Renato Fucini
Foglie al vento

PRIMI RICORDI

A PISA

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A PISA

(dal 1859 al 1863)

 

Il 10 novembre dell'anno 1859, accompagnato da mia madre, vidi per la prima volta quella dolce Pisa alla quale, da qualche anno, per i racconti di mio padre, per quelli degli amici che mi vi avevano preceduto, per i versi del Giusti e per le leggende che della lieta baraonda andavano in giro sulle bocche di tutti, tenevo rivolti gli occhi del cuore con la esaltazione d'un innamorato. Pioveva ed era freddo; la città era silenziosa e deserta, eppure il cielo di Palermo e di Napoli non mi è mai sembrato più sereno più tepido di quel triste cielo di novembre; altra città mi è sembrata mai più allegra e popolosa di quel che fosse il deserto di Pisa in quel soave pomeriggio piovoso.

Il mio entusiasmo era silenzioso. Tutt'e due fradici e inzaccherati, mia madre ed io, giravamo per Pisa in cerca d'una camera da prendersi in affitto. Dopo aver molto girato inutilmente, incontrammo il mio cugino Davide Gei di Calci, allora studente in quelle scuole comunali, il quale mi offerse di andare ad allogarmi con lui da una vecchina magrina magrina, in una Casina piccina piccina posta in via Cariola, presso il Portone, dinanzi alla casa Barboni, dove in una cameraccia stretta stretta v'era un lettone grande grande per dormirci tutti e due, tre seggiole, un cassettone, un tavolino sgangherato, e basta. Piacque la via, piacque la compagnia del mio cugino, e, non essendo dispiaciuta neanche la somma mensile di cinque paoli (Lire it. 2,80!) chiesta per l'affitto, tutto fu convenuto e stabilito, e la sera dopo ne presi possesso.

Concluso l'importante affare, andammo a cena alla Cervia, di al Caffè dell'Ussero, dove ebbi la prima conferma di quello che mi aspettava, guardando dal mio stretto incognito la folla rumorosamente gioconda degli studenti che gremivano il locale.

Prima di tornare al nostro alloggio, volli avere un ricordo di quel giorno; e fermatomi all'appalto sull'angolo dei Lungarni con via della Sapienza, comprai una pipa di legno che conservo tutt'ora e che da pochi anni ho messo in un meritato riposo. Conservatela quella pipa a me tanto cara e tramandatela ai più lontani. Con quel puzzolentissimo arnese in bocca, ho trascorso i giorni più belli della mia vita sul mare, nei boschi, nei paduli e sui monti.

Sulla misura delle lire 2 e 80 il mese per l'affitto della camera sono state tutte le altre spese per il mio mantenimento fino da quando mi allontanai da casa per i miei studi a Empoli e a Pisa. Il seguente specchio che copio da un foglietto trovato fra le carte della mia povera mamma, minuziosa e precisa fino allo scrupolo, serve a dimostrare le ristrettezze economiche nelle quali ero tenuto.

Speso per Renato a Empoli

negli anni 1856-'57-'58 e '59: L. 850,92

Speso c. s. in Pisa negli anni

1860-'61-'62-'63: » 1792,09

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Totale L. 2643,61

 

In otto anni lire duemilaseicentoquarantatre e centesimi sessantuno! Ma, v'è da osservare che le prime lire 850, dall'anno 1856 al 1859, erano toscane e non italiane, cioè lire di 84 centesimi e non di cento. Così il totale viene diminuito di L. 136,14 e ridotto a lire 2507,47, salvo errori.

