Renato Fucini
Foglie al vento

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SU L'ETNA

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SU L'ETNA

 

Si traversa lo Stretto con un mare che, per la tranquillità delle onde e per le vicinanze delle coste dintorno, le illusioni d'un lago. Il diretto è già pronto sull'altra riva, e via! tra gli aranceti e i ridenti villaggi della marina, trascorrendo fra tante meraviglie di terra, di cielo e di mare, si entra nella regione etnea fra turbini scuri di lava polverizzata che il convoglio si solleva dintorno col vento della sua corsa.

Siamo sempre a distanza notevole dalle bocche d'eruzione che ancora non si vedono, perchè aperte sull'altro fianco del monte; ma il loro alito acre di zolfo si fa sentire, e il loro fumo si mescola con quello della locomotiva.

Bella, deliziosa Catania! Bella per il suo mare; gioconda per i suoi colli saturi di poesia e di fertilità; lieta per la sua piana lussureggiante di vigneti e d'aranci; gaia per le sue genti vigorose d'animo e di fibra; splendida per le sue vie; maestosa per il suo monte che in fondo alla incomparabile strada Stesicoroetnea guarda, col capo nel cielo, la ridente città che vive spensierata sul suo grembo insidioso.

E come è triste il pensare che questo giardino d'Armida possa forse sparire sotto la furia del Vulcano come già disparve, due secoli or sono, travolta dal terremoto, la vecchia Catania sulle cui rovine sorge ora la nuova.

Sant'Agata veglia; ma veglia anche il Titano, il quale, appunto sui fianchi che versano le loro acque a Catania, nella parte più fertile e più ridente della Sicilia, ha concentrato la sua minacciosa attività.

Niccolosi, Belpasso, Mascalucia e tutti gli altri paesi i cui nomi, ad ogni più lieve fremito del mostro, empiono il mondo di tremante compassione, sono su quel pendio della montagna che scende diritto a Catania.

La sera, dopo il mio arrivo, feci sulle alture della Villa Bellini la preparazione spirituale per l'ascensione che avrei intrapreso nella notte seguente.

Tutta quella plaga del monte che, sotto la luce del sole pareva non mandasse altro che fumo, cominciò sul crepuscolo a mandar bagliori di fiamme e a mostrare la fitta rete dei torrenti infuocati che serpeggiando colavano lenti giù per le valli. Poco sopra all'altezza del Monte Nero, le due bocche eruttive lanciavano ad intervalli fiamme, fumo e faville. Il cono centrale sonnecchiava fumando alla stracca. Il resto della gigantesca piramide confondeva il nero delle sue lave col buio della notte.

Al capo di ogni colata, giù in basso, era un accendersi di fiammate improvvise prodotte dai castagni che investiti dall'alito della fornace, si accendevano ad un tratto come fiammelle di gas. Pareva di sentire gli schianti di quei tronchi che, all'accostarsi del fuoco, cigolavano contorcendosi negli spasimi della morte; e pareva di sentire le grida dei disperati coltivatori di quei luoghi, davanti a tanta distruzione. Ma tutto era silenzio, tutto era tetra malinconia lassù lontano lontano; silenzio e malinconia che spiccavano più desolanti al confronto del chiasso meridionale che si faceva intorno a me, di risa, di canti e di musica allegra.

E quasi mi veniva voglia di creder pazza quella gente che, dopo di aver udito, nel pomeriggio del nove luglio, i primi rombi dell'eruzione, quei rombi che a quindici chilometri di distanza facevano tremare, rompendone alcuni, i vetri delle loro finestre, potevano rallegrarsi spensieratamente a quel modo.

Forza d'abitudine! Io che mi accingevo ad inoltrarmi fra quei pericoli, guardavo stupefatto e tacevo.

Il giorno di poi, sul far della sera, coi miei compagni di viaggio, prendemmo la via del Monte provvisti abbondantemente di buona volontà, di buon umore e di grossi mantelli siciliani.

Se il piano stradale della via tra Catania e Niccolosi non è una perfezione d'uniformità sullo strato di lava nella quale è sviluppata e incassata, la gita è deliziosa. Mare, boschi d'aranci e selve d'olivi dintorno l'Etna sempre presente nel fondo, ad ogni svoltata della via.

