Anton Giulio Barrili
Raggio di Dio
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Capitolo XIX. Quel che s'incontra per via.

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Capitolo XIX.

Quel che s'incontra per via.

 

Mentre il suo grande cittadino moriva negletto, quasi ignorato, nella terra straniera che gli era divenuta seconda patria, ed egualmente ingrata, Genova seguitava a patire delle sue secolari discordie, ad esaltarsene, ad infiammarsene sempre più; pari in questo all'infermo, che si consuma dalla febbre, e nella febbre non avverte più il male onde sarà tratto al sepolcro.

Il male di Genova era antico; e le varie forme di governo con cui, dando volta nel suo letto di dolore, l'inferma aveva sperato di schermirsi, ora coi consoli, ora coi podestà, poscia coi capitani del popolo e coi dogi a vita, finalmente colle dominazioni angioine di Napoli dopo le tedesche, e le francesi dopo le viscontée di Milano, non erano state altrimenti che fasi progressive e crisi violente di quel male. Nobili della schiatta viscontile di Polcevera e nobili d'altre terre di Riviera, alleati coi vescovi, avevano fatto da principio un governo in famiglia, indi costituita una oligarchia prepotente, che escludeva dalle prime magistrature i popolari, tutti mercanti ed artefici. Questi, crescendo di numero, di forze e di credito, avevano ottenuto a forza alcune cariche importanti, senza che per ciò fosse stabilito e riconosciuto nella lor classe un diritto alla partecipazione del governo; e frattanto, quelli di loro che avevano smessi i traffichi e l'arte, ottenendo titolo di cittadini egregi, si stimavano uguali ai nobili possessori di feudi; con alcuni dei quali, aiutando le ricchezze accumulate, riuscivano anche ad imparentarsi. Ma erano sempre tenuti per "tetti appesi",  come a dir case appoggiatesi alle vecchie torri di una gente più antica. Fra questi "tetti appesi" alcune case più cresciute in potenza, e più ancora in audacia, avevano preso a contendersi il ducato, a palleggiarselo tra loro per quasi dugent'anni; ed erano quattro, dette dei Cappellacci per la loro preminenza, cioè a dire Fregosi, Adorni, Guarchi e Montaldi. A lungo andare sopraffatti i due ultimi nomi, erano rimasti in auge i due primi, forti abbastanza per sovvertire con le loro eterne rivalità la repubblica, senza che l'uno riuscisse poi a liberarsi dall'altro. E forse, ai nobili antichi, testimoni della gara e in una certa misura partecipi, non metteva conto che una parte vincesse l'altra del tutto, per farsi poi arbitra e padrona di tutti. Così durarono le lotte dei Cappellacci, con gran danno dello Stato, costretto a cadere in soggezione dei Visconti di Milano, poscia del re di Francia. Il quale, nel patto di dedizione conchiuso in Milano, si obbligava cortesemente alla condizione "che tutti gli onori, benefizi, ed uffici dello stato fossero conferiti ai Genovesi dal governatore e dagli anziani, tenuto conto della varietà dei colori."

I colori, bianco e nero, valevano più poco sulla fine del Quattrocento; anzi, non valevano più affatto come tinta politica di ghibellini e di guelfi. C'erano bianchi e neri tra i nobili; bianchi e neri tra i mercanti e gli artefici, confusi oramai nella denominazione di popolari; ma i nomi di bianchi e di neri significavano piuttosto un certo numero di famiglie già usate al governo, e non disposte ad esserne escluse; e volevano dire che quelle famiglie non dovevano essere dimenticate, nella assegnazione delle cariche. A provar poi che guelfi e ghibellini, e neri e bianchi, non erano più considerati come parti politiche, basti notare che Doria e Spinola, antichi ghibellini, erano pane e cacio sul principio del Cinquecento coi Fieschi e i Grimaldi, antichi, guelfi; e Gian Aloise Fiesco, progenie di Guelfi, e primeggiante allora nella nobiltà genovese, sovveniva del suo danaro le imprese navali di Andrea Doria, nuovo rampollo onegliese della potente casata ghibellina. Nel fatto, con denominazioni vecchie conservate senza ragione politica, durava una lotta antica tra nobili feudali e popolo grasso. E i nobili avevano dimenticate le antiche dissensioni per far causa comune contro i popolari; e questi, non volendo saperne delle loro antiche denominazioni di mercanti ed artefici, si sdegnavano d'esser considerati inferiori a quegli altri, in una città dove oramai avevano esercitate le prime cariche ed ottenute singolari benemerenze.