Eppure io vissi senza sopportare gravi privazioni, senza sfigurare troppo fra i miei compagni, alcuni dei quali molto ricchi e lautamente provvisti, senza far un centesimo di debito e senza lamentarmi. Conoscevo quello che guadagnava mio padre a quei tempi, e ciò mi bastava per sapermi regolare. Alla trattoria, le pietanze che costavano meno ed empivano molto erano quelle che più mi piacevano; il vino m'incaloriva, i poncini, peggio che mai; il sigaro mi faceva sputar troppo e lo sostituivo con la pipa; le gambe le preferivo sempre alle vetture perchè avevo bisogno di moto; da molte cene e ribotte dispendiose mi astenevo perchè non mi sentivo bene; i vagoni di seconda classe li scansavo come la peste perchè nell'estate v'era troppo caldo, nell'inverno erano troppo chiusi; per vestirmi, davo la preferenza, patriotticamente, ai tessuti nostrali e specialmente a quelli più ordinari. Ma del benefizio di questa dieta ho sentito gli effetti per tutta la vita, e benedico quelle angustie economiche come il più prezioso libro di educazione che mi sia passato di sotto gli occhi. Ora, da vecchio, mi trovo nell'agiatezza, ma di questa non sento che gli inconvenienti; e tutte le volte che mi accade di comprare cartelle di qualche lotteria con premio di cento e anche di cinquecento mila lire per il vincitore, l'esclamazione che mi viene spontanea alle labbra è questa: — Ma se, Dio mi guardi, vincessi! —

.... Mia madre partì la mattina di poi. Rimasto solo a Pisa, mi ricordai che mio padre mi aveva dato una lettera di presentazione per Beppe Dell'Omodarme, il capopopolo di Pisa. I due giovani cospiratori s'erano incontrati e s'erano intesi a Campiglia Marittima dove mio padre risiedeva come medico della Commissione sanitaria, e dove Beppe capitava di quando in quando per sorvegliare una sua officina di carradore. Recatomi al Portone dove Beppe abitava, e non sapendo la sua casa, bastò che io rammentassi il suo nome perchè alcuni popolani, guardandomi con simpatia, me la additassero e premurosi mi vi accompagnassero. Beppe, come ebbi poi ad accorgermi, era il loro re, il loro imperatore, il loro Dio. Egli era un bell'uomo per l'alta e robusta persona, ma non bello di viso per causa del naso rincagnato come quello di Michelangiolo. Ma il lampeggiare dei suoi occhi e il vigore e la bontà dell'animo che scaturivano da quei lampi, lo facevano a prima vista simpatico e quasi bello. Parlava rozzo e a sbalzi, intercalando circa dieci bestemmie fra mezzo a cinque parole; e, parlando, lavorava di bracci e di mani con tanta energia che ne seppe qualche cosa il mio esile corpicciuolo quando fu investito dalle sue carezze.

Pezzo di sbarazzino! Dio...! O che sei 'l figliolo der mi' Davide?! O quant'anni hai? Qua, Dio..., dammi un bel bacione collo schiocco e io te ne due: uno per te e uno per el tu' babbo. Che sei venuto qui a studiare? O quando sei arrivato?... Hai bisogno di nulla? Voi mangiare? Voi bere? Giù, mettiti a sedere e ricordati. Madonna..., che qui sei come in casa tua!... — E mi strizzava e mi sballottava amorosamente con quelle sue mani pelose che erano grosse e calde come il suo cuore.

Ho detto che egli era il re, l'imperatore, il Dio dei popolani di Pisa. Era vero. Cedendo al fascino di quell'anima onesta e generosa se lo erano eletto spontaneamente per loro capo, e dipendevano così fiduciosamente da lui che una sua parola, un suo cenno, una sua bestemmia erano capaci di ridurli all'istante da tigri in conigli e viceversa. Ed ebbi occasione di vederlo più volte alla prova.