A breve distanza fra loro, grosse borgate, attraversando le quali ci dette nell'occhio la costruzione previdente delle case quasi tutte formate dal solo piano terreno per garantirsi contro i terremoti. E ci dette nell'occhio anche la illuminazione delle loro vie, fatta con grande profusione di candelabri posti a poco più di due metri fra loro, in fila di qua e di dalla via, per modo che, accesi, devon cambiare in giorno la notte.

Non ebbi tempo di domandare la ragione di tanto lusso, ma, conoscendo l'umore dei miei fratelli d'Italia, sempre figlioli prediletti del medioevo, giurerei che quello è uN frutto delle gare municipali.

Mascalucia pianta sulle sue strade 100 lampioni? Infamia a Pedara se non ne pianta 110! Trecastagne suona a festa con quattro campane? Vituperio a noi di Belpasso, se Belpasso non fosse buono per cinque campane!

Tutto il mondo è paese; ossia: tutto il bel paese è Italia. Ed io conosco molti Comuni capaci di scavarselo ai piedi e di precipitarsi in un abisso, piuttosto che avere un lampione o una campana, di meno del vile Comune limitrofo.

Accostandoci a Niccolosi si cominciarono a sentire, sebbene incerti e lontani, i primi boati delle bocche d'eruzione.

A Catania un signore del Club alpino mi aveva detto: — L'eruzione è ora in decrescenza, ma per chi non ne ha veduto il principio, c'è sempre tanto che basti per contentare un galantuomo. —

E aveva ragione!

E così arrivammo a Niccolosi, al minacciato, al condannato Niccolosi dove, invece di trovare volti terrorizzati e anime spaventate, trovammo gente allegra e chiassona come se l'Etna sgorgasse dalle sue viscere vino del Chianti e moscato di Siracusa invece di quelle lave che, affacciandosi nere, e per questa volta indurite, al colle sovrastante, guardano giù minacciose come un armento di mostri fermati nella fuga da un incantesimo.

Per mia disgrazia non ero presente allo scoppio dell'ultima eruzione; ma per giustificare la mia sorpresa di trovar sorridente e tranquilla la gente di Niccolosi, rubo al professor Carlo Del Lungo la bella descrizione che ne ha fatto, dopo averla osservata da Catania:

La mattina del 9 luglio, continuando fortissima l'agitazione del suolo, si videro dalla Casa del Bosco delle fumaiole sotto la montagnola: era proprio in quel punto che le forze eruttive facevano violenza per aprirsi la via. Infatti, un'ora dopo il mezzogiorno, una grande detonazione segnò il principio dell'eruzione; una grande fenditura si aperse e in mezzo ad esplosioni violente e nembi di fumo ne proruppe abbondantissima la lava.

La nota e terribile voce del vulcano fu udita e riconosciuta subito da Catania dove, prima che diffusa di paese in paese vi arrivasse la notizia, correva già di bocca in bocca il vecchio grido d'allarme: a muntagna scassau!

Una immane ferita aveva squarciato i fianchi del mostro, e il sangue bollente ne sgorgava, rigando di fuoco la mole oscura torreggiante nel cielo tutto arrossato dall'incendio. E ne giungeva all'orecchio un tonare cupo e profondo, un brontolìo minaccioso di temporale lontano.

L'eruzione era scoppiata fra la Montagnola e il Monte Nero all'altezza di circa 1900 metri; le bocche eruttive si formarono lungo una grande fenditura in forma di Y rovesciata, diretta da Nord-ovest a Sud-est. Favorita dal ripido pendio, la lava discese come una valanga colla velocità di un cavallo al trotto; e investito il Monte Nero, si divise contro di esso in due bracci che continuarono la loro corsa dirigendosi verso Niccolosi. E questa corsa era stata così rapida e improvvisa, che non vi era stato il tempo di salvare dall'incendio nemmeno un tronco d'albero; e insieme con le greggie si videro scendere dalla Montagna e fuggire al piano le lepri e i conigli che il fuoco scacciava dai loro covi».