Frattanto, accadeva di peggio. Violando i patti di Milano, il governatore francese proteggeva i nobili a danno dei popolari; li favoriva in tal guisa, che non più un terzo, ma già la metà dei pubblici onori ed ufizi erano ad essi assegnati. E qui, ápriti cielo! dalle mormorazioni si passava ai lagni; da questi alle invettive. A giustificare il loro diritto, i nobili allegavano i meriti dei lor maggiori, che nel periodo consolare avevano governata la repubblica senza compagnia di popolari. Ma i popolari pronti a ritorcere l'argomento, dicendo che appunto per ciò erano stati cacciati i nobili dal governo; più si doveva tornare ad una ingiustizia, tollerata soltanto finchè il popolo non aveva avuto vita civile, Genova essendo come un feudo del vescovo e del suo parentado viscontile, già collegati dal comune interesse per liberarsi dall'autorità dei conti della marca di Liguria. Quanto a nobiltà vera di sangue, in che superiori i nobili? o progenie di barbari invasori, o piccola gente oscura, che ad essi era venuta abbarbicandosi, senz'altro merito che la cieca servitù! I popolari nati in casa, antico sangue romano, cresciuti nell'operose industrie del mare, educati nelle armi in difesa della patria; onde le grandi imprese, dentro e fuori della repubblica, specie dopo il 1339, col ducato di Simone Boccanegra, erano quasi tutte dovute al valore dei popolari.

Il governatore francese, messer Filippo di Cleves, signore di Ravenstein, tenendo pei nobili antichi, faceva orecchio da mercante; anzi, per non aver da sentire i popolari, se ne andava tranquillamente in Asti. E come avviene spesso negli uffici amministrativi, che quando esce il principale per prendere una boccata d'aria, guizza via il segretario per prenderne due, anche il suo luogotenente Roccabertino colse la buona occasione, per portare un suo reuma in Acqui, a quelle terme salutari. Ma l'acqua bollente ch'egli andava a cercare laggiù, stava per dar di fuori in Genova, dove le due parti si guardavano in cagnesco, e dall'una e dall'altra si faceva gente, per non esser colti alla sprovveduta. Ai popolari si accostava la plebe, gente in gran parte calata dalle ville della Polcevera ai mestieri e alle piccole industrie della città. E i motti pungenti fioccavano; più acerbi ai popolari, che per l'aiuto cercato nelle ville erano chiamati a dispregio i villani. I giovani della nobiltà, che già alcuni anni prima per certa croce degli Zaccaria portata in processione avevano leticato aspramente coi giovani del partito contrario, s'erano fatti fare certi coltelli che portavano con ostentazione alla cintola; e quei coltelli avevano incisa sulla lama una frase minacciosa: "Castiga villani". quei coltelli erano rimasti a lungo inoperosi. Ai motti pungenti succedevano gli scontri, e le stoccate andavano via come il pepe. La città era ogni momento sossopra; i buoni gemevano invano, tra le provocazioni scambievoli e le zuffe continue; la vita di Genova era diventata un inferno.

Poteva egli portarvi rimedio il Paradiso, che giungeva a mezzo luglio nel porto? Ne scese il capitano Fiesco accompagnato dalla contessa Juana e dal frate scudiero; e tutti e tre si recarono ad alloggio dal Passano, che stava appunto in una casa del Fiesco, nella contrada di San Lorenzo. Di , dopo un breve soggiorno, avrebbero proseguito per la Gioiosa Guardia, meta desiderata e riposo al triste viaggio di Spagna. Il capitano Fiesco voleva anche dar sesto a tutte le cose sue, facendo disegno di non spiccarsi più per un pezzo dalle rive del poetico Entella; desiderava inoltre di vedere il magnifico dottore messer Nicolao Oderigo, che del grande Almirante era stato amicissimo, e che certamente avrebbe graditi gli ultimi saluti di lui e udite con profondo rammarico le notizie della sua fine immatura.

