Renato Fucini
Foglie al vento

PRIMI RICORDI

MIA NASCITA E INFANZIA(dal 1843 al 1849)

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PRIMI RICORDI

 



 

 

 

 

MIA NASCITA E INFANZIA(dal 1843 al 1849)

 

 

 

Se mi accingo a scrivere i ricordi della mia vita, non lo faccio per vedere attoniti e a bocca spalancata i popoli del globo al racconto delle mie gesta. Per ingannare la noia dolorosa del momento, della stagione e della solitudine, incomincio a vergare questi ricordi oggi 8 Febbraio 1902 a ore 9 della mattina, qui in Dianella dove mi trovo ad assistere mia madre, gravemente ammalata. In questo giorno ho sulle spalle cinquantotto anni e sei mesi precisi. La salute e gli interessi mi vanno bene; tutto il resto, male. Piove e vuol piovere. Non avendo modo di metterci un riparo, lasciamo piovere e tiriamo innanzi. Me ne guardi Iddio! Per grazia sua e per volontà mia conosco quanto valgo, e il sangue di Dulcamara non è entrato neanche per una goccia a scaldare le mie vene.

Scrivo per voi soli, nipotini miei, scrivo per voi perchè, diventati adulti e sentendo parlare da qualche amico superstite di questo nonno al quale tanta gente ha voluto tanto bene, possiate almeno correggerlo in qualche sbaglio di nomi o di date; e scrivo anche per voi. perchè so che dagli avvenimenti della vita di un uomo, chiunque esso sia, vi è sempre qualche cosa da imparare.

Da Giovanna Nardi e dal dott. David Fucini, nacqui al tocco di mattina del 8 Aprile 1843, in Monterotondo della Maremma Grossetana presso Massa Marittima. Mio padre, giovane di 25 anni, uscito quasi allora dall'Università di Pisa, si trovava come medico della Commissione Sanitaria governativa per la cura delle febbri malariche.

Sento dire che appena nato ero un discreto rotolo di carne rosea e promettente, ma che poi detti in ciampanelle perchè, essendo mia madre alquanto scarsa di latte, e per l'impossibilità di trovarmi una buona balia, ebbi a saziarmi sui primi tempitrasportato spesso di qua e di a scorciare il desinare dei miei coetanei — sulle braccia delle più floride mamme del paese, le quali, con pietosa carità, mi porgevano, una dopo l'altra, l'abbondanza dei loro seni ricolmi.

Un'altra grave botta toccò al mio gracile corpicino da una fiera polmonite che all'età di sei mesi mi portò quasi alla fossa, e per la quale i miei genitori ebbero a piangermi come morto, poichè una emorragia sopraggiuntami dalle ferite delle mignatte, e arrestata a stento con l'applicazione di bottoni infuocati sulle ferite (dei quali porto ancora le tracce sul petto), mi lasciò senza flato e senza sangue.

L'igiene, per fortuna, non aveva fatto a quei tempi i passi di gigante che ha fatto oggi, e per conseguenza mi ricostituii presto e solidamente.

Le pappe agliosamente antielmintiche che si sostituirono forse troppo presto al latte delle mie varie nutrici, l'ossigeno di quei monti selvosi e l'alito del mare vicino fecero quello che dovevano fare, e fu salvato alla patria questo prezioso rampollo, senza del quale chi sa se anche voi sareste stati, prima ad ascoltare le sue novelle nel canto del fuoco a Dianella, poi a leggere, come fate ora, queste pagine.

Poco io so dei miei primissimi anni, e poco importa il saperne. So che, dopo qualche mese, passai con la famiglia, da Monterotondo a Campiglia dove stetti fino all'età di cinque anni.

Di Campiglia mi rammento bene come se ne fossi venuto via ora dopo un soggiorno di molti anni, ed ho fresco e lieto il ricordo di persone amiche e di piccoli e grossi avvenimenti accaduti a me e in paese.

