Renato Fucini
Foglie al vento

PRIMI RICORDI

A LIVORNO(dal 1849 al 1853)

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A LIVORNO(dal 1849 al 1853)

 

La parte migliore del mio sangue è sangue livornese. Mio padre solo è nato a Dianella. Tutti gli altri antenati e mia madre sono livornesi. Per questa voce del sangue e per i ricordi della mia seconda infanzia e della mia prima giovinezza ho sempre sentito e sento tuttora un vivo attaccamento alla forte città di Francesco Domenico Guerrazzi e di tanti altri uomini vigorosi d'animo, di braccio o di pensiero.

Il ramo della nostra famiglia viene da un ceppo di gente onesta ma oscura. Non ne importa a me e non ne importi a voi. Ognuno è figlio delle proprie azioni; anzi mi sento quasi più sicuro di me quando penso che il mio bisnonno, Giuseppe Fucini, era da giovane addetto al basso servizio nel banco Filicchi di Livorno e che, su su, facendosi stimare per la sua intelligenza e per la sua salda fede di galantuomo, si sollevò fino a potere, coi suoi risparmi, darsi al commercio delle granaglie, commercio allora fiorente nella fiorentissima Livorno, ed a lasciare dopo la sua morte la tenuta del Gabbro, tra Fauglia e Rosignano Marittimo, al suo figliuolo maggiore Canonico Antonio, quella della Motta nel Comune di Cerreto Guidi a Giovanni e la piccola Dianella, nel Comune di Vinci, al mio nonno Santi.

Ma lasciamo andare gli alberi genealogici e quelli fruttiferi delle nostre campagne e torniamo a Livorno ad occuparci delle mie gesta che saranno poche e puerili, poichè, se a quei tempi ero di animo troppo sensibile e di indole eccessivamente vivace, ero altrettanto duro di visceri a smaltire i primi beveroni di sapienza mesciutimi, a suon di botte e d'urlacci, dai miei buoni maestri. Scarsi e puerili i ricordi di quel periodo della mia vita, periodo che salterei volentieri a pie pari, se non si trattasse di lasciare nelle mie memorie una lacuna troppo larga di mio padre, la cui solenne e leggendaria, figura mi sta ferma dinanzi mentre tingo d'inchiostro queste pagine bianche.

Ma gli urlacci e le percosse de' miei buoni maestri di quel tempo non le sopportavo. Forse presentendo incosciamente che più tardi sarei diventato un ispettore delle scuole e che i regolamenti dello Stato avrebbero poi proibito le materiali peggio delle pistole corte, non volevo sapere di scappellotti, di rigate sulle mani e di inginocchiature prolungate sui mattoni duri della stanza, e mi ribellavo energicamente.

Un'occhiata affettuosamente minacciosa bastava, per farmi diventare un pulcino anche se ero convinto d'aver ragione; una brutale percossa, mi faceva diventare una furia anche se convintissimo d'aver torto. Ma i maestri di quei tempo, e molti maestri e molti babbi di oggi, tali elementi di pedagogia, non li capiscono, e da questa durezza di cervello e di cuore i troppi e troppo precoci delinquenti delle nostre scuole e delle nostre case.

Il mio primo maestro in Livorno fu un certo Giuseppe Taddeini che teneva scuola in casa sua, in uno stabile di Borgo Reale, poco sotto alla mia abitazione, verso il centro di Livorno e di fronte alla Farmacia Pediani, la quale aveva l'insegna, se bene ricordo, di Mercurio, e dove conveniva la sera un piccolo conciliabolo di rivoluzionari, fra i quali mio padre che teneva cattedra di filippiche, di imprecazioni, di minaccie e di epigrammi. Ecco il primo di questi che io rammento fra i tanti che di lui conservo manoscritti.

Il pittore Giuseppe Baldini, del quale avrò occasione di parlare più tardi, aveva schizzato con la penna due giandarmi austro-granducali che, armati di bastone, tenevano ammanettato e legato a una colonna Gesù Cristo. Sotto a quel gruppo mio padre scrisse questo distico, come una voce che uscisse dalla bocca del Redentore simboleggiante un martire italiano:

Toglimi, o padre, a tali farisei,

Se no, questi rivoltali tutti i sei.

 

La cosa è chiara, ma per coloro la cui intelligenza viaggia col procaccia invece che col treno lampo, dirò che l'epigramma vuol significare che que' due zelanti cagnozzi granducali, ad averli lasciati fare, gli avrebbero dato 9999 bastonate invece di 6666, quante ne registra scrupolosamente la statistica generale dell'anno di grazia '33.

Ho detto che non tolleravo le busse nella scuola e detti presto segni non dubbi di questa mia repugnanza a far la parte della bestia da tiro.

Tornavo spesso a casa coi segni, o sulle mani, o sul viso, delle percosse avute. I miei genitori essendo certi che quel trattamento animalesco non valeva ad altro che a sviluppare la parte peggiore del mio carattere, ne fecero forti e ripetute rimostranze al mio vecchio e non cattivo maestro; ma ormai il metodo era quello, il trasgredirvi sarebbe stato come commettere un peccato dei più massicci contro i più alti canoni della pedagogia, e le loro voci non furono mai ascoltate. Allora mio padre mi dette quest'ordine: «La prima volta che il tuo maestro ti metterà nuovamente le mani addosso, prendi l'uscio e torna subito a casa». Non intesi a sordo e non ebbi da aspettare lungo tempo l'occasione.

