Renato Fucini
Foglie al vento

PRIMI RICORDI

A EMPOLI

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A EMPOLI

(dal 1855 al 1859)

 

 

 

Di qui incomincia un nuovo ed importante periodo della mia vita, perchè, allogato in una cameretta, con la mia brava chiave di casa in tasca e andando a mangiare alla trattoria, mi trovai, all'età di 13 anni appena, a fare la vita libera dello studente e a difendermi da tentazioni e pericoli d'ogni genere in quell'età nella quale quasi tutti i giovinetti hanno ancora molto tempo da passare sorvegliati dall'occhio paterno e custoditi al calduccio sotto le ali della madre.

Ma quella piena libertà, quella chiara dimostrazione della fiducia che avevano i miei genitori nel senno alquanto precoce venutomi dalla natura o dalla primissima educazione, furono le fondamenta sulle quali si appoggiò solidamente tutto l'edifizio della mia vita. Quanti sacrifizi eroicamente sopportati dal mio spirito allegro e dal mio corpo alquanto deboluccio! Quanto freddo nell'inverno, quanto caldo nell'estate, e quante voglie di divertimenti rientrate in ogni tempo dell'anno! Il mio cuore mi diceva di non chiedere ai miei genitori alcun sacrifizio oltre quello che facevano tenendomi agli studi lontano da casa; il mio amor proprio mi insegnava a dire ad essi e a tutti che nulla mi mancava e che stavo benissimo. La mia cameruccia era a tetto, con due sottili pareti esterne attraverso alle quali, anche per i deboli affissi, la temperatura della stanza andava pari con quella di fuori; la mobilia era poca e molto semplice: un duro lettuccio traballante, due seggiole impagliate, un tavolino tinto di verde, un lavamani di legno, una catinella e un brocchetto di maiolica. Niente altro. Una tenda alla finestra e un pezzo di stola, per posarvi i piedi andando a letto e discendendone, era un lusso che io non avrei saputo immaginare e tanto meno desiderare. Che ore di spasimo nelle fredde serate invernali quando rattrappito dal freddo, sebbene rinvoltato nel mio pastranaccio e tutto abbottonato e col bavero alzato e strinto al collo con una funicella, facevo le cose di scuola seduto al tavolino verde! Che notti lunghe, rannicchiato nel mio letticciuolo sul quale avevo anche disteso i calzoni, la giacchetta e il pastrano! E che conforto la mattina quando andavo scalzo a rompere il ghiaccio del brocchetto per e poi quello del calamaio per fare ai compiti qualche correzione che avevo pensato la notte! Nelle gelide stamberghe dove andavo a scuola era anche peggio, nonostante il soccorso d'un microscopico scaldino al quale, a turno, a due a due, ci arrostivamo per un momento le punte delle dita noi quattro o sei alunni delle classi deserte. Ma ogni sette giorni veniva il sabato desiderato, e quello era per me un giorno di vero ristoro, una tregua di godimento ineffabile per compensare le dure sofferenze della settimana. Appena finite le lezioni pomeridiane, qualunque fosse la stagione, prendevo gamba gamba la via di Vinci, dove in un'ora o poco più arrivavo bello caldo e contento a rivedere la mia casa e i miei genitori, a parlar loro del mio benessere di Empoli, a scaldarmi alla fiamma del mio focolare, a sfamarmi alla mensa frugale ma abbondante della mia famiglia e a fare una dormita di paradiso nel morbido lettuccio della mia tepida cameretta. Ho detto a sfamarmi e non ho esagerato. Alla trattoria dell'Aquila nera, in Empoli, dove mio padre aveva preso per me un abbonamento mensile, mi davano per desinare una minestra, un lesso e un piatto d'erba; a cena: un piatto solo che poteva essere a mia scelta o di carne o d'erba. Il numero delle pietanze era giusto, ma troppo piccole le porzioni in confronto del mio giovanile e feroce appetito. Spesso preferivo le uova nel tegame, a qualunque gustoso intingolo, ma queste uova dovevano essere uno solo. Una sera, capitato alla trattoria con un appetito da lupi e sentendo che un uovo solo non mi sarebbe bastato, ne ordinai due. Il trattore fece qualche osservazione, ma poi mi contentò. Arrivati a saldare il conto mensile quell'uovo di più venne fuori nel conteggio e dette nell'occhio a mio padre, il quale mi fece un tal predicozzo che non mi venne più voglia di commettere atti di così grave indisciplina.

