Renato Fucini
Foglie al vento

PRIMI RICORDI

A DIANELLA E A VINCI

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

A DIANELLA E A VINCI

(dal 1853 al 1855)

 

La nonna Maddalena ci accolse con gradimento perchè era donna ed era buona. Al burbero nonno Santi non piacque la cosa e ci ricevette come raminghi cacciati fin lassù dalla fame, e il suo contegno apertamente ostile e i suoi rimproveri aspri erano pane quotidiano di mio padre e di mia madre, ma specialmente di mio padre al quale rimproverava di non esser buono a guadagnare il pane alla sua famiglia dopo che egli aveva tanto speso per mantenerlo agli studi e per dargli una professione. Gli rimproverava anche che lui solo, di dieci figliuoli (otto femmine, sette delle quali allora già maritate e due maschi) dovesse vivere a carico del patrimonio comune, il quale era a quel tempo oberato dal mantenimento di tanta famiglia e dalle piccole ma troppe doti sborsate.

Fu un anno di brutta vita per i miei genitori. Guardati di traverso da quel burbero vecchio il quale non risparmiava loro mortificazioni e rimproveri continui per quel pane che mangiavano, conducevano giorni di sospiri e di dolore. E anche a me non mancavano mali trattamenti e disprezzo come se anch'io, bambino di undici anni, fossi responsabile di quello che egli aveva da rimproverare a mio padre. Anzi su di me si sfogava maggiormente il cattivo animo di quell'aspro uomo il quale, senza mai una carezza, senza mai uno sguardo che non fosse di avversione e di disprezzo, tutte le volte che potesse farlo senza essere udito da alcuno, non aveva per me altri epiteti che quelli di vagabondo e di morto di fame. Eppure ero buono e allegro, e avrei dato un bicchiere del mio sangue per veder quell'uomo volermi bene e per volergliene altrettanto io. La nonna Maddalena, della quale mi ricordo con viva tenerezza, medicava con amore le ferite; ma questo doveva farlo di sotterfugio per non tirarsi addosso anche lei l'odio del mio nonno che, se faceva condurre cattiva vita a noi, non doveva farla bella neanche lui, senza l'amore di nessuno.

In ogni modo, la leggerezza propria di tutti i bambini mi soccorreva. Passati i brutti momenti, dimenticavo tutto, e, per conseguenza, anche di quel breve soggiorno a Dianella conservo dolcissimi . Povera nonna Nena, quanto era buona per tutti, e specialmente per me, verso il quale conservò fino alla morte una speciale predilezione! Morì a 94 anni di marasma senile, senza dolori e senza rimpianto perchè era stanca di così lunga vita sebbene avesse fibra così solida che, a 90 anni, andava nei boschi intorno Dianella a cercar funghi, e qualche volta, per divertirsi con le mie bambine e per divertir loro, era capace di prendere una di esse a cavalcioni sulle spalle, e di correre in tondo sul prato della villa, facendo il giuoco del capoccia che va al mulino col sacco di grano.

Quando incominciò a dare i primi segni di grave decadenza fisica, io la scuotevo e la tenevo su, ora rimproverandola dei suoi scoraggiamenti, ora rallegrandola coi miei scherzi, fra i quali c'era la pretesa che ella dovesse in ogni modo arrivare a cento anni, se no me ne sarei avuto per male. E le dicevo che se fosse stata capace di arrivare a quell'età le avrei scritto un bell'articolo sulla Nazione; se no, no. E la buona vecchia si rallegrava, pareva che respirasse meglio e si faceva la promessa, sebbene le costasse tanta fatica il vivere in quel modo.

Arrivata l'ultima sua ora, mentre tenuta alta dai guanciali, incominciava serenamente ad agonizzare avendo tutta la sua famiglia intorno al letto, mi guardò coi suoi occhiolini azzurri e sorridenti e mi accennò che voleva parlarmi. Mi accostai sollecito, porsi l'orecchio alla sua bocca, e con un filo di voce mi disse: — Renato, quell'articolo sulla 'Nazione non me lo fai più! — Piegò la testa e morì.