Per una inezia, per una innocente puerilità, forse per sfogare la sua rabbia contro i miei genitori, il maestro mi fece sentire lo stesso giorno il peso della sua bacchetta, di leccio sulle mie povere manucce intorpidite dal freddo e gonfie di geloni. Senza piangere, senza una parola, senza un moto di impazienza sopportai lo spasimo di quella tortura; ma appena il maestro fu tornato al suo posto e si fu voltato verso i suoi alunni, vide il mio posto vuoto. Mi rincorse per le scale, ma non poté raggiungermi; mi chiamò di sulla porta di strada, ma non mi voltai neanche, e me ne entrai in casa mia dove detti sfogo in una specie di convulsione di pianto e di grida, alla mia coscienza acerbamente ferita.

Il maestro venne più tardi da mio padre a giustificarsi accusandomi; ma forse non tornò via soddisfatto perchè non lo rividi più.

Fu questo non piccolo dolore per me. Fino da quell'età sentivo già il bisogno di voler più bene che male alla gente, e provai una grande amarezza in cuore nel dover pensare con avversione a quel mio maestro al quale, perchè veramente era buono, avrei voluto tanto bene se avesse saputo trattarmi in altro modo.

Di essere stato battuto da mia madre non ho ricordo; da mio padre sono stato battuto una sola volta, a quei giorni, quando, in un momento di malumore, mi sorprese in compagnia di altri monelli, a far malestri che meritavano le sottili frustate che mi dette nelle gambe. Quelle erano giuste e me le ingozzai pentendomi, invece di risentirmi; quelle altre, no.

Lasciata la scuola del Taddeini, fui messo in quella dei Barnabiti di S. Sebastiano, e stetti fino alla nostra partenza da Livorno e imparai qualche cosa. Come dolcemente mi ricordo di te, o buon Padre Mauro, che fosti il primo a farmi prendere un po' d'amore allo studio e alla lettura! So che sei vivo e sano, ma decrepito, in tempo che scrivo queste righe. Dal profondo del mio vecchio cuore ti mando un saluto colmo di lontane memorie e di affettuosa riconoscenza.

Nello stesso tempo frequentavo lo studio del pittore Giuseppe Baldini dove fui messo per suo desiderio dopo che una sera, nella farmacia Pediani, mi ebbe visto scarabocchiare piante e animali. Leggevo allora il Clasio, le favole e i sonetti pastorali; e tanto ero innamorato di quella lettura che detti allora il primo tuffo in quella specie di romanticismo realista che mi ha accompagnato per tutta la vita. Questa incipiente passione sfogavo allora disegnando alberi che, secondo la mia intenzione, dovevano pensare a parlare fra di loro, e facendo pifferi e zampogne, a uso Tirsi, di tutte le canne che mi capitavano fra le mani. Feci progressi nel disegno perchè realmente ci avevo attitudine; ma più se ne avvantaggiò la mia salute, perchè col Baldini e in compagnia di altri quattro o sei ragazzetti, nella bella stagione facevamo lunghe passeggiate quasi ogni giorno, e nell'estate, lungo il mare fra il Marzocco e il Calambrone, con bagni lunghi lunghi e con svoltoloni che non finivano mai fra la rena di quella spiaggia solitaria.

Il Baldini, un bell'uomo sulla trentina, abbigliato da rivoluzionario di quei tempi, con gran cappello alto a larghe falde, barba fluente e lunghi capelli inanellati, ci guardava seduto in disparte ora ridendo ai nostri lazzi, ora facendoci ammirare le nuvole di un bel tramonto ora disegnando i nostri nudi asciutti e abbronzati. Qualche volta ci menava a pescare lungo i fossi più remoti della città dove, con piccolissime canne e piccolissimi ami, ciascuno di noi prendeva tanti crògnoli da portare a casa la sera abbondante e deliziosa frittura.

Anche lui è morto, povero Baldini! Vedo ancora i suoi begli occhi addolorati quando nel silenzio di quei fossi passava in barca una pattuglia di soldati austriaci che ci guardavano duri e sospettosi. Le nostre grida, le nostre risa cessavano allora, ne si ridestavano finchè, sparita la barca dietro una svoltata lontana, non avevamo visto spianarsi la scìa lasciata sulle acque morte del fosso.

In quei giorni, pochi mesi dopo l'espugnazione di Livorno, era rimasto negli Austriaci il sospetto e la rabbia contro quella forte popolazione, ed era pericoloso per ogni livornese, uomo o donna che fosse, giovane o vecchio, adulto o ragazzo, ogni voce, ogni atto che fosse o che potesse parere un dileggio. La barba fluente e il cappello rivoluzionario del nostro maestro aggravavano per noi il pericolo.

Bei tempi, bei tempi, povera Italia! Come ve li meritereste quei tempi, con la frusta, con le baionette e con gli sputi in faccia, o liberaloni d'oggi che credete d'esser schiavi perchè guardie e carabinieri italiani vi sono d'impaccio ad empirvi le tasche con la roba degli altri e perchè si decidono a darvi addosso soltanto quando lo chieda urgentemente la sicurezza della loro vita.