Una sera di carnevale, pochi giorni dopo la morte di Cavour, si sparse per Pisa la voce che nel palazzo Scotto, sui Lungarni presso il ponte della Fortezza, l'aristocrazia nera della città doveva riunirsi per festeggiare con un ricevimento e con un ballo il triste avvenimento che aveva messo nel lutto tutta l'Italia. Non so se lo scopo della festa fosse veramente quello attribuitole; ma tutti prestarono fede a quella voce. La popolazione era in fermento; gli scolari non stavano alle mosse per mostrare il loro sdegno e per impedire agli sciagurati austriacanti la vergognosa e imprudente dimostrazione. Verso l'imbrunire incominciarono a formarsi dei capannelli dinanzi al caffè dell'Ussero, e in poco tempo tutta la scolaresca, meno gli ammalati, credo io, era radunata, con le mani sui bastoni e con gli occhi al triste covo reazionario. Fra le nove e le dieci incominciò il via vai delle carrozze sulla piazzetta che si slarga dinanzi a quel palazzo, e da molte delle sue finestre principiò a farsi viva la sfarzosa illuminazione dell'interno. Passarono alcuni quarti d'ora che alla impazienza di tanti giovani parvero secoli, e finalmente, avuto avviso da alcuno delle nostre scolte che il ballo era incominciato, tutti, in un folto gruppo, seguiti da un nuvolo di popolani, ci muovemmo a passo di carica per entrare in ballo anche noi. Da prima urli, fischi e imprecazioni, poi sassate ai vetri alti e bastonate a quelli del piano terreno; e, da ultimo, con un crescendo infernale, tonfi al portone e botte di bastoni, di mazze ferrate e di pali, fatti capitare nelle nostre mani non si sa da qual parte da chi.

Il contagio della furia si allargava pericolosamente, i più tranquilli erano diventati i più furibondi, e l'affare minacciava di farsi molto grave. Nel palazzo doveva esservi lo spavento. L'illuminazione si spense a un tratto e si udirono grida e si videro ombre di persone fuggenti le quali, come fu risaputo dopo, scappavano terrorizzate attraverso ai giardini e si disperdevano per una porticina segreta in fondo al recinto. Intanto i colpi nel portone raddoppiavano nonostante che un delegato urlasse e si sbracciasse dall'alto d'una carrozza.

Vennero guardie, vennero carabinieri e venne anche il Prefetto in persona; ma le minacce di quelli e gli argomenti di questo non valsero a nulla: il clamore e i tonfi intorno a quel povero portone crescevano col crescere della sua resistenza. Non so a chi venisse la buona ispirazione d'avvisare Beppe Dell'Omodarme, il quale, nel momento proprio urgente comparve, e lavorando di braccia come se nuotasse di spasseggio sulle nostre teste, venne a mettersi in mezzo al tumulto gridando:

Ragazzi, Dio....! o che stasera avete perso il giudizio peggio di quelli lassù che ballano?! Che noia vi danno? O che forse, Dio..., o che forse son venuti a ballare in casa vostra? Lasciateli sfogare la bile che hanno ne' buzzacci verdi e finiamola! Finiamo le ragazzate; e voi, se volete bene al vostro Beppe, Dio...! tutti a casa, tutti a casa, Madonna...., e subito! Se no, sculaccioni a iosa e a letto senza cena! — Una formidabile risata accolse la ciceroniana allocuzione di Beppe, un lungo applauso soffocò la sua voce, e fu intorno a lui una ressa dei più vicini, che gli s'avventavano addosso per abbracciarlo.

Una mezz'ora dopo la piazzetta era tornata deserta e tutto il rumore dell'avvenimento s'era allontanato silenziosamente verso le desolate regioni dell'oblio.

Giacchè mi è capitato di parlare di questa bella e generosa figura di popolano, non voglio lasciarla senza prima raccontare un altro fattarello che serve a illuminarne l'originalità.

Beppe Dell'Omodarme, trovandosi in ristrettezze economiche dopo aver dato quasi tutto il suo alla causa dell'indipendenza italiana, fu chiamato, per suggerimento di molti patriotti, da Vittorio Emanuele II a coprire un impiego sufficientemente lucroso nell'amministrazione delle caccie reali di San Rossore. Per quello che ne aveva sentito dire e piacendogli a prima vista la maschia figura di Beppe, il Re volle averlo spesso accanto, nelle cacciate. Ma, conversando poi coi suoi intimi, si mostrò un po' deluso, dopo quello che dal fiero popolano si aspettava, perchè lo aveva trovato troppo taciturno. Ed era vero. Non essendo libero di bestemmiare a suo piacere, Beppe non sapeva aprir bocca dinanzi al Re, o, se l'apriva, non erano che poche parole e molte reticenze accompagnate da forti stringimenti di pugni e stralunamenti d'occhi e rabbiose grattature di capo.