A quel tempo avevo per i miei minuti piaceri, e per i vizj mezzo paolo il mese (ventotto centesimi). Eppure avevo davvero anche dei vizj, eppure qualche volta quei 28 centesimi mi bastavano per fumare a pipa e per giuocare al biliardo, quando la generosità di qualche amico mi procurava un po' di tabacco in regalo, e più specialmente quando la sorte mi faceva vincere un soldo o due che io subito consolidavo in tanto tabacco trinciato che mi bastava per fumare come un turco finchè non l'avevo finito! Più spesso i miei compagni di giuoco mi ripulivano quel mezzo paolo, appena entrato, il primo del mese, nella bisca del Giugni; e allora astinenza assoluta fino alla nuova mesata.

Benedetti quei giorni e benedette quelle privazioni! Per merito loro non ho mai provato il morso delle voglie in tutto il corso della mia vita, non mai desiderio di agi e di mollezze, non mai invidia per chi gode in abbondanza questi agi e queste mollezze le quali ho sempre considerate, da vero e convinto Diogene, come ingombri molesti alla pace e alla comodità.

I miei maestri erano buona gente, ma inferiori al loro compito, tranne il buon vecchio Cianchi che insegnava la rettorica, e il canonico Rossi maestro di filosofia. Li ricordo con affetto riconoscente sebbene il primo fosse rigido e con una fisonomia austera che più tardi mi veniva rammentata da quella di Atto Vannucci, e il secondo venisse spesso in urto con me perchè ad ogni piè sospinto mi ribellavo con intolleranza forse troppo vivace contro le assurdità filosofiche che voleva darci a bere e che io non volevo bere ad ogni costo.

Insegnava Umanità un certo Paolo Pini modesto benestante di Empoli, che io non so come e da qual parte fosse rampicato su quella cattedra, poichè la sua inettitudine all'insegnamento in genere e la sua incapacità per quello che doveva impartirci era tale che non di rado ci accadeva fra occhiate furbesche e risate a stento represse, di correggere gli strafalcioni che egli olimpicamente svesciava nel tradurre Cornelio Nipote e la Catilinaria di Sallustio. Ma più che altro le ore delle sue lezioni erano impiegate a parlarci larvatamente e a mezza voce d'un suo romantico amore mal corrisposto; e ciò con nostra grande contentezza, perchè a noi non toccava far altro che star ad ascoltare dei maccheronici belati in prosa e in versi, con la certezza che su quelle materie non ci avrebbe chiesto, il giorno dopo, la ripetizione. E fin qui sarebbe andato tutto bene se in certi giorni non avesse dato sfogo al suo cattivo umore prendendoci a frustate come cani arrabbiati. Ma anche alle frustate ebbi a ribellarmi come agli assurdi filosofici del buon canonico Bossi, e le cose si misero un giorno parecchio male per me e per il Pini, quando egli, senza alcun motivo, mi si avventò facendo fischiare la larga cinghia che s'era tolta dai calzoni ed io ebbi a difendermi col panchetto sul quale ero seduto. Della scena non ricordo che il principio, perchè appena entrato in ballo persi il lume degli occhi e quello della ragione; ma so che per un mese ebbi a star lontano dalla scuola e che quel mese fu una lunga tortura di rimproveri e di minacce che mi fioccavano da casa, dai parenti, dagli amici e dalla direzione delle scuole fino a che non vi fui riammesso dopo l'umiliazione di chiedere scusa a chi aveva tutto il dovere di chiederla a me. Brutte cose a pensarci e più brutte a dirsi, ma che penso e dico in piena coscienza anche oggi dopo cinquant'anni circa da quel fatto. Tempi e metodi bestiali, soltanto tollerabili da bestie invece che da ragazzi intelligenti e coscienti della loro dignità umana.

