdinando ha mandato a cercare.

- A cercar me? e come sa che io dovessi arrivare?

- Cioè; - ripigliò l'Adelantado, - maravigliatevi ch'egli sapesse del vostro arrivo a Segovia; perchè vi ha mandato a cercare, e non qui. Due giorni dopo ch'eravate partito per Siviglia, venne da noi il dottor fisico Villalobos, l'Esculapio di Corte. Che degnazione, non vi pare? Credevo che fosse stato cortesemente mandato a visitar mio fratello; ma quello era l'ultimo pensiero del sommo Villalobos. Si contentò di qualche domanda, e non chiese neanche di vederlo. Mi chiese invece, così di punto in bianco: è giunto da voi altri il signor conte di Lavagna? Sì, gli risposi, non avendo ragione di nasconder la cosa, parendomi savio negarla. Sua Altezza, ripigliò, lo vedrebbe molto volentieri; rammenta sempre di averlo ricevuto due anni fa, al suo ritorno dalla Giamaica; è un amabile cavaliere, e Sua Altezza, che ama molto gl'Italiani, sarà felice di riceverlo. Risposi, naturalmente, di non poter fare così presto l'ambasciata; voi esser venuto in Ispagna per vostre ragioni d'interesse, e solo per l'amicizia vostra col signor Almirante aver mandata innanzi agli affari una visita a Segovia, ma subito esser partito per Cadice, che ne sapevo io? per Granata, o per Malaga, avendo da incontrare certi mercatanti e banchieri del vostro paese. Infine, alla bell'e meglio ho cucite insieme le mie quattro bugie, come un altro Ferdinando; con questa differenza, che le mie erano molto innocenti, sicuramente meno gravi delle sue. Ho soggiunto, s'intende, poichè n'ero richiesto, e non volevo apparire bugiardo poi, che sareste tornato ancora, dopo sbrigate le vostre faccende, a prendere i comandi dal vostro veneratissimo capo, e che in tale incontro vi avrei avvertito del desiderio di Sua Altezza, tanto onorevole per voi, tanto caro, tanto lusinghiero, e chi più n'ha ne metta. -

Il conte Fiesco cascava dalle nuvole: cascava, cascava, e non toccava mai terra.

- Che diamine vorrà egli da me? - chiese egli, stupito. - Parlarmi dell'Almirante, mentre lo ha qui sotto la mano?

- Oh, non credo che si tratti di ciò; - rispose l'Adelantado. - Per quanto gli piaccia mentire, mostrandosi mondo di colpe, puro come un agnellino, di nient'altro dolente che delle esorbitanti pretensioni del signor Almirante Colon, egli non manda di sicuro a cercar la gente a cui versare nel seno le sue giustificazioni.

- Allora?

- Allora, mio caro, voi siete il conte di Lavagna.

- Così poco, don Bartolomeo, così poco, che quasi non m'avviene di ricordarmene; e qui, nella gloria del vostro immortale fratello, meno che mai, ve lo giuro.

- Ma conte di Lavagna restate. E m'è entrato in testa che il re Ferdinando, abbandonato da tanti gentiluomini di qui, vada in busca dei più illustri d'ogni terra. Non siete voi anche nipote di quel Giacomo, che mezzo secolo fa è stato vicerè di Napoli? Ferdinando li conosce, i grandi nomi d'Italia; e vi vorrà alla sua corte.

- Io! starei fresco; - scappò detto al capitano. - Più fresco ch'io non sia già per l'antico soprannome degli avi; - soggiunse, ridendo al bisticcio che gli fioriva spontaneo dal labbro.

- Eppure, chi sa? da cosa nasce cosa....

- E il tempo la governa, volevate dire? Ma non è da uomini gravi almanaccare, quando ci vuol poco a saperne l'intiero.

- Certo, bisognerà andare; e più presto andrete sarà meglio. Non volevate già chiedere udienza, tentando di fare, come dicevate, il vostro giuoco doppio? Ecco che l'occasione vi si presenta; anzi vi è venuta incontro.

- Amico, - rispose il capitano Fiesco, - pensavo bene di destreggiarmi a quel modo, avendo poca sicurezza da una parte e dall'altra. Ora, dopo il colloquio di Siviglia, mi pareva che il meglio fosse di non far più nulla qui, aspettando tutto di Fiandra.

- E neanche a Valladolid sarà male vedere; - ribattè l'Adelantado. - Non foss'altro, per esser ben certi che non c'è nulla da sperare. Di nulla infatti vi parlerà, se non gliene entrate voi stesso. Vi vuole a Corte, credetemi; son volpe vecchia, e gioco che c'indovino.

- Io poi son volpe giovane; - disse di rimando il capitano Fiesco; - ed ho buone gambe, per andargli lontano mille miglia. Gioiosa Guardia mi è troppo cara, e non ci voleva meno di una lettera del signor Almirante, per trarmene fuori. Ma questi non è un re.

- E neanche un vicerè, se i re si rimangiano la parola e la firma; - soggiunse l'Adelantado. - Povero fratello! Io non ho la sua dottrina, vedo in certe cose più in d'una spanna. Egli pensa all'onor suo e del suo nome, e combatte. Io, al posto suo, avrei già mandato tutti e ogni cosa all'inferno. Aver scoperto un mondo nuovo, non è gloria bastante? Si va magari a piantar cavoli, come fece Diocleziano, dopo aver governato l'antico.

- Che non meritava neanche questa scesa di testa; - aggiunse il capitano, spremendo il sugo di tutta la filosofia che aveva imparata nello Studio pavese.

Ma sì; che ubbìa era quella del signor Almirante, di voler essere ricompensato de' suoi servigi? di voler mantenuti i suoi titoli, i suoi diritti, i suoi privilegi? Una bella ingratitudine patita esalta l'eroe, più d'un premio ottenuto. Ma forse egli voleva ben ribadire la ingratitudine di Ferdinando il Cattolico alla gogna della posterità. Nel qual caso, bisogna credere ch'egli avesse ragione, più del fratello don Bartolomeo, del capitano Fiesco e di noi.

Il capitano era giunto alle coste di Spagna meglio in arnese delle altre volte. Potè dunque farsi bello di qualche eleganza, tanto da far dire all'Adelantado: "voi volete, conte Fiesco, dar nell'occhio a Germana di Foix". Rideva il capitano alla celia, ma rideva stentato, pensando ad una visita che faceva di mala voglia. Rideva ancora, rideva giallo, andando la mattina seguente al palazzo reale; rise verde senz'altro, quando, già sicuro di esser rimandato ad altra ora, magari ad un altro giorno, si sentì dire dal gentiluomo di camera:

- Sua Altezza il re vi aspetta, signor conte di Lavagna. Voglia Vostra Eccellenza passare. -

Eccellenza, niente di meno! E infatti, non era egli un conte di Lavagna? e non aveva titolo di Eccellenza l'illustre Gian Aloise? Bartolomeo Fiesco non era neanche a Genova, dove la maggiore autorità del cugino potesse fargli ombra colla sua luce; era in Ispagna, dove la gran luce dell'eccelso parente poteva benissimo riverberarsi da lontano su lui. Accettò dunque l'"eccellenza", e passò.

 

 

 


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