Povera nonna Nena, che ricco album di memorie si chiuse per me quando si chiusero i tuoi occhi! Di quante cose si ricordava e quante me ne raccontava nelle lunghe sere invernali quando da giovine studente e più tardi da adulto capitavo a Dianella! E si capisce che delle cose da raccontare doveva averne, se si considera la lunga pagina di storia da lei vissuta, pagina che incomincia dall'arrivo dei primi soldati di Napoleone in Toscana quando lei, giovinetta di quattordici o quindici anni, chiamata dal rullo dei loro tamburi, scendeva dal natio Montopoli a vederli passare sulla via maestra presso l'Arno a San Romano, e termina quando già da undici anni Roma era diventata capitale d'Italia.

Ma torniamo alle tristezze di quel misero anno passato a Dianella, tristezze che per me non furono poi tanto gravi perchè, come sopra ho detto, la mia spensieratezza infantile mi faceva presto dimenticar tutto affinchè potessi godermi a pieni polmoni le gioie del cielo e dei campi e potessi cominciare a nutrirmi sanamente delle prime impressioni che mi dava la campagna coi suoi svaghi semplici e salubri consistenti in lunghe passeggiate, pesca con la canna nei ruscelli del piano e nell'Arno, cacciate ai pettirossi su per le forre del Monte Albano, contemplazione gioiosa di burrasche, di nevicate, di tramonti superbi, di sereni immacolati e di lunghe e monotone piogge a me più care di ogni altra cosa. In quelle lunghe e dilettosissime giornate, chiuso in casa a guardare i nuvoli grossi dalla finestra, mi affidavo ai miei libri, mi davo alla lettura per la quale avevo una passione sfrenata, e ringraziavo la pioggia perchè mi salvava dalle troppe distrazioni che mi venivano di fuori quando il sole batteva brillante sui campi e sul tetto della mia casa.

E così leggendo sempre, leggendo molto e di tutto, incominciai a prendere il gusto delle bellezze letterarie; contemplando la campagna, mi inzuppai fino al midollo delle ossa di quel sentimento della natura che mi ha accompagnato per tutta la vita, che mi ha sottratto al pericolo di conoscere la noia e che, anche ora da vecchio, mi conforta di godimenti ineffabili.

Le mie prime letture furono i due poeti epici, Ariosto e Tasso, che io spesso portavo meco nelle mie gite campestri e che di preferenza andavo a leggere nei boschi, scegliendo vallicelle remote e ombre solenni e spiazzi erbosi contornati da querci antiche le quali mi rammentassero i luoghi descritti nel canto che leggevo e dove mi sembrava vedere i miei eroi, sentirne le voci e il suono delle armi, tanto mi rappresentavo vive quelle scene alla immaginazione. Questi boschi ora sono distrutti a Dianella, e la mia vecchia villa, bellissima nella sua antica semplicità, è ora ridotta irriconoscibile.

Anche i romanzi del Grossi e del D'Azeglio avevano per me grande attrattiva, ma sopra tutti le novelle del Grossi Ildegonda, la Fuggitiva ed altre che io leggevo versando torrenti di lacrime. Fra i pochi libri che trovai in un vecchio armadio, inciampai anche in uno sgualcito quaderno contenente un poemetto manoscritto, in vernacolo livornese, non mi ricordo se in sestine o in ottave, intitolato La Betulia liberata.

Era roba un po' oscena, ma dettata con molta facilità e con spirito bastante a dilettarmi grandemente. La lessi e la rilessi finchè non l'ebbi quasi tutta imparata a memoria. E forse quella lettura gettò nel mio piccolo cervello quei semi che poi fruttificarono coi sonetti in vernacolo pisano. In quei giorni, avevo circa undici anni, oscillando nelle mie ispirazioni fra la Gerusalemme e la Betulia, scrissi un poemetto in sestine intitolato la Soviglianeide dove rappresentavo gare e battaglie fra i due paesi vicini a Dianella: Spicchio e Sovigliana, e dove mettevo in scena a far la parte di grandi eroi i più bassi e ridicoli idioti di que' due borghetti.