E forse gli Austriaci non avevano torto a stare così diffidenti e minacciosi con noi. La fiera plebe livornese, quella plebe che ora sfoga la sua energia brutalmente scorretta, in scioperi, in risse e in delitti comuni, l'adoprava allora, feroce sì, ma generosa, soltanto contro i suoi prepotenti oppressori. E non potendo più farlo in campo aperto e alla luce del sole, continuava a combattere con la congiura e nelle tenebre gii odiosi croati i quali infestavano le vie della patriottica città sprezzantemente smargiassi e provocatori.

Narro cose tristi e repugnanti, ma dolorosamente giustificate dalle vigliacche carneficine consumate per brutale malvagità anche sugli inermi appena gl'invasori furono entrati in Livorno, e continuate poi a sangue freddo dopo che il paterno regime granducale fu restaurato e l'ordine, come dicevano essi, fu restituito alla turbata città.

Guai a quel soldato che tardasse la sera a rientrare in caserma; guai a quelli che in pochi o in molti si avventurassero in vie solitarie del suburbio o nell'interno dei quartieri popolari; guai agli ubriachi e più guai che a tutti ai vagheggini delle belle livornesi!

Ogni notte il pugnale faceva la sua mèsse, ed ogni giorno, dal Borgo Reale dove stava di casa la mia famiglia, passavano con grande corteggio d'armi e di suoni i cataletti delle vittime.

E quanto e quante volte ho spasimato di pietà a quei trasporti! Cominciava a battermi il cuore forte forte allorchè il bianco corteggio, irto di baionette luccicanti, inoltrandosi dalla piazza del Voltone imboccava nel Borgo Reale, e piangevo a dirotto quando dalla strada larga e deserta saliva più spasimoso il lamento delle marce funebri maravigliosamente suonate da quelle bande così ricche di numero e d'abilità. Anche mia madre faceva, per e per me, gli occhi umidi, tenendomi al davanzale della finestra, strinto fra le sue braccia; e cercava di calmare la mia agitazione, insegnandomi che quelli erano nemici nostri e che per essi il mio povero babbo era stato costretto a scappare dalla Maremma dove si stava tanto bene e a rifugiarsi qua a vivere di privazioni e di paura. Io, piccolo bambinuccio di sette anni, la guardavo stordito e, quasi per obbedienza mi sarei calmato; ma il fascino della musica che spasimava su quei morti era più forte della sua voce e i miei singhiozzi raddoppiavano perchè allora piangevo per quei morti e per lei.

Mio padre, fermo e accigliato nel fondo della stanza, taceva e ci guardava commosso, forse pensando che in quel cataletto giaceva fredda e insanguinata la speranza di una madre ungherese o l'amore d'una sposa polacca.

Ma il colore delle divise era eguale per tutti i gregari dell'inscindibile impero, e il pugnale vendicatore non sapeva far distinzioni.

Tristi giorni erano quelli!

E com'era bella e ricca a quei tempi Livorno! La sua vantaggiosa posizione sulle coste tirrene, l'ampiezza e la comodità dei suoi bacini, il privilegio del porto franco, l'energica operosità dei suoi cittadini e le diverse condizioni politiche e commerciali dell'Italia a quei giorni, ne avevano fatto lo scalo più importante del Mediterraneo. Le vie per e dall'Egitto, da Tunisi, dall'Algeria, dal Mar Nero e dall'estremo Oriente erano affollate di navi di tutti i tonnellaggi e di tutte le bandiere; la sua darsena pareva un canneto di alberi e una ragna di gomene, la ricchezza vi si riversava da tutte le parti del mondo, e le vie della città risuonavano di voci d'ogni paese e brillavano di costumi d'ogni foggia, d'ogni stoffa e d'ogni colore. Ripensando alle impressioni in me suscitate da quella vista, mi par di sentirmi come se avessi fatto il giro del mondo, meno la spesa, i pericoli e i disagi.

E tutto ho così fresco nella memoria, tutti i minimi particolari mi sono così presenti che, volgendo indietro il pensiero e chiudendo gli occhi, mi creo facilmente l'illusione di rivivere quei giorni. E questa freschezza di ricordi io la debbo certamente al mio gracile temperamento sul quale le impressioni andavano tanto a fondo da restarvi inchiodate per tutta la vita.

Questa facilità a commuovermi e ad esaltarmi era così acuta da rasentare il morboso. Cito qualche esempio perchè ora, dal freddo della mia vecchiaia, mi diverto e mi riscaldo a ricordarmene.

A quei giorni ero pauroso, tanto pauroso del buio e dei fantasmi rappresentati da quel buio alla mia fantasia troppo esaltabile, che i miei genitori ne erano seriamente impensieriti. Ma non v'era rimedio, di persuasione di esperienza, che bastasse a correggermi. Anch'io mi imponevo di reagire contro la mia debolezza, ma questa debolezza era invincibile dalla mia volontà. I terrori della notte, sebbene i miei genitori cercassero di portarci rimedio con ogni mezzo possibile, erano allora e sono stati per molti anni uno spasimo ineffabile per la mia anima e per il mio debole organismo. E più mi indebolivo e più questi terrori diventavano gravi. Le mie notti a Livorno, quantunque dormissi in una cameretta accanto a quella dei miei genitori, con l'uscio di comunicazione aperto, erano veglie spasimose, a occhi spalancati, o brevi sonni pieni di fremiti e di sussulti, specie nell'estate quando il caldo non mi consentiva di tenere il capo sotto le lenzuola, dove respirando aria viziata e sbuffando e sudando di spasimo e di caldo, trovavo nell'inverno una certa sicurezza e un certo conforto. E in tal modo, continuando, le insonnie accrescevano la mia debolezza, la debolezza dava esca alle insonnie e a un così eccessivo lavoro della fantasia da far temere ch'io diventassi un precoce maniaco.

