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M'aveva dato nell'occhio da un pezzo, ma non avevo mai fermata l'attenzione sulla persona alta e magra, sul volto sempre giovane nonostante le rughe profonde che lo solcavano, nè su quegli occhi dolorosamente sorridenti del vecchio pensoso e taciturno.
Tutte le sere, alla stessa ora, attraversava lentamente la lunga stanza del Caffè, appoggiandosi a un forte bastone; e, appena giunto in fondo, sedeva in un angolo quasi al buio, dove un antico tavoleggiante, da lunghi anni abituato, era pronto a salutarlo e a posare dinanzi a lui, sul marmo del tavolino, il solito ponce, il solito giornale e il solito fiammifero per accender la pipa.
Il tavoleggiante andava occuparsi di altri avventori; lui restava solo a leggere, a sorseggiare e a fumare.
Qualche anno addietro a quel tavolino erano quattro. E a quel tempo venivano dal remoto cantuccio della stanza voci e rumore di accalorate discussioni. Poi rimasero in tre; e le voci diventarono più basse e più rade. Poi rimasero in due; e le voci e i rumori quasi cessarono. Da sei mesi il vecchio taciturno è solo; e da quell'angolo ora non viene che il fruscio del giornale, qualche rado colpo di tosse e, a regolari intervalli, quelli della pipa battuta sul marmo per vuotarne la cenere.
La sera che ebbi occasione di conoscerne un po' meglio la persona e la voce, il Caffè era quasi deserto. Pioveva ed era freddo. Due campagnuoli impastranati a un tavolino, il piccolo crocchio nel quale mi trovavo io, e i due tavoleggianti, uno in cima e uno in fondo, seduti a sonnecchiare. In una casa vicina facevano musica e allegria; e i suoni e le voci giungevano così chiare fino a noi che, lasciato il chiacchiericcio, ci mettemmo attenti ad ascoltare.
L'allegra brigata cantava e suonava un po' di tutto: e dalle più astruse melodie vagneriane barbaramente sciagattate passava, all'improvviso, a canzoni popolari energicamente vociate in pieno coro, con interruzioni di grandi risate e di evviva!
Durava da qualche minuto la musicale gazzarra quando, all'intonazione di un canto lento e solenne, a noi sconosciuto, vidi il vecchio incrociare le braccia sul marmo del tavolino e affondare fra quelle la testa, mentre tutta la sua persona si agitava in forti scosse come se piangesse dirottamente.
I due tavoleggianti corsero da lui, dando a noi un'occhiata di interrogazione e di sgomento.
— Signor Licurgo, si sente male? —
II vecchio rispondeva di no, tentennando la testa, sempre affondata fra le braccia.
— Ha bisogno di qualche cosa, signor Licurgo? —
Dopo un lungo silenzio, il vecchio si alzò lentamente, si guardò dintorno, asciugandosi gli occhi gonfi di lacrime, e, dopo essersi calcato il largo cappello sulla fronte, afferrò con mano tremante il bastone, lasciò il suo posto per andarsene e, quando passò dinanzi a noi che lo guardavamo stupefatti:
— Altri tempi, signori — disse, irridendo quella sua passeggiera debolezza. — Sono un poeta.... sono un sognatore.... la musica mi commuove.... Scusatemi, signori. Buona notte. —
Ed uscì fuori fra la pioggia che cadeva a diluvio, senza neanche sentire la voce del vecchio tavoleggiante il quale, affacciatosi sull'uscio, gli diceva:
— Piove troppo forte, signor Licurgo. Vuole un ombrello?... Prenderà un malanno, signor Licurgo. —
La robusta figura del vecchio si dileguò nel buio della larga piazza sterrata, e il pietoso tavoleggiante rientrò nel Caffè, guardando accorato i nostri occhi che lo interrogavano.
— Io lo so che cosa ha avuto il signor Licurgo — disse Beppe, fermandosi alle mie spalle, accanto al tavolino dove stavo seduto fra i miei amici.
— Io lo so. Questa, medesima scena accadde un'altra volta.... sarà ora una diecina d'anni. Allora a quel tavolino erano tre! Si abbracciavano e si stringevano fra loro le mani; e vollero un altro ponce perchè passò una brigata di giovanotti che cantavano, al ronzìo di mandolini e di chitarre, l'inno di Garibaldi.