L'ultim'anno che stetti a studiare in Empoli (1858-'59) ebbi anche un maestro di musica, un certo Rutili, un tenorino sfiatato in disarmo, buono, carino e abile nella sua partita; il quale, innamorato della mia vocina di agnellino tenoreggiante e del mio orecchio squisito, si mise con grande impegno a insegnarmi, con la sicurezza d'allevare una celebrità. Feci subito tali progressi che, dopo pochi mesi, ero arrivato a cantare, con un garbo che innamorava, cavatine e romanze da salotto che egli, con gli occhi lustri di tenerezza, mi accompagnava sul pianoforte. Terribile delusione di quel simpatico uomo! Il grande edifizio che egli credeva d'aver costruito su basi incrollabili non era che una bolla di sapone che si dileguò in un attimo quando, un giorno, insospettito, prese ad esaminarmi ed ebbe ad accorgersi che di note, di tempi, di chiavi, di battute e di tanta altra roba non sapevo affatto nulla, e che i solfeggi e le cavatine, dopo essermele fatte accennare una volta sola da lui con la scusa di scegliere quella che più mi fosse piaciuta, gliele rispifferavo a orecchio, battendo il tempo con la mano e tenendo gli occhi fissi al libro della musica dove avrei letto ugualmente se invece di note musicali ci fosse stata una preghiera a Budda, in caratteri cinesi.

A quel tempo, nella primavera del 1859, incominciò il passo delle truppe francesi attraverso alla Toscana, seguendo la via Pisa, Empoli, Firenze. Ogni mattina arrivavano in paese migliaia di quei soldati dai larghi calzoni rossi, dalle facce abbronzate e dall'aspetto spavaldo e marziale, che ai liberali parevano, piuttosto che uomini, angeli mandati da Dio per ripulire l'Italia dal sudiciume croato. Descrivere l'entusiasmo di quei giorni è cosa impossibile. Facevano tappa in Empoli passandovi le ore calde, e verso il tramonto ripartivano tra le frenetiche acclamazioni che li avevano ricevuti al loro arrivo. La gioia di un popolo che dopo secoli di esecrata oppressione straniera vede sicura e imminente la sua liberazione è qualche cosa che supera la fantasia umana. Era un delirio, era una febbre, era un'ossessione che portava tutti ad abbracciarsi, ad amarsi, e a sfogare l'impeto dell'animo commosso in canti, in grida, in lacrime di tenerezza, alle quali rispondevano attoniti e confusi quei bravi soldati. Essi, quasi portati in collo ad uno ad uno, passavano per le vie profusamente imbandierate e seminate di fiori che cadevano in pioggia dalle finestre gremite di donne, di bambini, di ammalati e di vecchi cadenti i quali, non potendo scendere nella strada, mandavano di lassù il loro saluto ai liberatori d'Italia. Tutto era pagato per i nuovi e cari arrivati: cibo, vino, sigari, liquori; ogni casa era aperta per essi e in ogni casa erano accoglienze festose come a fratelli desiderati, per i validi; cure amorose d'ogni sorta, per gli stanchi e pei malati.

Il 27 aprile, con la fuga di Leopoldo II da Firenze, aveva segnato il principio di queste gioie nazionali le quali, riaccendendosi tratto tratto alla notizia di vittorie, per Palestro e per Montebello, per Solferino e S. Martino, cessarono, convertendosi in un muto scoramento, dopo la pace di Villafranca.