Vittorio Emanuele che nel suo animo di soldato e di cacciatore aveva un largo fondo di buontempone, fece sapere a Beppe che anche dinanzi a lui avrebbe potuto parlare liberamente, secondo la sua usanza. Beppe non se lo fece dire due volte. Qualche sacrifizio e qualche soppressione avrà dovuto imporre al suo linguaggio abituale; ma diventò immediatamente il Beppe di prima anche dinanzi al Re che spesso si compiaceva di stuzzicare la sua facondia, invitandolo a parlare di politica e di caccia. Questo io seppi da una persona del seguito reale con la quale ebbi intimità molti anni dopo.

Pare che a quei tempi il nome di Giuseppe fosse apportatore di buone promesse e di buona fortuna: Beppe Mazzini, Beppe Garibaldi, Beppe Giusti, Beppe Dolfi capopopolo adorato dei fiorentini, Beppe Dell'Omodarme e chi sa quanti altri Beppi celebrati dalle popolazioni e non conosciuti dalla storia, nelle piccole città, dai larici di Susa ai fichi d'India di Trapani. Ora i capipopolo non usano più. Con una spudorata finzione d'altruismo, oggi, ogni ventre pensa per , e, abolito Cristo, altro non adora che l'osteria per fabbricare dello sterco evoluto e cosciente.

Ma torniamo alla Pisa gioconda de' miei tempi, e sciacquiamoci la bocca dall'amaro che, senza volerlo, è venuto a gola.

A Pisa ho passato i più begli anni della mia vita. Sbucato fresco fresco dalle stoppie di Dianella e dai boschi di Vinci, e arrivato come un puledro selvaggio in mezzo a tanta allegria e tanta nuova baraonda, mi sarei trovato, sul primo, quasi sgomento se i racconti uditi da mio padre e le leggende che correvano allora sulla vita pittoresca dello studente universitario non avessero confortato il mio cuore, avido di vivere e di godere, a farmi sicuro che avrei trovato il vero pane per i miei denti. E ce lo trovai!

Superate le prime difficoltà di farmi accettare nella compagnia dei più intelligenti e più rumorosi che avevo subito adocchiato, incominciai a trovarmi al mio posto. Ma le difficoltà non furono poche lievi. Imbacuccato in abiti grossolani più lunghi e più larghi del vero perchè fatti, come si suol dire, a crescenza, mi vedevo guardato con sprezzante diffidenza tutte le volte che mi accostavo alle loro comitive, e il colmo dell'umiliazione dovevo provarlo quando, imbrogliato dalla soggezione e impastoiato dal gran desiderio di far capire con la parola che anch'io valevo qualche cosa, non mi venivano alla bocca che semplici e stentate espressioni le quali non mi fruttavano che sghignazzate di benigno compatimento e voltate di spalle. E rimanevo solo a rodermi di sconforto e di rabbia.

Ma tutto questo me lo meritavo per punizione d'aver messo la mira un po' troppo alta. Il mio guscio era rozzo, ma dentro avevo già il germe di quei sentimenti che mi hanno portato a idolatrare l'ingegno e la finezza d'animo e a sentir ritegno per i cervelli duri e per le anime triviali. I miei sguardi si erano posati su quello che di meglio era arrivato a Pisa dalla Toscana e specialmente da Firenze e da Livorno. Non voglio rammentare i nomi dei miei più cari amici; ma posso compiacermi di dire che molti si sono innalzati sulla folla dei mediocri, alcuni sono giunti alla celebrità, tutti sono diventati uomini utili al Paese, pochissimi i perduti nel vizio e nel disonore.

La mia posizione me la assicurai finalmente la sera che fui indotto a pagare il noviziato. Trascinato nel caffè dell'Ussero e obbligato a placare a suon di ponci una folla d'assetati, bevvi anch'io, mi riscaldai e parlai..., Pare che parlassi assai bene perchè mi sentii acclamato, fui portato in trionfo per un buon tratto dei Lungarni, e da quella sera ebbi voce in capitolo fra tanta geniale canaglia.