Messer Nicolao, famoso dottore di leggi, aveva meritato per la sua dottrina di andar già due volte ambasciatore, la prima nel 1496 al re di Francia, la seconda nel 1501, ai sovrani di Spagna; e in quella occasione aveva conosciuto Cristoforo Colombo, stringendosi a lui di sincera amicizia. In Genova non aveva mai parteggiato. La sua famiglia, di Carminata in Polcevera, era d'artefici, quali ghibellini, quali guelfi in processo di tempo, la più parte speziali e medici, mai disposti a servire, sposando le passioni dei potenti del giorno. Egli stesso era stato amicissimo al capo riconosciuto dei nobili, Gian Aloise Fiesco; e ciò non tolse ch'egli andasse in quell'anno 1506 ambasciatore dei popolari a Luigi XII, come più tardi, nel 1515 e nel 1517 a Francesco I, altro signore invocato dalle miserie di Genova. Era un galantuomo, amante della patria sopra ogni cosa; della patria si occupava continuamente, e ne piangeva i mali insanabili; della patria parlava ancora a messer Bartolomeo Fiesco, dopo aver pianto con lui sulla morte del loro grande concittadino Colombo.

- Povera Genova! - diceva egli. - Povera città così nobile e ricca, così popolosa e forte e gloriosa, condannata a non aver pace mai, neanche sotto le labarde straniere che ha dovuto chiamare per assicurarsi contro le sue stesse follie! E siamo oramai ad uno dei maggiori pericoli che Genova abbia corsi mai, di sfasciarsi, di andare in perdizione. Non per colpa dei Cappellacci, questa volta, che pare impossibile; per colpa dei nobili! Un mese fa, il 18 di giugno, poco mancò non andasse a soqquadro ogni cosa, per l'alterco in piazza de' Banchi, dove il notaio Emanuele Canale, che richiedeva il fatto suo ad un nobile, n'ebbe in pagamento male parole e percosse; onde fu gran rumore, si chiusero le botteghe, e tutti correvano all'armi. Vedete quanta poca scintilla basti oramai a far scoppiare un incendio! La prudenza del podestà, messer Oberto del Solaro, ha potuto sedare questa commozione, col mandare in bando parecchi dei nobili ed uno dei popolari. Ma potrà sempre, il savio Astigiano, contenere questi umori maledetti, più pronti a bollire che non sia il vino del suo paese? E non c'è qualcheduno, nelle nostre mura, che quanto siede più alto tanto più avrebbe obbligo di gittar acqua sul fuoco? Voi indovinate di chi voglio parlare, messer Bartolomeo. Andate voi da Gian Aloise, e ditegli che abbia compassione della sua patria; egli che ha intelletto da conoscere i mali, voglia aver carità da procurare i rimedii. È una fortuna, che siate qui voi. Venuto di fuori, potete dire una parola di cittadino imparziale. Qui ogni giorno si va di male in peggio; e il peggio volgerà anche a danno suo, perchè delle cose turbate non hanno vantaggio coloro che vivono nel quieto possesso della loro autorità: mentre vantaggio verrebbe a lui, se tutti lo vedessero lavorare per la concordia; onde crescerebbe la sua fama di savio, insieme con la sua sicurezza di principe. -

Il consiglio era buono; e per seguirlo, messer Bartolomeo salì quel giorno l'ampia scaléa di Vialata. Trovò raccolti lassù tutti i Fieschi, come in un altro giorno solenne di tre mesi innanzi; ma più accigliati, più torbidi, più inveleniti che mai. Nondimeno, fecero il debito col parente, che ritornava di lontano; e Gian Aloise stette ad udire con molta attenzione le tristi nuove di Valladolid.

- Mi duole; - diss'egli; - mi duole nel profondo dell'anima. Povero signor Almirante! E morire così, senza vedersi restituite le sue sostanze e il suo grado! Ma che cosa poteva aspettarsi di bene da un re come Ferdinando il Cattolico? Gran colpa ha costui, e il mondo ne darà ben severo giudizio.

- Verissimo; - rispose messer Bartolomeo. - Ma per il nostro concittadino Colombo non siamo in colpa un po' tutti? e noi Genovesi prima degli altri? Se questa repubblica fosse stata in pace e padrona di , non avrebbe potuto far essa l'impresa della grande scoperta, ritraendone essa i benefizi? Sarebbe stata ancor essa ingrata con lui; ma dalla patria sua avrebbe egli potuto sopportare anche l'ingratitudine d'un giorno, sicuro della riverenza e della riconoscenza dei secoli. Ma noi eravamo impotenti ad assisterlo; noi sempre in guerra tra noi, e senza speranza di far giudizio mai più. Sento infatti che la pace è fuggita da capo, e che si torna a scivolare nel sangue.