Se e con quali fiamme nel cuore giovanile io partecipassi a tanta gioia non occorre dire. La mattina del 27 aprile io ero a Vinci, in vacanza. Mio padre, in compagnia di tre o quattro amici (quella pittoresca borgata, con una popolazione di circa trecento anime, fra le quali diciotto preti, non poteva dare un maggior numero di liberali), era quella mattina in grande agitazione perchè, da un momento all'altro, attendeva notizie di quello che egli sapeva dover accadere a Firenze. Quando giunse la notizia, circa il mezzogiorno, non so da chi e da qual parte, che il Granduca era scappato, che Firenze era in festa, e che la rivoluzione toscana era compiuta, una bandiera tricolore sventolò improvvisamente a una finestra della mia casa, poi un'altra sulla torre medioevale, e il vecchio campano incominciò a suonare a distesa mentre tutta la popolazione, meno i diciotto preti, uscirono in piazza e, come presi da contagio, cominciarono ad acclamare, forse incoscienti, alla bandiera che sventolava nel cielo sereno e a qualche cosa d'indefinito ma di grande che il campano annunziava con la sua voce solenne.

Mia madre cavò fuori una scatoletta piena di coccarde tricolori, mio padre me ne appuntò una sul petto dopo avermela fatta baciare, e con un gesto da farmi credere che in un attimo la mia statura fosse alzata per lo meno un palmo, mi disse: — Va' anche tu a fare allegria per la patria! —

Quanto cammino aveva fatto il mio paese in pochi anni, dai fossi di Livorno dove andavo a pescare i crògnoli, col pittore Baldini, guardato in cagnesco dagli Austriaci che passavano in pattuglie arcigne e taciturne nel silenzio dei fossi, alla piazzetta di Vinci imbandierata e risuonante di grida festose, di inni patriottici, e di alte acclamazioni al caporale degli zuavi di Palestro, e al fatato eroe di Como e di Varese: Garibaldi, Garibaldi!

Una frigida sera del novembre 1859 (avevo allora circa 15 anni e mezzo) ebbi a combattere vittoriosamente per amore di Garibaldi contro i nemici d'Italia.

Bisogna sapere che il mio oste, Bista di Baldo, era un codino e clericale della più bell'acqua, e nella affumicata stamberga, a pian terreno, della sua trattoria, capitavano tutte le sere a veglia tre o quattro dei più terribili reazionari che producesse allora la feconda terra di Empoli. Si radunavano seduti intorno a un braciere di rame, e , fino a chiusura di bottega, era uno sfogo brutale delle loro anime nere a versar rabbia e ridicolo contro l'Italia e contro i più alti ed eroici fautori della sua indipendenza. Seduto presso cotesto braciere mi trattenevo spesso anch'io, nelle serate più rigide, dopo aver fatta la mia cena frugale.

Una di coteste sere, quei grossi beoti la presero con Garibaldi, e cavaron fuori dalle loro stupide animacce, scagliandolo contro di lui, tutto il sudiciume che avevano dentro. Io stavo zitto e sospiravo grosso. E il mio silenzio e i miei sospiri ingrossavano a vista d'occhio via via che quei bricconi rinforzavano la dose delle loro spiritosaggini, fra grandi risate. Avevo preso in mano la paletta di ferro e, per far qualche cosa anch'io, che seguitavo a stare zitto e a sospirare affannoso come se una palpitazione di cuore mi soffocasse, badavo a sbraciare il fuoco con insolita energia, quando uno di costoro, guardando me, uscì fuori in queste parole:

—.... Eppoi, guardate chi sono quelli che bocian più forte alle smargiassate di questo pagliaccio: canaglia e ragazzi! —

La prima palettata fu sua, eppoi giù un diluvio di botte, dove andavano andavano, sulle teste e nelle ghigne di quei neri zucconi, i quali, rimasti attoniti a quell'assalto inatteso, se le prendevano tutte senza fiatare. Quando però si furono riavuti dalla sorpresa, mi saltarono tutti addosso per disarmarmi, ma senza poterci riuscire perchè io, battendo in ritirata mostrando loro la faccia, arrivai alla porta; e quando fui sulla soglia per uscire, arrandellai nel branco la paletta, e corsi a tremare di rabbia e di freddo nella mia cameruccia.