I piccoli avvenimenti, quelli che accadono a tutti i bambini: stincature, capate, ruzzoloni, strilli, sculaccioni, baruffe e punizioni fra le quali terribile quella di esser messo a mangiare in disparte, seduto sopra un basso panchetto e per mensa una seggiola, fulminato dagli occhi di mio padre, allegro e burlone, il quale, quando si trattava di dovermi punire per mancanze che sapessero di cuore cattivo, non ne lasciava passare una ed era inesorabile. Sante, sacrosante lezioni che mi sono bastate per tutta la vita e che hanno valso a tenermi fino da vecchio, umile, timoroso e dimesso come un bambino dinanzi al rigido sguardo di mio padre.

Ho in mente che fino da quei giorni lontani cominciò a svilupparsi in me, innato e fecondo, il sentimento della natura, quel sentimento per il quale io non ho mai conosciuto la noia. Un filo d'erba mosso dal vento, un ragno faticante intorno alla sua tela, come il frastuono d'una burrasca infuocata o il silenzioso fioccare della neve erano buoni a distrarmi allora dai miei più giocondi passatempi, come sono buoni ora a farmi dimenticare i più gravi affanni della vita.

Anche quella confidenza e quell'amore degli animali, per il quale anche oggi mi par deserta una casa se non v'è un cane, un gatto o almeno un uccellino, data la sua origine da quel tempo felice. Con mio padre cacciatore appassionatissimo e amico di cacciatori più appassionati di lui, i cani furono i primi e più cari amici miei ed anche i più sicuri e fedeli, perchè se dagli uomini ho avuto qualche morso, dai cani non ne ho avuti mai.

E non solamente i cani e gli uccelli erano amici miei, ma anche tutti gli altri animali, anche se ributtanti o pericolosi. Per modo che, dilettandomi e litigando con chi me ne avesse fatto rimprovero, avevo sempre tra le mani o ranocchi, o serpi o lucertole che acchiappavo e portavo a casa, nascondendoli alla vista di tutti, — fuori che a quella di mia madre, amica come me di ogni essere animato, — per non essere disturbato da chi mi stava dintorno. Soltanto i ragni e gli scorpioni non hanno mai trovato posto fra le mie simpatie.

Da quei giorni e da questa passione data il primo grave dolore della mia vita.

Una mattina mio padre mi fece vedere un povero topolino preso nella trappola. Me lo mostrava non per mettermi su contro quel malcapitato animaluccio, ma per toccare di compassione il mio cuore di bambino, commovendomi fino alle lacrime sulla misera sorte toccata, per l'ingordigia, a quella timida bestiolina.

E fui preso da tanta pietà che mi raccomandai e facilmente ottenni di liberarlo dalla morte e di prenderlo sotto la mia protezione.

Presto il topo fu addomesticato e diventò il mio compagno inseparabile, mangiando accanto a me le briciole seminate sulla tovaglia, venendo meco a spasso, accucciato sopra una spalla o rimpiattato in una tasca del mio giubbetto, e dormendo con me nel mio letto, al calduccio delle mie gote o dei miei capelli.

Nonostante il bene reciproco che ci volevamo, dovemmo separarci presto, male e per sempre.

Uscito una mattina in compagnia della donna di servizio per fare la spesa, entrammo in una di quelle botteghe piene di tutto come arsenali e dove si vende d'ogni ben di Dio. Il topolino mi stava accucciato sopra una spalla, quando una donnicciola, che aveva in collo il suo bambino, fu presa da tanto terrore alla vista di quell'innocuo animaluzzo che mandò uno strillo disperato e dette al povero topolino una tal botta con un cencio che teneva in mano, da scagliarlo di volo nel fondo della vasta bottega dove più folti erano ammonticati ingombri e ciarpami d'ogni sorta, e in mezzo a quelli il mio povero amico si rimpiattò, senza che fosse più possibile ritrovarlo.

Piansi di dolore, ma più forte piansi di rabbia per le canzonature che mi toccarono e per il baccano e le stupide risiate del branco d'idioti che si trovavano presenti alla scena e di quelli accorsi al rumore. Mia madre sola mi capì e pianse con me, confortandomi di parole amorose e di baci.

Un giorno, or sono pochi anni, trovandomi a Firenze, in casa Billi, col Carducci, e ricordando la nostra infanzia in Maremma, egli mi raccontò di un giovane lupo da lui addomesticato a Bolgheri. «Anche a quel tempoosservai — sebbene simbolicamente, era già segnata la distanza che passava tra noi. Io, il piccolo e timido roditore delle soffitte; tu, la libera fiera delle foreste e dei monti». Il Carducci mi sorrise benevolo, io sorrisi benevolo a lui, fra la schietta allegria degli amici presenti.