- Ma!... - esclamò Gian Aloise, crollando il capo e stringendosi nelle spalle. - Qui, poi, non è anche un po' vostra la colpa, cugino? Se voi andavate a Pisa, tutto questo non succedeva. -

Bartolomeo Fiesco ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.

- Che c'entra Pisa? - diss'egli, stupito.

- C'entra sicuro. Il gran delitto che ci appongono i villani è di non averla noi voluta soccorrere.

- Ma noi, - replicò il capitano Fiesco, - la soccorrevamo, se mai, per divorarla; e non vedo come di questo potessero stimarsi contenti i popolari.... o i villani, come mi pare dalle vostre parole che si debba dire oramai. Si sta tre mesi fuori, - soggiunse egli, ridendo, - ed ecco che al ritorno si trova cangiata perfino la lingua.

- Fermo, fermo! - gridò Gian Aloise. - Anzi torniamo indietro, fino a quel verbo divorare, che non sarà di lingua nuova, ma certamente parrà insolito in bocca ad un Fiesco. Se credete, bel cugino, di pungerci, v'ingannate a partito.

- E non avevo questa intenzione; - rispose il capitano. - Ho detto "divorare" per "occupare a nostro vantaggio". Non era egli per vantaggio della nostra casata, che voi volevate mandarmi a Pisa?

- -Sicuramente, - replicò Gian Aloise. - Oh vedete il gran male, se chi possiede tutta la riviera di Levante, dall'Appennino al mare, e della Scrivia alla Magra, possedesse anche Pisa! Volevate voi che Pisa fosse posta in balía della nostra eccelsa repubblica, la quale oggi è di Tizio e domani di Sempronio? E non vi parrà giusto che una famiglia da quattrocent'anni intesa a mantenersi uno stato conforme alla sua dignità, cerchi di avere maggior sicurezza del sudato ed insidiato dominio? Andate , bel cugino! ce l'avete fatta grossa, ricusando un ufficio, per il quale (ve lo abbiamo pur confessato, rendendovi giustizia) non c'eravate se non voi. E ci venite oggi a piangere sui mali di cui siete stato la prima cagione? E ci domandate probabilmente di andare in piazza de' Banchi, o sulla scalinata di San Lorenzo, a picchiarci il petto, ad offrir pace, a chieder perdonanza ai nostri nemici? E siete un Fiesco, voi? -

La botta era forte; e messer Bartolomeo balenò un poco, ricevendola. Ancora strinse i pugni, e più i denti, per non dar fuori con troppo amare parole. Dopo un istante di pausa, che parve lungo a tutti, ma che a lui era necessario per vincersi, pacatamente rispose:

- S'io sono un Fiesco, domandate? Per tutt'altri che ne volesse dubitare avrei pronte le prove. A voi, Gian Aloise, tanto più vecchio di me, non ne bisogna nessuna; e voi già, umano e cortese signore, vi pentite in cuor vostro d'avermi fatto ingiuria. Per essere un Fiesco, bisognerebbe dunque non sentir altro che ira di parte? e d'una città che crebbe a grandezza per la santa concordia della compagna giurata, voler fare un patrimonio esclusivo di nobili? Che cosa io pensi dei nobili, e dei popolari, vorrei poterlo dire alle due parti congregate, sulla scalinata di San Lorenzo, dove non c'è da chieder perdonanza a nessuno, ma da dire a tutti la verità. Nobili e popolari, siam pure i gran sciocchi. Un giorno, stanchi e rifiniti, saremo tutti pari nell'impotenza davanti ad una plebe qual si sia, che troverà gusto a sbranarci. Oggi letichiamo per diversità di sangue. Ma che? Essi e noi discendiamo da un barbaro soldato, franco o longobardo, unghero o goto, oppure da un liberto figlio di schiava greca o siriaca, che piacque un'ora al padrone. Nessuno, qui altrove, nessuno, sia pure il più antico nelle cronache, può collegarsi a quella nobiltà romana che prima ha stampato della sua orma il paese. La quale, finalmente, nella sua folle ambizione si mostrava più accorta di noi, non volendo altro alle sue origini che dèi o dee, Marte, Venere, Ercole. I Greci, poi, tutti da Giove; onde fu necessario fare del padre degli Dei un grande scapestrato. Gli antichi, come vedete, avevano modo di nobilitare il sangue, facendolo di qualità diversa dalla comune degli8 uomini. Noi no; tutti di sangue rosso, mortale, di pari composizione; al più al più (lasciatelo dire ad un Fiesco, che ha studiato medicina a Pavia) guastato da qualche umore maligno, per effetto di troppe unioni in famiglia. Ma torniamo al fatto. Quando saranno qui tutti nobili al governo, e i popolari distrutti, o mandati al remo, o legati alla gleba, non avranno i Fieschi da fare i conti coi pari loro, con gli Spinola, ad esempio, coi Grimaldi, coi Doria? E dove andrà allora il bel sogno di una vasta signoría? Vorranno i tre emuli restare amici a noi, come son oggi per necessità, di contro a dugento cinquanta famiglie della fazione popolare? Non troveranno man forte in quella ventina di famiglie nobili della prima classe, o in quell'altra ventina della seconda, per costringerci un giorno o l'altro a lasciare il troppo largo dominio? e non solamente quello che voi possedete per autorità di vicario, ma ancora quello che possedete per diritto feudale? Una cosa potrebbe pure tirar l'altra, cadendo, e tutte rovesciarsi ad un modo. vi parrebbe più saggio che una famiglia, giunta per fortuna al colmo della potenza, regnasse invidiata e sicura nella mediocrità forzata di trecento, fra maggiori e minori, di nobili, di mercanti, d'artefici, tutti ammessi alle medesime cariche, uffici ed onori? Ma questo appartiene all'arte di governo, ed io non ne sono maestro. Perdonate, eccelso cugino, la mia intemerata. Non lo farò più, come è vero che sono un Fiesco. E da Fiesco d'onore vi prometto che fin dove giunga il mio braccio, saprò far rispettare questo nome onorato, che ho comune con voi.