Cito una serie di esempi per dimostrare la eccitabilità dei miei nervi e le strampalerie del mio povero cervelluzzo ammalato.

Nella farmacia Pediani, dove mio padre andava spesso a passare le sue serate, avevo fatto amicizia con un giovinetto, nipote, se non sbaglio, del proprietario.

Una domenica il Pediani mi volle a desinare da lui perchè tenessi compagnia a questo suo nipotino; e la mattina, a una certa ora, mi condusse e mi lasciò in farmacia.

In una stanza interna, che serbava di laboratorio, v'era il garzone che schiacciava dei semi di ricino per liberarli dal guscio e farne olio.

Piacque a noi bambini quel passatempo e ci mettemmo ad aiutarlo. Dopo una mezz'ora di cotesto lavoro, cominciò a darmi noia l'odore di ricino e, nel medesimo tempo, incominciai a sospettare che cotesto odore potesse avere effetti venefici; e subito mi parve di provarne le conseguenze con nausee, voglia di vomitare, sudori freddi e uno sfinimento tale da non potermi tenere in piedi. Cercai per qualche poco di dominarmi, ma finalmente fui colto da tale spavento che incominciai a urlare: «sono avvelenato! moio! moio!» e a piangere e a vomitare; e caddi in terra quasi svenuto quando, alzatomi dal mio sgabello, m'ero avventato verso la porta per fuggire. Tutti spaventati quelli che mi stavano dintorno, nessuno sapeva che cosa pensare; e fu di corsa mandato a chiamare mio padre il quale venne, mi prese fra le braccia e mi riportò a casa, dove, con terrore di mia madre, arrivammo ambedue più morti che vivi: io per la certezza d'essere avvelenato, egli per il sospetto che fossi davvero.

Un'altra volta, passeggiando per le vie della città, mia madre mi comprò dei biscottini con gli anaci. In uno di questi biscotti trovai un anacio guasto, e, appena sentitone il cattivo sapore, eccoti che nuovamente mi credo avvelenato, e do in pianti e strilli acuti in mezzo alla via, chiedendo acqua, medici e medicine. La gente si aggruppa intorno a noi, mia madre chiede soccorso anche lei e siamo portati dentro una bottega dove, dopo essermi sciacquato la bocca con acqua e liquori, tutto passò presto per me, ma non per il cuore afflitto di mia madre, la quale temeva per me ben altri pericoli che non quelli dell'immaginario veleno.

Dalle stesse cause, non più effetti di debolezza, ma di eroismo.

In esilio con noi dalla Maremma era venuta a Livorno una brava cagna da caccia che si chiamava «Spagnuola». Ero incaricato io di portare giù in strada, un paio di volte il giorno, cotesta povera esiliata perchè prendesse un po' d'aria e attendesse ad altre sue faccende. La cosa passò inosservata ai monelli della via finchè non si giunse a certi giorni nei quali, per salvare la cagna e me, da una processione di cani che si mettevano dietro a noi insistenti e petulanti, dovevo tenerla a catena e portare in mano, come spauracchio di bestie e di cristiani, un nodoso bastone.

Tirato di qua e di dalla povera «Spagnuola» che era più forte di me, e molestato dai cani ai quali ammollavo ogni tanto qualche legnata la quale lasciava nella turba innamorata il tempo che aveva trovato, detti nell'occhio ai sullodati monelli della via, e questi incominciarono a farmi bersaglio dei loro sguaiati motteggi. Finchè si trattò di parole, tacqui fremendo; ma una volta che uno di cotesti arnesi fu tanto ardito da tirare una frustata alla cagna che cominciò a guaire, non fui più padrone di me. Lasciai il guinzaglio, un velo fitto mi cascò sugli occhi e incominciai a menar legnate furibonde intorno. Di questa scena non posso raccontar altro perchè non mi ricordo di nulla. Mi ricordo soltanto d'essermi svegliato in casa mia, steso sopra un letto, con mio padre e mia madre che mi stavano intorno spauriti, credendomi privo di senno o morto dai gran lividi che avevo in tutto il corpo perchè, come seppi e come mi accorsi dopo, se ne avevo date ne avevo anche ricevute tante che ebbi a stare vari giorni fasciato, zoppo e indolito.

Passata questa, me ne capitò subito un'altra.

Come accade nei luoghi di mare, spesso sentivo parlare di salvataggi di persone in pericolo d'annegare. Sentivo descrizioni drammatiche del fatto ed elogi alla intrepidezza dei salvatori. Esaltandomi a quei racconti, mi entrò nella testa la smania di farmi anch'io un nome celebre in quel genere di operazioni, tanto più che già conoscevo l'azione eroica di Garibaldi, del quale si cominciava allora a parlare con infuocato entusiasmo, il quale, nel porto di Nizza, aveva salvato, da bambino, un suo coetaneo. Volevo anch'io salvare qualcuno e ne cercavo l'occasione con ardore, fidando sulla mia sveltezza nel nuoto, che era davvero superiore alla mia età. Avevo allora nove anni circa.