Dopo questi fatti parrebbe che io fossi già o dovessi diventare un rompicollo temerario e manesco. Niente affatto. Una sola volta in vita mia, dopo quella sera, ebbi occasione di menare le mani, a Pisa, più per burla che sul serio, contro un arfasatto il quale m'aveva truffato pochi soldi, facendomi passare da citrullo in faccia ai miei compagni dei quali mi premeva mantenermi la benevolenza e la stima.

Quell'anno fu l'ultimo degli studi che mi condussero alle porte dell'Università. Avevo fatto un anno il corso di Grammatica senza aver imparato di quella scienza tanto che bastasse a distinguere il nome dal verbo; un anno di Umanità, uscendo da quella scuola così saturo di scienza da saper qualche cosa meno di quando c'entrai; un anno di Rettorica, fortificandomi bastantemente nel latino ma rimanendo così digiuno d'italiano (frutto del nulla che m'era stato insegnato nelle altre classi) che non sarei stato capace di scrivere un lungo periodo senza incastrarci spropositi di grammatica, d'ortografia e di sintassi. Alla così detta Rettorica andava accompagnata la così detta Filosofia. Da quella, poi, uscii con la testa in ciampanelle e con una grande avversione contro il canonico Rossi il quale mi voleva un gran bene e al quale ne volevo altrettanto io. Acerrimi nemici in filosofìa, personalmente amici cordialissimi.

E il buon Rossi fu, incoscientemente, quasi la mia rovina se rovina può chiamarsi l'incertezza de' miei primi passi negli studj universitari e la necessità di trovarmi, dopo un anno, a dover lasciare gli studj di medicina e di dovermi dare all'Agraria per le cause che dirò subito.

Mio padre si occupava pochissimo di me e de' miei studj, tantochè tutta la sua sorveglianza si limitava a domandare, di quando in quando ai maestri, de' miei portamenti. Stava zitto quando gliene dicevano bene; mi dava un'occhiataccia quando gliene dicevano male o al più al più, mi accennava vagamente alla necessità di mettermi in una bottega di legnaiuolo o di fabbro. E tutto finiva qui. E, veramente, per farmi pensare a' casi miei bastava il fatto che io dovevo, da me solo, prendere delle solenni risoluzioni come quella della scelta d'una professione, e fare quanto occorre, come si direbbe oggi, di pratiche burocratiche per collocare un giovinetto di sedici anni all'Università. Mia madre, povera donna, suppliva; ma la sua incompetenza in simili materie, benchè intelligentissima e, per quei tempi, bastantemente colta ed istruita, paralizzava la sua buona volontà.

Il Canonico Rossi provvide a tutto; ma, veramente non provvide a nulla se non a darmi lui un esame che chiamò d'ammissione all'Università, a rilasciarmi un certificato dell'esame sostenuto e a spedirmi a Pisa, dove, in compagnia di mia madre, arrivai la sera del 10 novembre 1859, pieno di gioia d'essere finalmente arrivato a far parte della lieta baraonda che doveva apprestarmi i quattro anni più felici della mia vita.

La mattina di poi ci presentammo dal Segretario Tortolini il quale non poté ammettermi fra i novizi in medicina perchè non avevo dato l'esame regolarmente, perchè mancava questo, perchè mancava quest'altro e perchè il certificato del canonico Rossi valeva precisamente quanto il due di briscola.

Il Tortolini disse a mia madre quello che lei doveva dire al Rossi, a me disse che intanto frequentassi i corsi come uditore e che, se fosse stato possibile, si sarebbe rimediato a tutto. Non so quello che accadesse perchè io, per la naturale spensieratezza dell'età e distratto dalla mia troppa felicità, non me ne occupai, ma so che arrivati in fondo all'anno, nonostante che avessi sulle dita l'osteologia in specie, e in genere le altre materie di studio, non fui ammesso all'esame di passaggio al secondo anno e mi fu detto, anzi, che io non ero considerato come scolaro dell'Università, e che, come tale, non sarei mai stato considerato senza che io dessi regolarmente l'esame d'ammissione.