- Abbiatelo forte, quel braccio! - ribattè Gian Aloise, con accento sarcastico. - Abbiatelo tanto più forte, quanto più volete esser solo, mentre spira un'aria così poco favorevole ai nostri, in questa disgraziata città. È l'augurio d'un parente che vi ama, ad onta delle vostre.... Come chiamarle?... Mi lascerete dir bizzarríe?

- Dite pure stravaganze; - rispose il capitano Fiesco. - Tutto sopporterò di buon grado, fuorchè la taccia di debolezza e viltà. -

Salutò, detto questo, e se ne andò invelenito; tanto invelenito, che non chiese nemmeno licenza di andare ad ossequiare madonna Caterina.

Uscito dal palazzo, e fatti in un minuto i cento gradini della cordonata famosa, voltò a manca, per non dover risalire da Rivalta a porta Soprana, luogo troppo affollato. Più libera la via verso quel tratto della spiaggia che gli eruditi del tempo avevano già incominciata a chiamare il seno di Giano; liberissima e tranquilla sotto i suoi occhi la distesa del mare turchino, su cui sonnecchiava col capo un po' inclinato a levante il maestoso scoglio Campana, vecchio testimone di tante sfilate trionfali del naviglio genovese, dallo stolo di Terrasanta ai ritorni della Meloria, di Portolongo e di Ponza. Lo scoglio Campana era un suo grande amico, fin dagli anni lontani della sua adolescenza; col quale, o davanti al quale, era uso meditare sulle passate grandezze della patria; e quella volta il capitano Fiesco, masticando male una frase del suo eccelso cugino Gian Alvise, non degnò il vecchio amico neppure d'uno sguardo fuggevole, mentre saliva per Campo Pisano all'erta di Sarzano. Sempre borbottando e sbuffando, dai fianchi dell'antico Castello, sede e baluardo del municipio Genuate, già da un pezzo convertito in un ceppo di conventi e di chiese, calò verso le case degli Embriaci, donde, girando attorno a quelle dei Giustiniani, voleva difilarsi a San Lorenzo, dove sorgevano quelle dei Fieschi.

Gran gente fin allora non aveva incontrato: fra conventi, chiese e palazzi che parevano fortezze, in un quartiere alto, donde la città era presto calata a distendersi nel piano verso ponente, non era il caso di trovar banchi o botteghe, per conseguenza la calca delle strade operose. Un po' di animazione incominciava dai Giustiniani; il brulichio della folla lo aspettava nella contrada e nella piazza del duomo di San Lorenzo. Colà si accoglieva in gran parte la vita cittadina; colà nei primi secoli dopo il Mille si adunava il popolo a parlamento; colà il Cintraco, venendo dal Palazzo del Comune, che sorgeva alle spalle del Duomo, veniva a leggere i bandi dei consoli. E colà, cessati gli uffici politici della storica piazza, si adunavano ancora i cittadini a conversare, magari a far baccano, sommosse e principio di rivoluzioni; colà, finalmente, come è sempre avvenuto intorno alla casa di Dio, fin dai tempi di Cristo, si teneva un po' di mercato.