Una sera, condotto con alcuni compagni dal pittore Baldini, alla solita pesca dei crògnoli lungo un fosso remoto della città, me ne stavo tutto intento alla fruttifera occupazione, quando sento a poca distanza strilli disperati di donne e di bambini. Corro a vedere di che si tratta e vedo un povero piccino di cinque o sei anni, cascato nell'acqua, e intorno a lui, lungo il muro dello scalo, una turba di donne scapigliate e di ragazzi che gli porgevano cenci e pertiche perchè vi si agguantasse; e gli facevano coraggio, con gran confusione di parole e di voci. Appena arrivo , spicco un lancio, e giù nell'acqua accanto al bambino che mi si avviticchiò subito alle gambe come un polpo.

L'occasione mi si era presentata: anch'io, come Garibaldi, avevo compiuto il mio eroismo e, con la rapidità del pensiero, già pregustavo le gioie della celebrità, dopo quelle intime del mio cuore, credendo davvero che senza di me quel bambino sarebbe affogato. Ma le cose non stavano precisamente come me l'ero figurate. Quelle che credevo grida di spavento erano risate, la tragedia era una farsa, e invece del trionfo mi toccò una baiata perchè dove era cascato il bambino v'erano appena due palmi d'acqua e altrettanti di fango nero e puzzolente nel quale eravamo rimasti impaniati tutti e due. Un robusto giovanotto ci tirò su di peso lerci e grondanti, mentre dalla spalletta di sopra, dove era affacciata gente, venivano risate fragorose e apostrofi non troppo lusinghiere per il mio valore:

«Ah bimbo, l'hai fatta bona la 'nzuppa oggi, eh?

«Nun ti bastava 'r fritto, e hai voluto anco l'umido!

«E lavati le cianche, sai bimbo, 'n se no no colli sculaccioni di stasera, tu' ma' s'insudicia tutte le mane».

E così di seguito, altre delizie di questo genere, ma anche più espressive ed energiche per crudità di realismo popolare.

Me n'andai via a capo basso, svergognato davanti a tutti, ma non dinanzi alla mia coscienza perchè quando spiccai il salto nell'acqua io non sapevo in verità se c'era fonda due palmi o due metri.

L'ambiente nel quale vivevo e mi saturavo dei primi succhi della vita morale, ambiente di cospirazioni, di fremiti, di persecuzioni e di delitti politici, operava sottilmente ed energicamente sull'animo mio. Di quello che si pensava e si preparava dai patriotti di quel tempo sconfitti e umiliati, pareva che non vedessi e non capissi nulla, ma vedevo e capivo tutto. Non una parola, non una allusione fatta a bassa voce, con vocaboli convenzionali e magari in gergo, nelle riunioni di cospiratori, fuori e in casa, nulla mi sfuggiva, e già, a nove anni sapevo sul serio, e non per averlo imparato da libri scialbi compilati a freddo per far quattrini, che cosa è la patria e che cosa valgono gli uomini capaci di sacrificare per lei tutto e fra questo tutto la vita. Come li vedo vivi anche oggi quei volti generosi illuminati dalla luce delle loro aspirazioni patriottiche, quando un fatto lontano accaduto magari nella Papuasia poteva dare un barlume di speranza per la sospirata redenzione d'Italia, e come rivedo anche oggi su quei medesimi volti l'abbattimento per un caso contrario, la ferocia dominata a forza, per un atto di barbarie dei nostri oppressori e i lampi di quegli occhi al racconto di un eroismo compiuto!

Una sera, sui primi giorni che eravamo a Livorno, entrò nella farmacia Pediani uno degli amici pallido di rabbia e fremente di gioia, e raccontò:

«Un giovane popolano che teneva all'occhiello della giacchetta un mazzolino di fiori dove erano accozzati, o per caso o premeditatamente, i tre colori della nostra bandiera, era passato dinanzi alla caserma della Gran Guardia. La sentinella gli si era avventata addosso, gli aveva strappato i fiori, gli aveva sputato in faccia e lo aveva spinto lontano a forza di pedate e di colpi col calcio del fucile. Il giovanotto, o sconcertato dall'improvviso assalto forse non provvisto del fegato sufficiente, non reagì e, allontanatosi in silenzio, si trascinò barcollando fino a un prossimo caffè dove erano riuniti alcuni amici suoi. Sentito l'accaduto, uno di questi andò rapido nel giardinetto dietro al caffè, colse un fiore bianco e uno rosso, li unì con una foglia verde, se ne adornò il petto e uscì senza una parola. I suoi compagni si affollarono sulla porta a guardare e lo videro passare spavaldo dinanzi al soldato di sentinella il quale gli s'avventò per strappargli i fiori; ma gli aveva appena attaccata al petto la mano feroce che cadde in terra fulminato da una pugnalata. I soldati della caserma sbucarono tutti fuori e accerchiarono il giovane popolano, che, buttato via il pugnale, si lasciò prendere e portar dentro come un agnello».