Perchè non disimparassi quel poco che avevo imparato a Livorno, frequentando prima la scuola del Taddeini poi quella dei Barnabiti, mio padre mi mise a scuola dal Priore di Sovigliana, un certo Alderotti, uomo rigido e non privo d'ingegno. Costui, come usava a quei tempi, non m'insegnò che un po' di latino e un po' d'aritmetica, ribadendomi nella memoria quello che m'insegnava, col solito metodo, cioè a forza di noccolate sulla zucca e di scappellotti così rabbiosi con le sue mani secche e bernoccolute, che mi sentivo nel naso l'odore di frescura e in fondo all'animo certi ribollimenti di reazione per i quali correvo rischio di metter mano a certi sassi di cui avevo sempre piene le tasche per mia difesa personale, costrettovi da certe cause che dirò fra poco. Ma, come Dio volle, potei vincere tutte le tentazioni e fra me e il buon Alderotti non accadde mai nulla di grave.

Ecco la ragione delle tasche sempre piene di sassi.

Sovigliana è distante da Dianella circa due chilometri da percorrersi tutti in aperta campagna, e quei due chilometri li facevo a piedi quattro o cinque giorni della settimana per recarmi alla detta scuola. Non mi ricordo più per quale ragione nascesse fra me e i monelli miei coetanei di quel paesetto, una antipatia e un antagonismo parecchio acuti; ma il fatto è che spesso fra me e loro accadevano battaglie di pugilato e sassaiuole che non finivano mai. Di qui nacque per me la necessità di non farmi sorprendere sprovvisto; e ad ogni monte di ghiaia che incontravo lungo la via mi fermavo a scegliere i proiettili che per la forma e per la grossezza mi sembravano più adatti. E con le tasche gonfie di questi proiettili mi presentavo all'Alderotti il quale, ogni volta che se ne accorgeva, mi mandava a scaricarmi sulla via maestra, e tornando a casa mi presentavo a mia madre che non riparava coi rimproveri e con le ricuciture alle tasche sfondate.

Accadde un giorno, che andando a Sovigliana, ebbi a rinnuovare una specie di giacchetta nuova, ricavata da un pastrano vecchio di mio padre, la quale essendomi stata fatta, come si dice, a crescenza, m'arrivava quasi ai piedi. Mi garbò poco quell'arnese e, pensando ai miei nemici di Sovigliana, previdi i pericoli ai quali mi andavo ad esporre e non volevo mettermela addosso in nessun modo; ma le insistenze di mia madre e le minacce di mio padre mi costrinsero, e partii mogio mogio e ne empii subito le tasche di tanti sassi che, col loro peso, la fecero parere anche più lunga di quello che era. Mi accostai guardingo alle prime case, scansai di traversare il paese e, percorrendo una viuzza poco battuta che girava intorno al caseggiato, arrivai alla chiesa senza che nulla di sinistro mi fosse accaduto.

Ma i miei nemici m'avevano scoperto e me la serbarono per il ritorno.

Avevo fatto appena due o trecento metri fuori di Sovigliana, quando sento dietro a me un ragazzo che grida con quanta voce ha in gola: — Renateo, col giubbileo! — Mi volto di scatto e, nel tempo che vedo sei o sette ragazzi far capolino di dietro ai tronchi d'altrettanti pioppi, si alza una gran risata e un coro generale di — Renateo, col giubbileo! — che mi fa subito capire che non c'era tempo da perdere. Metto mano immediatamente alla munizione della quale avevo gonfie le tasche e, Orazio sol contro Toscana tutta, impegno con quegli eroi una sassaiuola furibonda. Tiravo diritto i miei sassi come se partissero da una carabina di precisione ma, essendo ogni nemico riparato da un tronco d'albero o dietro una siepe, non si sentivano che colpi secchi nei tronchi stessi e feriti non ne facevo. Io mi sentivo pizzicare ora in un punto ora in un altro della persona dalla grandine che mi pioveva addosso. Allora prendo di mira uno solo che per tirarmi era obbligato ad alzare il capo sopra la siepe, lo aspetto scansando i sassi che mi vedevo venir addosso, e colgo il tempo così bene che lo colpisco proprio in mezzo alla fronte, la quale mandò un colpo secco come se il sasso avesse battuto in un altro sasso. Il bambino incomincia a urlare, i suoi compagni sbucano dai loro nascondigli, e io sventolando il mio gonnellone nel quale quasi intrampolavo, mi butto a una fuga così precipitosa che in pochi minuti arrivai a casa stordito dalla paura d'aver fatto gran male e trafelato dalla corsa, immaginandomi d'avere alle calcagna tutti quei ragazzi, i loro genitori e tutta Sovigliana, per vendicarsi.