Quello che cantavano poco fa quei signori in quella casa, era un inno del Quarantotto. Lor signori a quei tempi non erano neanche nati. Io ero bambino, ma me ne ricordo come se fosse ora. Lo cantava il popolo qui fuori, là, in mezzo alla piazza, intorno all'albero della libertà, dove ora c'è quella fontana e quelle panchine di pietra.
Il signor Licurgo s'è intenerito a risentire quel canto; e io.... io non sono stato buono a dirgli nulla perchè m'ero intenerito anch'io. Che imbecilli, che imbecilli siamo! —
Ma io lo fermai e gli domandai:
— Lo conosci bene, tu quel signore?
— Quel signore! — mi rispose il vecchio Beppe, sorridendo amaramente. Ma riprese subito, correggendosi:
— Sì, un signore è, dice bene lei. Ma il signore gli è rimasto soltanto negli occhi e nel cuore. Se lor signori sapessero di quel galantuomo tutto quello che so io.... Ma già è meglio non raccontarne nulla. L'ultima volta che parlai di lui a una comitiva di giovinastri che erano qui a bere e che, dietro le spalle, lo avevano messo in canzonella, m'ebbe a costar cara. Prima mi trattarono d'ogni vituperio, poi, chiamandoci anche forcaioli, poco ci corse che non bastonassero me e il padrone; e se n'andarono via urlando, senza pagare.... Mi lascino andare, mi lascino andare. —
E dopo essersi accostato a un avventore entrato allora, dette al marmo una strusciata col cencio, dette a noi un'occhiata, scontrosa, e si avviò verso l'uscio della cucina, brontolando incoscientemente la solita menzogna:
— Fai un caffè apposta.... ben caldo! —
Notizie dell'antico patriotta ne ebbi dopo, per caso e per sommi capi, da un suo nipote il quale, dando ora in escandescenze di sdegno, ora in sonore risate contro il vecchio brontolone e sognatore, me ne parlava. Al tavoleggiante, ormai sospettoso e quasi diffidente della nuova aria, del proprio senno e della propria onestà, non fu possibile tirar fuori altro che dei ma dubitosi, dei ruvidi scrollamenti di capo e dei larghi gesti di scoraggiamento.
E il nipote mi raccontava; e scambiando lo sbalordimento che dovevo avere nel viso per annuenza al ghiaccio mortale delle sue parole, mi incalzava di: — Ma ne conviene?! Mi corregga, se sbaglio! Le par giusto?! Non direbbe lo stesso anche lei? Non le verrebbe voglia di ridere, se non fossero cose da far piangere?! —
Io tacevo e lo guardavo. Lui continuava:
—.... Un patrimonio.... e che bel patrimonio! mandato in rovina fino alle ultime barbe; tutto dilapidato in bandiere, opuscoli, fucili e sovvenzioni a una turba di vagabondi che si chiamavano emigrati! Eppoi le mangerie di chi restava quando lui era in prigione o in esilio; e più tardi tutte quell'altre quando perse anni e anni nelle campagne, che fece tutte dalla prima fino all'ultima! E mio padre era con lui; e noi altri a casa a piangere. E ora tocca a me a dover mantener tutti, con quel bell'impiego di cento liracce il mese, schiavo d'un sindaco bestia e d'un segretario più bestia che mai!
Lo vada a dire a lui, e sentirà! Glielo domandi la bella ricompensa che gli è toccata. Se la faccia dire la bella pensione che s'è guadagnato per la vecchiaia! Per lui tutti sono buona gente, e non si accorge che tutti lo imbrogliano.
E fosse almeno finita qui! Se almeno si contentasse di stare a casa, di dar retta ai nostri consigli e di badare al fatto suo. Nossignore! «Un buon cittadino deve fare come me», dice lui; e intanto i quattrini della pensione sono sempre spariti, quasi prima d'averli riscossi, in un monte di buffonate che non finiscono mai. Lei riderà a sentirmi raccontare queste cose; ma io, no. Io no, perchè so quello che mi costa.
C'è il trasporto funebre d'un reduce? Eccotelo in prima riga, col panciotto tutto impiastrato di medaglie. C'è una commemorazione patriottica da celebrare, c'è un monumento da inaugurarsi? Lui non v'è caso che manchi. Eccotelo lì, a petto in fuori, nella solita prima fila, col solito panciotto e col solito impiastro d'argento e di fiocchi alla mostra.