Questo il racconto. Una discussione animata e a voci alte si accese nella retrostanza della farmacia; ma fu interrotta bruscamente quando il garzone, correndo in punta di piedi, venne ad annunziare: «Passa una pattuglia austriaca». Una nuvola di gelida tristezza adombrò ad un tratto i volti animati di quei giovani e caldi patriotti i quali attaccarono, torbidi e silenziosi, una partita di domino.

Il giovane popolano fu fucilato la mattina dopo sugli spalti del forte di Porta Murata.

Potrei raccontare una lunga serie di fatti consimili, di brutalità, di sevizie, di provocazioni, di umiliazioni e di prepotenze inaudite compiute da cotesti vandali bestiali contro una popolazione ormai superata e sprovvista di armi, a sfogo del rancore per l'inattesa e impavida resistenza incontrata sotto le mura della forte città, ma me ne risparmio il racconto poichè da questo fatto al quale ho accennato è facile immaginarsi tutti gli altri.

Per conto dell'Austria, era allora Governatore di Livorno quella trista figura del Conte Folliot De Crenneville, che corse rischio, molti anni dopo, di pagar salati con la propria pelle i frutti dell'odio da lui lasciato nel cuore di tanti nipoti delle sue vittime.

Con una impudenza, con una temerità che può sembrar favolosa a chi non ha conosciuto da vicino i nostri dolcissimi amici di quei tempi, dopo compiuta l'unità d'Italia o poco prima, cotesto bravaccio, essendo capitato fra noi, senza impensierirsi del puzzo di sangue rappreso e senza impaurirsi di fantasmi crivellati nel petto, ebbe la felice idea di recarsi a Livorno.

Non disse il suo nome a nessuno, credo che si mascherasse un po' mettendosi qualche cosa di finto sul ceffo, ma ebbe l'imprudenza di farsi vedere per le vie della città in compagnia d'un certo Inghirami italiano, il quale, durante il suo governo, rivestiva sotto il granducato, una carica pubblica di qualche importanza.

Nacque il sospetto che quel certo arnese che girava le vie di Livorno in compagnia dell'Inghirami fosse il Folliot, fu pedinata la coppia sospetta e, nonostante la truccatura, qualche vecchio livornese che l'aveva bene in mente, riconobbe l'imprudente smargiasso.

Accertata la cosa, fu così clamoroso il fermento di tutto quel popolo che l'amico Inghirami credette bene di consigliare l'amico Folliot di batter la gamba e presto, se gli premeva la pelle. E l'amico Folliot non se lo fece dire due volte; preparò le sue carabattole e si dispose alla partenza. Ma arrivato al punto d'imbarco sulla darsena, in compagnia dell'amico che gli faceva scorta, da un gruppo di popolani che li pedinavano si staccò un giovane armato di pugnale e, quasi prima che i due satelliti del vecchio despotismo se ne fossero accorti, uno di loro cadeva in terra colpito a morte.

Ma il morto era l'Inghirami. Il giovanotto, forse accecato dalla rabbia, aveva sbagliato. Il Folliot si imbarcò ratto ratto, e, incolume e sano, se ne tornò a casa sua sul Danubio a nascondere e a digerirsi la sua rabbia.

La polizia fu subito in moto e si occupò lungamente per giungere a scoprire il reo, ma, sebbene il fatto accadesse in mezzo a molto popolo riunito e in piena luce di sole, l'autore dell'eccidio rimase occulto.

Mi accorgo che parlando di quei tempi e di quegli avvenimenti do, senza volere, un tuffo nel barbaro; ma come fare diversamente? Chi ha vissuto a quei tempi o chi conosce a menadito la storia di quel procelloso periodo, può capirmi; gli altri, no. E per capirmi meglio, bisogna riflettere che in mezzo a quelle persecuzioni vivevano mio padre che assaggiò le carceri dei Domenicani, il mio zio Giacobbe Fucini il quale ebbe a sfrattare da Livorno dove era venuto a stabilirsi presso il suo fratello, per la sola ragione che era un bellissimo giovane, alto, sorridente, con gran barba bionda e con gran cappello a larghe falde. Tutte cose che a quegli amabili ospiti davano nell'occhio come minacciose e pericolosissime. Infine con mio padre e col mio zio correvano, per nulla o per molto poco, rischi gravissimi altri parenti, molti cari amici e moltissimi conoscenti dei quali conservo viva la più affettuosa memoria.

Quante ansie! quanti timori! quanti spaventi! E quanta allegria quando, la sera, tornavano salvi a casa dopo che noi avevamo trepidato tanto per la loro libertà e per la loro vita, se per affari o per diporto ritardavano anche di pochi minuti l'ora consueta del loro ritorno!

Sviluppatisi i primi germi della mia intelligenza in quell'ambiente, è naturale ch'io diventassi caldo di cuore, un po' artista, molto osservatore e un tantino politicante e cospiratore. Ma, per grazia di Dio, le ultime due antipatiche qualità mi si staccarono presto da dosso e non mi rimasero che le altre alle quali, se io debbo tanti dolori, debbo anche ineffabili consolazioni. E per mia maggior fortuna, le due qualità antipatiche non soltanto le persi, ma ebbi da esse in eredità una inestinguibile avversione per gli esosi e molesti politicanti da caffè, e per le sètte in genere le quali, penso io, altro non sono, salvo le dovute e onorevoli eccezioni, che accozzaglie di affaristi, di vanitosi e di anime deboli che si stringono, e si difendono e si appoggiano fra di loro, perchè sentono che stando sole non avrebbero la forza di tenersi in piedi: zeri che si accostano a un uno con la speranza di parere un dieci, e ambiziosi senza alcun merito, i quali, accorgendosi che il loro io non costa nulla, fanno di tutto per poter dir noi, associandosi a qualche sodalizio, e non guardando ad altro, nella scelta, che all'utile proprio.