Il male, fu, per fortuna, molto minore di quello che temevo, e tutto fu presto rimediato da mio padre, credo con qualche lira ai genitori dell'eroe ferito.

In ogni modo la scuola di Sovigliana cessò per non espormi a pericoli; ma forse fu una prudenza esagerata perchè la mia bravura, ormai dimostrata dall'ultimo fatto d'arme, mi aveva assicurato il rispetto dei nemici i quali, incontrandomi, mi salutavano rispettosi e sorridenti. Ma bisogna notare che, per misura di sicurezza, il giubbileo mi venne scorciato un palmo, piuttosto più che meno.

Nell'estate di quell'anno, il colera che serpeggiava per l'Italia, fece la sua comparsa anche a Empoli e l'invasione fu così violenta e micidiale che i medici del paese non erano bastanti al lavoro. Ne vennero di fuori con laute e meritate ricompense, e fra questi anche mio padre il quale, alla liquidazione dei conti, essendo morto nel tempo dell'epidemia uno dei medici condotti del paese, fu modestissimo nelle sue pretese sperando, secondo qualche promessa avuta, di ottenere in compenso la condotta vacante. Ma quella brava gente, nonostante lo zelo da lui spiegato, nonostante che anch'egli avesse preso il contagio e corso grave pericolo di vita, gli fece una finestra sul tetto per la ragione, come disse in consiglio uno dei magnati di quel consesso, che il dottor Fucini era un compromesso co' i' governo. Colpa gravissima per quei beoti, alla quale, però, non pensarono o non dettero importanza quando quel compromesso co' i' governo venne volontario ad esporre la sua nobile esistenza per serbare ai fichi le loro pance triviali.

Fallita a mio padre quella speranza, tornammo a refugiarci novamente a Dianella, ma per poco tempo. Chiese la condotta medica di Vinci, che era rimasta vacante per la morte del titolare, l'ottenne senza contrasto, e nell'agosto del 1855 la nostra piccola e nomade famiglia ebbe finalmente riposo andando a portare le lacere tende in quel pittoresco villaggio dove incominciò per tutti noi un periodo di vera pace e di perfetta contentezza. Le persecuzioni politiche contro mio padre erano cessate dopo il suo lungo e inoperoso ritiro in campagna, e potette darsi al quieto esercizio della sua professione acclamato da tutti e lieto di pochi e buoni amici e di un guadagno scarso ma sicuro; mia madre trovò sfogo alle sue passioni di buona massaia nella piccola e nuda casetta dove andammo ad alloggiare, ed io apersi il cuore e i polmoni a quelle superbe campagne dove le lunghe passeggiate, la caccia ai pettirossi e la pesca nei torrentelli che scorrono per le forre del Monte Albano e nei ruscelli che scendono al vicino padule di Fucecchio, mi fortificarono la fibra e mi empirono l'animo di solenne poesia, insegnandomi le prodigiose bellezze della natura ed avvezzandomi alla loro contemplazione.

Ma io dovevo continuare i miei studi, e a Vinci non v'erano scuole maestri. Bisognò per forza ricorrere a Empoli, dove fui mandato nell'autunno di quell'anno.

 

 

 

 

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License