In quella calca doveva cacciarsi il capitano Fiesco per riuscire a casa sua. La pazienza non era il suo forte, a dir vero; ma egli, in momenti quieti e ad animo riposato, sapeva dominarsi col raziocinio, che gli suggeriva le frasi della cortesia non ancora stizzita: "vi prego.... con licenza, cittadini.... scusate, amico", e lo aiutava a passare. Ma i momenti non erano quieti, per allora, egli aveva l'animo riposato; ed egli e quel popolo, tra cui si cacciava, erano in uno dei loro giorni più cattivi; e mal volentieri si scomodava la folla per lasciarlo passare; ed egli, coll'amaro in corpo, non si sentiva di far bocca dolce.

Frattanto, correvano intorno a lui certi discorsi, che non erano fatti per rabbonirlo. - Fallatutti, ci siamo? - È giusta di sale. - Bisogna scodellarla. - Magari! è ora di finirla. - Vedremo al friggere, se saran pesci o anguille. - Giù dalle gronde, i gatti, e vivano le cappette. -

Il gatto era emblema araldico dei Fieschi, insieme col drago, detto anche basilisco. E per l'ora corrente, essendo i Fieschi a capo della nobiltà, l'accennare al gatto era un intendere tutta la genía dei nobili. Quanto alle cappette, si alludeva con questo nome al popolino. "Erano poverissima gente (lasciò scritto negli Annali di Genova monsignor Giustiniani), artigiani e servitori di artigiani mal vestiti, con le calze di tela e con una stretta e cattiva cappa; perciò furono nominati cappette".

Più in era un crocchio di ragionatori più sodi, ma non meno sediziosi. - Ve l'ho a dire, cittadini? La va come sulle galere. Si può disputare del più e del meno finchè il nemico è lontano: ma quando il cómito ha gridato arme in coperta, non c'è più da discorrere; da poppa e da prora, all'arrembata e all'impavesata, ogni uomo prende il suo posto di combattimento. E non si parli di pace, mentre siamo venuti a mezza lama. O loro o noi, qualcheduno ha da andare di sotto.

- Bravo! - pensò il Fiesco. - Questo si chiama ragionare; ed anche insegna a sragionare. -

Frattanto lavorava di gomiti, per avanzare di qualche passo verso il suo tratto di strada. Ma intoppò in due che gli voltavano le spalle, e non si davano per intesi delle sue sollecitazioni. Si rammentò allora d'un bel giuoco, che gli era tante volte riuscito con amici per via. Toccò leggermente uno di quei due sulla spalla sinistra, e l'altro sulla spalla destra. Si voltarono ambedue, ognuno dalla parte dove si sentiva toccato; così, senza volerlo, gli fecero posto, ed egli guizzò lestamente nel mezzo. S'intende che avvedutisi dell'artifizio, non volevano tollerare la celia.

- Fate largo! è qua lui! - gridarono, con accento di scherno donde trapelava la collera.

- Lui! chi, lui? - gridò egli a sua volta, fermandosi a guardarli.

S'era voltato a deboli avversarii, o mal preparati all'attacco. Non rifiatarono; anzi, pareva che non dicesse a loro. Ond'egli era già per ripigliar cammino, quando all'orlo della gradinata di San Lorenzo, e sotto alla famosa statua che porta il nome dell'Arrotino, vide un omaccione dalle spalle quadre e dal collo erculeo, che lo guardava a squarciasacco. Ed anche lo udì, che diceva ad un vicino: "bisogna insegnargli, a questi prepotenti". La guardata, l'atteggiamento, le parole di quell'uomo, gli dettero noia. E forse non era da farne caso, potendo quelle parole non esser dette per lui; ma egli, come attratto dal pericolo, si avvicinò d'un passo, per sentire dell'altro. Frattanto, eccogli tra' piedi un contadino della Polcevera, che mettendogli sotto il naso un canestro di ceppatelli di macchia, gli grida coll'accento largo e spaccato della sua valle:

- Vitella di bosco! vitella di bosco! -

Fece un gesto di persona seccata, torcendo il capo, ma ancora tendendo l'orecchio per sentire quell'altro. E il contadino ripigliava, insistente come un moscone:

- Ma li guardi, come son belli! non par che dicano: mangiami? -

Non sapendo come liberarsene, domandò il prezzo: ma ancora e sempre guardava il suo nonno.