La mia famiglia viveva allora fra le più anguste strettezze economiche. Mio padre, calato dalla Maremma a Livorno per esercitarvi liberamente la medicina, aveva pochi e tribolati clienti. Un po' perchè è difficile farsi largo subito in un paese nuovo, sia pure vasto e popolato, e un po', anzi molto, per la guerra che movevano al giacobino i pochi reazionari, i molti cagnozzi del governo e qualcuno dei colleghi o indifferenti o arrabbiati, per amor del pane quotidiano.

Ma tutto il male non viene per nuocere, e anche queste ristrettezze economiche mi fruttarono bene, avvezzandomi alla sobrietà e al sacrifizio. Mi ricordo che di balocchi non ho posseduto che quelli buttati via, giù nel giardino, dai bambini d'una famiglia agiata che abitava sopra a noi; di ghiottonerie dolci non avevo che raramente, nelle domeniche estive, un'orzata da una crazia quando mia madre mi conduceva a spasso fuori di Porta a Mare, qualche volta dei semi di zucca salati, o una manciatella d'arselline che mangiavo cammin facendo, imbrodolandomi d'acqua salata il povero giubbettino delle feste.

Due o tre volte, in cinque anni di Livorno, sono stato al teatro, alla vecchia Arena Labronica, dove con quattro crazie a testa (28 centesimi) si potevano sentire le più notabili celebrità di canto e prosa, e le più belle opere, e i drammi e le tragedie più spettacolose.

Mi viene in mente il ricordo di un fatto che voglio raccontare perchè completa quello che più innanzi ho detto della impressionabilità del mio animo di bambino, la mia precoce ammirazione per i grandi e la mia profonda pietà per gli sventurati.

Si rappresentava un dramma sensazionale intitolato, se non sbaglio: Le ultime ore di Camoens. La lettura alla quale avevo fino da quel tempo una passione così smodata da dover essere regolato per non eccedere con danno della mia salute, mi aveva già fatto sapere qualche cosa dell'infelice poeta, e questa cognizione aveva già disposto l'animo mio a ricevere più vive le impressioni del dramma che si preparava.

Cotesto giorno, non so per qual combinazione straordinaria, mio padre, mia madre ed io, invece d'essere modestamente affogati fra la folla delle seggiole e delle gradinate, eravamo signorilmente acquartierati in un palco. I miei genitori, uno di qua e uno di , io nel mezzo, sopra uno sgabello, con tanto d'occhi sgranati alla scena.

Fin verso la metà del lungo dramma, le cose andarono abbastanza lisce per me e per i miei genitori; ma quando si incominciò a entrare nella sostanza della storia commovente, le cose cambiarono. Alla domanda:- «Ti diverti?» non potevo rispondere perchè avevo la gola serrata. Alla domanda: «Ti senti maleperchè ero pallido e agitato, eguale mio silenzio perchè sentivo che se mi fossi azzardato ad aprir bocca il pianto sarebbe scoppiato. Intanto la scena si faceva più tenera e il mio cuore non ne poteva più, e grosse lacrime mi colavano fitte e silenziose sulle mani sulle quali avevo appoggiato il mento per nascondere il tremito della testa e di tutta la mia gracile personcina. I miei genitori, li vedevo con la coda dell'occhio, non mi perdevano di vista, sgomenti. A un tratto, non potendo più frenare la mia commozione, detti in uno sfogo di così largo pianto che il pubblico cominciò a voltarsi impaziente al nostro palco. E intanto con la maggior commozione della scena diventava così irrefrenabile il mio orgasmo che mio padre si alzò mi prese in collo e, tappandomi con le mani la bocca, mi tirò in fondo al palco. Mi scossi e mi frenai per un momento, ma quando di laggiù vidi Camoens cascare accasciato sui gradini di una chiesa e udii le parole del suo vecchio servitore che diceva: «Fate l'elemosina al povero Camoens che muore di fame!», detti in un pianto così disperato che il pubblico si sollevò tutto gridando «Silenzio!» e io dovetti esser portato via dal teatro, con molta gente dietro, che si era scaricata dalla platea nel vestibolo, credendo accaduta qualche disgrazia.

Anche oggi, con sessanta anni sonati sulle spalle, non solo se uno spettacolo di prosa o di musica è commovente ma anche se è solamente bello, un brivido mi corre continuo lungo la schiena, la gola mi si serra, e spesso debbo far le viste di sbadigliare o d'essere infreddato per ingannare i vicini sulla origine delle lacrime che mi inumidiscono gli occhi.

Strani misteri del cervello e dell'anima umana. Quel bambino e questo vecchio così facili al pianto sono la stessa persona alla quale, per quanto sento dire, tante persone­­ sono riconoscenti per le ore liete che i suoi scritti hanno fatto loro passare.