E quel giorno ebbe principio la prima serie dei più belli anni della mia vita. Dico prima serie perchè altre ne ebbi e non poche; ma il ricordo di quella è rimasto più caldo nella mia memoria come il ricordo del primo amore. E ora vorrei, ragazzi miei, vorrei descrivervi con la mia povera penna le dolcezze di quel primo tuffo nel mare della vita, la febbre della gioia e della contentezza, che avevo sempre ad altissimo grado; e le burle e le chiassate e la sconfinata e spensierata libertà, e il godimento di quegli studj (perchè tanto io quanto i miei amici sapevamo trovare anche il tempo di non far buttar via ai nostri genitori i denari), in fondo ai quali mi pareva di vedere, sognando, non impieghi e quattrini come sognano i bottegai, ma le grandi soddisfazioni dell'intelligenza e del cuore e il roseo fantasma della gloria.

Vorrei descrivervi tutto questo minutamente, e lo farei divertendomi, ma lo stato del mio animo in questi anni della mia vecchiaia è tanto colmo di sconforto quanto le mie membra sarebbero piene di salute. E in tale stato d'animo mi sento ghiaccio e non posso andare innanzi con questo scritto. Ormai la mia genialità è morta da molto tempo.

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Da quando scrissi le amare parole vergate qui sopra, sono passati molti anni.

Riprendo stanco la continuazione di questi poveri ricordi. Oggi è il 29 Marzo del 1911; fra un mese e dieci giorni avrò compiuto i miei sessantotto anni. Continuo a scrivere queste pagine per distrarmi. Ad altri scritti non vi è più da pensare dopo che i tristi casi della mia vita hanno resi abbandonati e sterili i più begli anni della mia maturità. E torniamo ai ricordi di Pisa.

A quei giorni così poeticamente procellosi per le eroiche vicende del nostro Paese, poche e serene passioni agitavano i cuori di noi giovani: l'amor della nostra Italia e l'ardore sconfinato di goderci la vita. Il dovere degli studj metteva un po' di freno ai nostri bollori; ma non ci toglieva il tempo per il resto; e, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, o bene o male, arrivati in fondo all'anno, tutti, meno pochi zucconi o scioperati, s'arrivava a strappare ai professori i voti sufficienti per il passaggio. Circa un migliaio di scolari, circa un migliaio d'amici. Le maledette divisioni politiche non avevano ancora incominciato a mescer veleno negli animi dei cittadini d'uno stesso paese; e, se si toglie qualche repubblicano arrabbiato e qualche taciturno allievo di retrogradi, tutti non avevano che uno scopo: cacciare gli Austriaci dal suolo d'Italia; tutti non avevano che un grido, il grido insegnatoci da Garibaldi repubblicano: «Italia e Vittorio Emanuele». Fortunati noi che abbiamo vissuto quei giorni! Fortunati noi che abbiamo assistito alla resurrezione di un popolo, da Curtatone a Magenta, da Magenta alla breccia di Porta Pia! — Più tardi ho letto diecine e diecine di libri con descrizioni di quei giorni e di quegli avvenimenti, libri scritti da penne valorose, dettati da cuori bollenti; ma tutto appare come scialbo e velato per chi ha negli occhi e nell'anima la vista e il ricordo di quei giorni sacri. La favola di un poema si può ben capire narrandola; una grande sinfonia di strumenti musicali bisogna sentirla, una grande sinfonia di anime bisogna vederla. Benedetti voi tutti, martiri ed eroi che deste sangue e ferro a chi da secoli ci dava sputi in faccia e frustate! Benedetta la generazione alla quale appartengo, benedetta nei secoli dei secoli, benedetta perfino nei vili e nei traditori, perchè anch'essi, o traviati da falso giudizio o incoscienti, hanno portato il loro sassolino al gigantesco edifizio!

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