Il povero canonico Rossi, con la sua inesperienza, m'aveva, conciato per il delle feste!

Che si fa? Al difficile esame per essere ammesso alla facoltà di medicina non potevo assolutamente espormi, perchè in un anno avevo già quasi dimenticato quel pochissimo che m'avevano insegnato; per gli studj legali sentivo ribrezzo; le scienze naturali mi sarebbero piaciute, ma quelle, m'aveva detto sempre mio padre, sono studj da signori e noi siamo poveri; per le matematiche non ero preparato, e, in ogni modo, per ciascuna di queste facoltà l'esame era della stessa importanza e delle stesse materie. Non mi restava da scegliere che fra la Veterinaria e l'Agraria. Scelsi la seconda, un po' per l'amore dei molti rami di scienze naturali che fanno parte di quegli studj e un po' perchè attratto dal nome del Cuppari che allora era l'anima di quella facoltà. A suo tempo detti il lieve esame e passai bene; e così, dopo aver impiegato un anno inutilmente a studiar medicina, assodai finalmente il piede come novizio nella facoltà di Agraria. Ma ero mortificato. Gli studj della medicina mi piacevano e m'avrebbero portato alla laurea; quelli dell'Agraria che oggi finiscono col titolo di dottore, allora non portavano che alla licenza cioè a un titolo accademico che io, senza peccare di vanità, sentivo inferiore, non dirò alle mie forze ma, certamente, alle mie aspirazioni. Chi sa che tutto questo male non sia accaduto che per farmi del bene! Dunque lodiamo il canonico Rossi, il segretario Tortolini e il mio buon vecchio il quale, mentre io mi dibattevo fra tante difficoltà, sceso da cavallo dopo le visite e seduto sulla porta dell'appalto di Cencio Perini, consumando enormi pipate di tabacco, scaricava la grandine dei suoi stupendi e feroci epigrammi contro i diciotto preti e contro i gonzi e contro i bricconi di Vinci.

A Don Carlo Salvi, detto di soprannome «Prete Loia» (il Capitano in bestialità e in presunzione dei sullodati diciotto preti) il quale, un giorno, incontrato per la via, aveva detto a mio padre: — Lasciatemi andare, dottore, perchè ho un appetito divoratricecapitò fra capo e collo questo epigramma dopo una disputa nella quale Don Loia inviperito, sosteneva d'aver detto bene.

Chi sa che pensa, chi sa che dice

Prete Appetito divoratrice!

Forse egli medita, nel nero core,

Qualche vendetta sterminatore!

 

E tornando un passo indietro, dirò, fino dal mio primo arrivo a Pisa, qualche cosa di quella vita, di quei quattro anni per me più dolcemente memorabili, e lo dirò a sbalzi e a episodi i quali basteranno a far conoscere a voi, bambini miei, che cosa era la vita dello studente universitario a quei tempi, prima che la maledetta politica, perduto il puro obbiettivo della indipendenza, venisse a turbare gli animi e a mettere il malumore e la discordia dove, da secoli, era il regno della concordia e dell'allegria. E nell'ascoltare di tante chiassate per le quali tutti eravamo in movimento il giorno e la notte, non vi crediate che non trovassimo anche il tempo di studiare, non dirò molto, ma quel tanto che bastasse per presentarci con onore agli esami. Ciò vi sia confermato dal fatto che dalla brigata dei miei più cari amici, da quella brigata rumorosa e geniale più di tutte le altre, sono usciti uomini che tutti, tranne pochissime eccezioni, hanno fatto onore alla patria, dalla cattedra, dal foro, dalle lettere e dai seggi ministeriali dello Stato.

Ed eravamo allora tutti buoni, anche quei pochi che dopo diventarono cattivi, perchè le ire dei partiti e delle sètte non erano entrate a intorbidare precocemente la serenità dei nostri giovani cuori.



 

 

 


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