Ma forse, per chi veda il fondo delle cose, le favole e gli uomini che ho immaginato sono tutti pieni di dolore, e il mio riso è stato sempre colmo di lacrime.

Fra i pochi ma buoni amici che la mia famiglia aveva allora in Livorno, v'era la famiglia Guerrazzi. Credo che mio padre fosse stato in qualche stretto rapporto con Francesco Domenico per affari delle loro cospirazioni; ma non ne sono sicuro, e lui non lo conobbi allora perchè era in esilio a Bastia nell'isola di Corsica. Lo conobbi più tardi e molto da vicino in Firenze nel modo che più tardi racconterò. Rimaneva in Livorno il suo fratello Temistocle, scultore di qualche merito, e nello studio del quale capitammo un giorno, condottivi dal mio maestro di disegno, il pittore Giuseppe Baldini, quando ebbe ultimata la statua di Farinata degli Uberti, quella povera statua che allora pareva una gran meraviglia e che oggi fa di debole mostra a Firenze, in una nicchia del loggiato degli Uffizi, sul fianco del Lungarno.

La vedo sempre la maschia e bella figura di Temistocle Guerrazzi agitarsi in grandi voci e olimpici gesti nel mostrare agli amici la sua statua, e vedo gli amici entusiasmati e commossi specialmente dalla scritta che si legge sulla lama della spada che l'eroe par che tenga fra le due mani per farla leggere comodamente agli Austriaci che si sarebbero poi fermati a guardarla:

Non mi snudare senza ragione

……

A quei giorni era così: tutto quello che, o palese o recondito, non contenesse un significato patriottico, perdeva quattro quinti del suo valore.

Da buon cucciolo di razza, che prometteva di diventare in seguito un discreto bracco, raccattai una scheggia di marmo cascata dal blocco che servì a scolpire quella statua, vi scrissi sopra la data e la provenienza, e per lungo tempo la conservai gelosamente come una preziosa reliquia; ma, con tante peregrinazioni della mia casa, andò smarrita e non ne ho saputo più nulla.

A quei giorni corsi grave pericolo di affogare insieme con mio padre. Lo corremmo a una certa scogliera chiamata allora «Punta del molo», dinanzi al mare aperto e dove l'acqua era molto profonda. Il mare era alquanto mosso, ma, per questo, ebbe maggiori attrattive per invogliarci alla solita nostra spasseggiata inoltrandoci al largo per due o trecento metri. Finchè fummo in fuori le cose andarono bene e ci divertimmo saporitamente a contare i cavalloni che grossi e spumosi ci venivano incontro; andarono, anzi, tanto bene le cose che non ci accorgemmo del vento che rinfrescava sempre delle ondate che gonfiavano a vista d'occhio. Quando tornammo alla scogliera era tardi. Il mare vi si frangeva furiosamente, e non era possibile accostarsi senza correre rischio gravissimo d'esservi sbacchiati e ridotti in frantumi. Io cominciavo a sentirmi stanco, mi tenevo a gatta morta, distante dalla scogliera, per riposarmi nel tempo che mio padre nuotava affannato in su e in giù lungo la stessa scogliera, per cercarvi un punto dove l'approdo fosse meno pericoloso. Ma il tempo passava, il mare ingrossava sempre, nessuno poteva darci soccorso e io cominciai a mandare qualche lamento e poi a chiamare mio padre, perchè non ne potevo più. In pochi secondi me lo vidi accosto, con molta precauzione mi fece attaccare alle sue spalle, in modo da non impedirgli la libertà delle braccia, e lentamente ci accostammo alla terra vicina. Ma a un certo punto le ondate ci avvolsero e ci separarono sballottandoci per qualche tempo e scaraventandoci finalmente sugli scogli ai quali potemmo afferrarci e trovare sicurezza, tutti sgraffiati, contusi e sanguinanti.

Qualche anno più tardi corsi anche più grave lo stesso pericolo in Arno fra Spicchio e Limite dove, trasportato dalla corrente in un basso fondo irto di massi caduti dalla collina corrosa e rimasti quasi a fior d'acqua, fui travolto e sbatacchiato per un lungo tratto finchè varcata quella specie di cateratta fui tirato fuori dall'acqua mezzo svenuto da un certo Arcangelo Fucini, amico nostro e non parente, il quale, accortosi del mio pericolo, correndo lungo la ripa, era venuto prudentemente ad aspettarmi per togliermi dall'acqua o vivo o morto.

Al vivo ricordo di questi due momenti terribili debbo di certo i veri e vivaci colori coi quali tanti anni dopo ho descritto il salvataggio di una bambina in uno dei miei bozzetti intitolato «La pipa di Batone».

Ma intanto gli affari economici della nostra famiglia andavano male. Nonostante la più stretta economia osservata in casa, gli scarsi guadagni di mio padre erano affatto in sufficienti al nostro mantenimento. Tantochè, esauriti fino all'ultimo soldo i pochi risparmi fatti in Maremma, egli pensò di allontanarsi da Livorno e di ritirarsi a Dianella, dove la certezza di minori spese, quella dei vantaggi della campagna e la speranza di farsi un po' di clientela presto lo condussero. Avevo allora dieci anni circa e partii pieno di quella contentezza che i ragazzi hanno sempre in cuore tutte le volte che si deve sgomberare e mutar aria.



 

 

 


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