E con tutte queste pagliacciate: ora bisogna fargli ripulire il soprabito tutto sgocciolature di cera; ora vuole le scarpe nere perchè quelle bianche non sono decenti; ora c'è la tuba da rilustrare, se no, dice lui, si vergogna perchè deve fare il discorso.... E fortuna che da qualche anno i trasporti son diradati!
E da per tutto ci voglion quattrini. Accattano per la statua di Vittorio Emanuele? una lira! Per il monumento a Garibaldi? una lira! A Mazzini? una lira! Ai caduti? un'altra lira! Non c'è mai respiro! A settembre: il pellegrinaggio alla tomba del tale. A ottobre: alla tomba del tal altro. Giovedì: c'è la corona da deporre. Domenica: la bandiera da regalare. Oggi una nascita. Domani una morte. Eppoi c'è la vedova: eppoi c'è il mutilato.... Insomma, non si finisce mai, mai, mai!
E quando ha dato fondo a quelli della pensione, pretenderebbe che gli dessi de' miei. Ah, questa poi, no! Ci doveva pensare avanti. Prima, all'uscio di casa era una processione di quelli delle ricevutine. Ora gli ho diradati a forza d'usciate.
Quattrini alla «Fratellanza militare» e «Reduci e Casa Savoia» perchè è socio. Quattrini a quelli della «Cremazione» perchè è consigliere. Quattrini di sopra, quattrini di sotto, e quattrini al diavolo che se li porti tutti all'inferno e la faccia finita.
Ne conviene? Dica se dico male! —
Io lo guardavo, ed egli continuava.
— E a sentir lui, io, con le mie idee, gli faccio compassione, «Ma no, caro nonno», gli ho detto tante volte. «No, caro nonno. I vostri discorsi saranno belli e buoni, ma i vostri discorsi non si mettono in tavola invece della minestra». Così gli ho detto; ma è lo stesso che predicare alle panche.
M'avrebbe potuto alleggerire di qualche spesa, occupandosi lui di fare scuola ai miei bambini; ma ho dovuto smettere. Ho dovuto smettere perchè con lui non era possibile discorrere d'altro che: o di patria, o d'eroi, o del solito risorgimento, declamando e berciando davanti a quattro o cinque tuniche intignate, di tutti i colori. E, ogni tanto, eran tremiti e lucciconi di lui, e pianti dei più piccoli, e risate del bambino più grande quando, invece di svolgere il programma, stava dell'ore a rintontirmeli a forza di racconti su cose accadute cinquant'anni fa, d'urli contro lo straniero o di minacce di mandare a primavera cinquecentomila baionette sulle Alpi, tutte le volte che aveva letto qualche notiziaccia sul giornale.
Dopo sei mesi, il maggiore che avrebbe dovuto fare la terza elementare, non sapeva altro che un famoso sonetto del Filicaja; i più piccini avevano imparato a cantare: «Va', pensiero, sull'ali dorate....», il coro dei Lombardi.
Gli ho dovuti mandare alle scuole pubbliche. Io me ne trovo bene; lui se n'è avuto per male. Faccia il comodo suo. Ne conviene?
Se le sapesse tutte, caro signore! Di quelle medaglie e d'un fastello di lettere che tiene sempre chiuse a chiave, avrei trovato persona che gli darebbe anche trecento lire. Glielo dissi.... ma non glielo dico più perchè cotesta volta mi fece paura davvero. Ma il ponce lo vuole tutte le sere! —
Pochi giorni dopo, essendo inoltrato l'autunno, sentii desiderio, per vecchia abitudine, di passare una parte della serata nel consueto crocchio d'amici alla buona, e mi condussi al Caffè che trovai vuoto e silenzioso.
Non vedendo il vecchio nel solito cantuccio, domandai a Beppe, allegramente:
— E il signor Licurgo?... Come mai non si vede, stasera? —
Mosse le labbra per rispondermi; ma, a un tratto, piegò il capo, mi voltò brusco le spalle e andò diritto in cucina.
Feci un cenno all'altro tavoleggiante, che era seduto giù in fondo, come per domandargli:
— Che n'è stato? —
Si assicurò che il suo compagno non potesse sentirlo; poi, piegandosi verso di me, mi disse a bassa voce, da lontano:
— È morto. —