Io gli aveva letto, poco avanti, alcuni miei scrittarelli in prosa; egli ci aveva detto le strofe meravigliose della canzone di Legnano....

Molte piccole cose di quel tempo mi ricorrono fresche alla mente; ma non importanti per me che come dolci e lontani ricordi.

Tremo ancora alla visione di una traversata, pericolosa di naufragio, che facemmo, dell'Ombrone in piena, tutta la mia famiglia e un cane che non voleva star fermo, nell'augusta e fragile barca. Sento ancora i pianti e le disperazioni di un guidatore inesperto il quale, conducendo mia madre e me da Campiglia a Pereta, ci fece ruzzolar tutti giù per una precipitosa discesa, ma, per fortuna, senza danno d'altri che del povero cavallo, il quale poté appena condurci a destinazione di passo e zoppicando. In quel frangente, io che non volevo star fermo in terra e che imbrogliavo il vetturale, un pecoraio e mia madre che gli davano mano a riparare alla peggio i danni prodotti dal ruzzolone, fui calato in fondo a una fossa dalla quale non potevo uscire per la ripidità dei cigli, e rimasi a berciare per un pezzo; poi mi consolai nella compagnia di un agnello che mi fu calato giù per quietarmi. Ricordo anche il primo spavento alla vista di un cinghiale morto, caricato sulla groppa d'un somaro, quando andai incontro al mio babbo che tornava da una cacciarella nei dintorni di Pereta; spavento che si cambiò presto per me in una specie di trionfo selvaggio quando, persuaso da mio padre e da' suoi amici che per un bambino forte e coraggioso com'ero io faceva vergogna tutto quel ribrezzo, mi lasciai mettere in groppa al somaro e feci il mio ingresso solenne in paese, reggendomi pauroso alle setole di quel povero animalaccio e gridando e chiamando tutti i miei compagni ad ammirare le zanne bianche e la mia eroica bravura.

Gli amici di mio padre mi avevano chiamato bambino forte e coraggioso; ma la forza non entrò nelle mie membra se non da adulto quando la vita di cacciatore e di alpinista indipendente me le ebbero fortificate. A quei giorni ero pallido, magrolino e malaticcio. Tanto che mio padre, nelle quattro stagioni estive che passammo a Campiglia, mi menava spesso al mare di San Vincenzo a tuffarmi in quelle acque e a rotolarmi nella rena. Seduto in groppa del cavallo e abbracciato alla vita di mio padre, fortissimo e ardito cavalcatore, percorrevo in quel modo le quattro o cinque miglia fra Campiglia e San Vincenzo, la mattina, e nello stesso modo le ripercorrevo la sera, dando sangue e allegria, alla mia gracile personcina, attraversando poggi e valli allora deserte e selvose e ora, pur troppo! sterpate, riquadrate, fossate e piene di voci umane che sono sostituito al gracchiare malinconico dei corvi e al rauco mugghio dei bufali selvaggi.

Quale disastro per la idillica poesia di quei luoghi! Disastro che può esser perdonato ai vandali che lo consumarono, primo fra tutti il vecchio granduca Leopoldo II, solamente pensando che la febbre, la gialla e panciuta, regina delle sterminate bassure palustri fra i poggi e il mare, ha ceduto il posto per sempre alla salute e alla vita.

Altri dolci ed, ahi, troppo lontani ricordi! A Campiglia, all'età di quattro anni, fui messo ad imparare a leggere, scrivere e far di conto. Fu mio maestro un certo Giuseppe Barzacchini prete, anima antica per onestà di azioni, per amore della sua famiglia e per saldezza di sensi liberali. Rare virtù di uomo e di cittadino che, dopo repressi i santi entusiasmi del 1848, egli dovette pagare soffrendo barbare e lunghe persecuzioni d'ogni maniera e dovendo da ultimo emigrare dal luogo natìo, abbandonando la casa paterna, i comodi di una piccola ma sufficiente agiatezza, gli amici, le antiche e dolci consuetudini, e fuggire in esilio, piangendo nel cuore la perdita di un fratello morto fra i volontari a Curtatone e tremando per la vita di una sorella ammalata che poco tempo dopo gli morì a Firenze, dove egli si era ritirato a vivere oscuro e dimenticato, dando lezioni di lingua per campare.