- Per Vostra Signoria, quattro soldi la libbra. -

Quattro soldi! Facciamo ad intenderci. Il soldo era la ventesima parte della lira: ma la lira genovese d'allora valeva tre lire e quattro centesimi della nostra moneta d'oggidì; il soldo valeva dunque un po' più di quindici centesimi dei nostri; e ciò senza contare il ragguaglio diverso fra la derrata e la moneta d'allora.

- Troppo cari; - notò il capitano.

- Eh, per lor signori!...

- Troppo cari, grazie!

- Grazie! - ripetè il contadino. - E ci ho perso il mio fiato, per un grazie della sua bella bocca. Vedete un po' voi, Ghiglione! - proseguì, volgendosi all'omaccione dalla torva guardatura. - Ma già, con questi signori morti di fame non c'è altro da aspettarsi.

- No, caro, c'è dell'altro! - rispose il Fiesco, non vedendoci più lume.

E voltatosi di schianto, gli sferrò a pugno chiuso un tal colpo sul mostaccio, che lo mandò rovescioni sull'orlo della gradinata.

Fu un putiferio. Quell'altro, levatosi con la faccia tutta sanguinante, a gridare: così trattano i signori, spalleggiati dal re di Francia! E l'omaccione dal canto suo: già bella prodezza, contro la povera gente! ma non son chi sono, se non gli metto le budella al collo!

E brandiva uno spiedo, che portava appeso alla cintola. Un macellaio! Fosse pure; ma non aveva per quella volta un agnello da scannare, un bue da accoppare.

- Bravo, Ghiglione! Dàlli, al gatto! dàlli! -

Il capitano Fiesco aveva pronto e sicuro il sentimento delle grandi occasioni. Era in ballo, voleva ballar bene. Per intanto, con un calcio poderoso cacciò indietro parecchi, facendosi largo quanto bastasse per isguainare la spada. Come l'ebbe in pugno, la menò attorno con forza; e chi ne toccasse, suo danno.

- Questa val più del tuo spiedo! - gridò, tirandone un colpo al minaccioso avversario, a cui cadde l'arma dal pugno.

- Popolo! popolo! - si vociava d'ogni parte. - È un nobile che fa il prepotente. Dàlli al gatto! morte al gatto!

- Che gatto? - si rispondeva. - Che morte? E non è ancor preso, il gatto! e lavora assai bene con l'unghie! A noi! a noi! -

Queste voci venivano dall'alto della strada. E colle voci i ferri; e davanti ai ferri si apriva la calca, bestemmiando, piangendo, urlando, gridando misericordia.

Messer Bartolomeo s'era fatto intorno un gran cerchio. La sua spada, non tagliando più, per aver perso il filo, lacerava e ammaccava. E mentre lavorava così di puntate e manrovesci, stava coll'occhio attento ad ogni moto della folla; e a chi, col coltello nel pugno, strisciando a terra s'ingegnava di venirgli sotto, allungava pedate, più forti ancora dei colpi di spada.

- Eccolo qui, il gatto! prendetelo, se vi riesce, mascalzoni! - gridava.

E giù fendenti, giù manrovesci e puntate, quello che gli veniva meglio, facendo fronte da tutti i lati, con le mani e coi piedi. Certo, non poteva durar lungamente così. Ma durò tanto, che il soccorso gli venne. Da tutte le case vicine avevano veduto il tafferuglio: erano case di nobili, e in gran parte della gente dei Fieschi. Tutti quei cavalieri avevano afferrate le armi, scendevano sulla strada, e ancora il capitano Fiesco non aveva toccato altro che qualche scalfittura, quando gli giunse man forte, e primo fra tutti il frate scudiero, che per far più svelto aveva scalato una doppia fila di spalle, trattandole come spaldi nemici; dond'era balzato nel vallo con la spada sguainata. Altro che gatto! quello era stato peggio d'una tigre.

- Ben venuto in refettorio! - gli disse il capitano, ripigliando il suo buon umore. - Ce n'è ancora una scodella per te, frate Alessandro.

- Che! arrivo tardi; - rispose il frate scudiero. - Non vedete come scappano?

- Per andar fuori del tiro, sì; ma ora voleranno sassi, mio caro.

- E allora sotto, prima che pensino a farci fare la fine di Golía.