Le strane combinazioni delle vicende umane! Don Giuseppe Barzacchini, fu, nel suo esilio, il primo maestro di una bambina che si chiamava Emma Roster, la quale diventò poi la buona, la virtuosa, la fedele compagna della mia vita.

Quando io fui mandato a scuola dal Barzacchini, verso la fine del 1847, incominciava a spuntare all'orizzonte l'epica luce della seconda rivoluzione d'Italia. Incominciavano allora le prime ansie, i primi sospiri, le prime lacrime di speranza sugli occhi degli amici d'Italia, fra i quali, esaltato e bollente, mio padre la cui casa diventò un centro infuocato di cospirazione rivoluzionaria.

Di quei giorni e di quelli che succedettero per tutto l'anno 1848, ho ricordi confusi e annebbiati; ma da quei ricordi, accoppiati con quelli più lucidi dopo la restaurazione del governo granducale, mi sento nutrito e forte di tanto d'amor di patria che, chi non ha vissuto, sia pure incoscientemente, anche per pochi giorni quella vita di entusiasmi fino al delirio, inutilmente lo cercherebbe fra le gelide pagine della storia!

La potenza di quelle memorie! Un giorno mio padre, a Dianella, dopo cinquanta anni circa da quei fatti e avendone egli ottanta di età, sedeva solo a tavola cenando, secondo il suo costume, molto presto per non andare a letto grave di cibo. Nella stanza dove si trovava un pianoforte, era riunita parte della famiglia a tenergli compagnia. Una delle mie figliole si mise distrattamente dinanzi al pianoforte ed accennò, forse pensando di incontrare il gusto del nonno, alla musica di un inno del '48; se non m'inganno, quello che incomincia con le parole:

Giovani ardenti

D'italico amore....

 

Ad un tratto quel vecchio robusto e vigorosamente agguerrito contro le forti commozioni dell'animo, posò il capo sulla tavola e dette in uno scoppio di singhiozzi e di lacrime. Corremmo intorno a lui spauriti, credendo a un male improvviso. Non era nulla. Toccato da quella musica che gli suscitava nel cuore tanti dolci e sublimi ricordi, piangeva commosso di tenerezza.

O giovani che mi leggete, non vi dirò: commovetevi e piangete anche voi. Conoscendo le vostre anime vi dirò soltanto: guardate se almeno vi riesce di non ridere del pianto di questo vecchio italiano.

Di quei giorni, come sopra ho detto, ho ricordi confusi e annebbiati. Sento delle grida, vedo sul petto della gente coccarde tricolori, vedo bandiere che sventolano al sole, vedo gruppi fantastici di donne e di uomini vestiti in strane fogge ballare sulla piazza maggiore di Campiglia, al lume delle fiaccole, intorno a un albero infiorato.

Sento voci che cantano e, fra quelle voci, la voce di mio padre, di mia madre e la mia che si levava argentina sopra il frastuono assordante di strumenti e di campane. Sento il caldo dei baci che tutti mi davano, palleggiandomi e strappandomi l'uno dalle braccia dell'altro, e rammento le notti fatte insonni dal pensiero di nuove allegrie per il giorno seguente.

Mi ricordo di gite a piedi fra i boschi e attraverso al mare di Piombino in battello, per portare il saluto dei fratelli agli abitanti dei paesi vicini e a quelli dell'isola d'Elba; e mi ricordo del luccicare di sciabole e di fucili e di mio padre partente volontario per i campi lombardi fra una brigata di giovani ardimentosi e spavaldi, e delle lagrime e delle grida d'addio che si alzavano dal popolo festante in mezzo alla strada e scendevano dalle finestre che brillavano di visi, di bandiere, di fiori e di fazzoletti sventolanti nell'aria.

Ma tutto svanì presto come una calda nuvola accesi! di rosso dissipata dal ghiaccio vento di tramontana. Un anno dopo, nel 1849, non erano rimaste nemmeno le ceneri, di questo incendio. La restaurazione del governo granducale, l'invasione austriaca, gl'imprigionamenti, gli esili e in qualche luogo le paterne fucilazioni dei più caldi fautori di libertà, avevano spento brutalmente e (si credeva allora) per sempre tanto tesoro di fiamma e di luce nel cuore dei patriotti italiani.

Quanta desolazione; quante infamie e quante vendette!

Anche mio padre non fu dimenticato dai generosi restauratori dell'ordine. Per decreto granducale fu destituito dal pericoloso ma ben remunerato impiego ed ebbe a scappare da Campiglia dove pochi retrogradi idioti presero il campo e lo tennero senza contrasto.

Qualche giorno prima della nostra partenza, gli Austriaci, con un esercito di trentamila uomini, assalirono e presero la città di Livorno, la sola città toscana, dopo la piccola e generosa Pistoia, che chiuse eroicamente le sue porte in faccia all'esercito di quello che era allora il più potente impero del mondo. Che tristi giorni furono quelli! Ne giudicavo allora dallo squallore della mia casa, dal silenzio, dai sospiri e dagli occhi rossi di lacrime dei miei genitori.

Della scena che narro, sebbene fossi allora bambino di cinque anni, ho ricordo netto come se l'avessi dinanzi agli occhi.

La sera innanzi che incominciasse il bombardamento di Livorno, se n'era sparsa sommessamente per Campiglia la voce. Grandi e provocanti esultanze dei codini; rassegnazione e spasimoso silenzio dei liberali.

Un esiguo gruppo di questi ultimi, fra i quali mio padre, fissarono di partire la notte per la cima del Monte Calvi, un monte che alza il suo cocuzzolo nudo e pietroso dinanzi al mare aperto e dal quale, se il vento avesse favorito, si sarebbe udita la romba del combattimento. E il vento favorì il gruppo dei desolati i quali, seduti qua e , coi gomiti su le ginocchia e la fronte fra le mani, aspettavano taciturni e sospirosi la voce funesta del cannone, che fra poco avrebbe dovuto farsi sentire.

Io mi guardavo intorno spaurito, stando accucciato sulle ginocchia di mia madre, mentre mi tenevo strinta al petto una nidiata di merli che uno della comitiva mi aveva regalata lungo la via. E quella voce non tardò a farsi sentire. Al rumore della prima cannonata, che arrivò sordo sordo lungo la marina, un lampo di speranza brillò sul pallore di quelle facce desolate. Tutti si buttarono in ginocchio a baciare la terra, esclamando: «Italia, Italia mia!», e, rialzatisi, si fusero in un gruppo stretto, abbracciandosi, piangendo e raccomandandosi a Dio per la salvezza di Livorno. A quella scena, scordando i miei merlotti che con le bocche gialle spalancate mi chiedevano soccorso, mi sentii commosso, mi voltai a guardare in viso mia madre, e vedendola piena di lacrime, detti anche io in un gran pianto che attirò tutti intorno a me per consolarmi.

Non so quanto tempo ci trattenessimo lassù; ma di certo non partimmo prima che il cannone avesse smesso di far sentire la sua voce. Alle grida di gioia che si erano alzate via via che i colpi si facevano più fitti (dando così speranza di resistenza vittoriosa degli assediati), ai gesti disperati e alle furibonde imprecazioni quando quei colpi si diradavano, tenne dietro un cupo silenzio allorchè tutto tacque. Mia madre, parlandomi all'orecchio, fra un bacio e l'altro, mi spiegò tutto.

Livorno era vinta, un'orda di trentamila Austriaci armati di cannoni e dei migliori fucili del tempo avevano sopraffatto quella eroica popolazione. E ora il tragico silenzio diceva che quella ingorda canaglia era dentro a sgozzare e a sventrare con le baionette gli inermi avanzi di tanti valorosi. Mio padre e i suoi amici guardavano verso Livorno come se vedessero.

Che seme di odio implacabile fu gettato quel giorno nel mio cuore di fanciullo!

Dopo pochi giorni, nel settembre del 1849, calmate definitivamente le cose della involuzione, uno sgangherato trabiccolo a quattro ruote seguito da un barroccio carico di masserizie, trasportava la mia sconfortata famiglia a Livorno dove mio padre, chiamato e incoraggiato dagli amici di , andava a stabilirsi per esercitarvi alla ventura la sua professione di medico.



 

 

 


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