- Sì, sotto, sotto! - gridarono i cavalieri venuti in soccorso. - Ma da che parte si comincia?

- Di qua! - rispose il capitano, additando verso il coro della chiesa. - Si faticherà di più, risalendo la strada; ma avremo libere le case nostre, e ci saremo anche accostati al palazzo del governatore. Messer Roccabertino non vorrà mica starsene con le mani alla cintola. -

Consigliava bene, il capitano Fiesco. E la caccia, incominciata di , ebbe l'effetto di spinger la folla sotto gli arcieri della guardia, già usciti dal palazzo al rumore della zuffa. Messer Roccabertino (ritornato da Acqui, manco male!) occupò con la sua gente il campo di battaglia. Non c'erano morti; ma i feriti abbondavano. E furono rimandati alle case loro quei che potevano andarci; gli altri portati a braccia, aiutando gli stessi cittadini, che per tal modo si levarono più presto di . Mezz'ora dopo, tranne le chiazze di sangue che imbrattavano il selciato, si vedeva piazza pulita.

Sciolto l'assembramento, e chetate alla meglio le ire cittadine, venne la volta di una severa inchiesta. L'inchiesta, si sa, è sempre severa. Il capitano Fiesco, eroe della giornata, non aveva nulla da nascondere; narrò tutto per filo e per segno. dal suo racconto dissentì troppo quello che narrava il Ghiglione, mostrando il suo braccio affettato. Il naso rotto del Polceverasco era andato a farsi ristagnare il sangue alla fontana di Soziglia, fu il caso di chiamarlo in giudizio. Degli altri feriti la prudenza del luogotenente aveva anticipatamente sottratti a quel sommario processo i guasti e le querele. La giornata era tutta a vantaggio dei Fieschi; e i Fieschi, amici del governo di Francia, non si potevano trattar troppo male; tanto più ch'erano stati provocati. Anche l'eccelso Gian Aloise, avvertito in fretta dell'accaduto, era sceso dalla sua ròcca di Vialata con un drappello di cavalieri, e portava a palazzo il peso della sua autorità. Raccomandava anch'egli concordia; voleva anch'egli giustizia; ma sopra tutto che si levasse ogni argomento di nuove dissensioni in città, insegnando a tutti il rispetto delle leggi. Intanto lodava il cugino, che non si era lasciato sopraffare, mostrando come i Fieschi si sapessero guardare da contro le violenze dei mascalzoni.

- Per avventura, cugino Bartolomeo, - diceva egli sottovoce al valoroso parente, mettendogli l'eccelsa mano sulla spalla, - sono stato io, con certe parole un po' matte, che vi ho fatto saltar la mosca al naso? E non mi pento di averle dette, se mai. Per opera vostra sapranno i villani che a toccare i Fieschi ci si scottan le dita. -

Il capitano Fiesco sorrise, pensando che proprio a lui, nemico giurato d'ogni discordia, era toccato di dare il mal esempio alle turbe. Ma in verità, lo avevano tirato pei capelli.

A proposito di esempi, ce ne voleva uno, e terribile. Il luogotenente Roccabertino non ebbe ritegno a darlo, sbandendo dalla città il conte Bartolomeo Fiesco e il macellaio Ghiglione. Era la giustizia, sebbene attenuata di molto, del cadì d'Alicante, di burlesca memoria, che sentiva attentamente le ragioni dell'ebreo e quelle del cristiano; poi, chiunque avesse ragione dei due, faceva somministrar loro venticinque legnate per uno. Il Roccabertino, sangue spagnuolo, non arabo, sopprimeva le legnate, contentandosi di bandir le due parti. Per altro, non si fidassero troppo della sua grande bontà; a chi rompesse il bando era minacciata la morte. E con ragione; che i banditi del mese innanzi rientravano tutte le sere in città, e la giustizia n'aveva avuto uno smacco.

- Intendiamoci, dunque; - diceva il signor luogotenente, nell'atto di scendere dal suo tribunale. - Chi rompe paga; e a chi rompe il bando, è pena la testa.

- Per quel che mi risguarda, non dubitate; - rispose il capitano Fiesco. - Parto oggi stesso, e vado lontano, molto lontano, a condir con le lagrime il duro pane dell'esule.

- Sta bene, sta bene; - borbottò il Roccabertino, passandogli accanto accigliato.

Ma sotto voce aggiungeva:

- A Gioiosa Guardia, non è vero? Così potessi seguirvi! -

 

 

 





8      Nell'originale "dagli". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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