Così il Del Lungo. E la gente di Niccolosi, che pochi giorni fa si era trovata in mezzo a quel ballo, aveva già dimenticato tutto, benchè tutto potesse ricominciare da un momento all'altro!

In tempo che le guide preparavano le cavalcature e tutto l'occorrente, entrammo per rifocillarci da uno dei più originali albergatori che abbia mai incontrato. Un vulcano di parole e di gesti; un prototipo di scaltrezza simpatica, che rimpiattandosi dietro al suo dialetto, non intendeva mai nulla dalle nostre bocche quando si trattava di vedersi assottigliato il guadagno e che intendeva tutto a doppio quando si trattava dell'utile suo. Si ordinavano tre bistecche, e lui ne portava sei; due litri di vino, ne portava quattro. E di tutto era così. Alle nostre osservazioni: grandi risate, torrenti di parole, colpi di mano nella fronte allontanandosi, e tornava dopo poco con un'altra bistecca e dell'altro vino, fingendo d'aver inteso a quel modo. A brontolare si faceva peggio! E noi a ridere come lui e a divorare ogni cosa perchè ormai, davanti a quell'originale, non era possibile far diversamente. Dirò a sua lode che, nel fare il conto, scordò la passione di raddoppiare. Toccò allora a noi a raddoppiargli la nostra gratitudine e la nostra stima.

Montati sui muli che aspettavano all'uscio, partimmo a notte inoltrata con un lume di luna ora splendido, ora fioco, per i nuvoli spezzati che si accavallavano nel cielo.

La passeggiata fu taciturna, sebbene avessimo una gran voglia di stare allegri. La notte procellosa, la traversata delle ultime lave che avevano minacciato Niccolosi, sempre calde e ribollenti sotto i piedi dei nostri muli, e la nera solitudine, non ci davano motivo d'allegrezza. Girati i Monti rossi, quei due coni sui quali vivono ora a stento aridi vigneti, e dai quali sgorgò il torrente di lava che, due secoli fa, andò a spegnersi nel mare di Catania a quindici chilometri di distanza, cominciammo a sentire la voce paurosa delle bocche d'eruzione i cui boati parevano colpi avventati contro una scogliera da onde smisurate.

Mi ricordo di ricche selve di castagni intravedute alla scarsa luce della luna e delle fiaccole che ci precedevano; e di orridi campi di antiche lave e del tetro silenzio che ci stava dintorno, rotto soltanto dai fremiti del vulcano e dalle voci fioche delle guide che stimolavano i muli su per le ripide montate.

Cullato sulla sella, mi ero quasi addormentato, quando mi accorsi di un estraneo alla nostra cavalcata, un vecchio adusto e di aspetto simpatico, il quale, armato d'un piccone, camminava a fianco del mio mulo. Avvistosi che lo guardavo:

— Vi saluto, signoredisse.

Grazie. Chi sei?

— Sono un impiegato del Comune, signore, incaricato di spianare le lave nuove sulle vie, per comodo dei signori forestieri.

Bravo! mi rallegro col tuo Sindaco che ha degli impiegati così valorosi da lavorare anche la notte. Agguantati qui alla staffa e durerai meno fatica. Vai lontano?

— Qui sopra dove andate voi, signore; al Monte Nero.

— E fai questa vita tutte le notti?

— Sì, signore; quando ci sono forestieri.

— E non hai paura del Diavolo, esercitando di notte la tua professione in questi luoghi?

— Tutti dobbiamo averne paura, signore.

— Ben detto! egregio impiegato comunale. E ne hai mai viste anime dannate salire il monte? — domandai scherzando, perchè sapevo che il volgo crede in cima all'Etna la bocca dell'inferno.

— Io no, signore; ma ne passano molte, e molti le hanno vedute. —

E tra gli urli del vulcano e i sibili del vento, mi raccontò di draghi volanti che paiono nuvole ma sono draghi; e di processioni di anime con occhi di fuoco e ali di pipistrello, accorrenti da ogni parte del cielo a precipitarsi nella gola fumante del Mongibello.

E mi citò nomi di persone e di luoghi: la madre snaturata di Biancavilla, il peccatore Galerno e il vecchio magnano di Bronte, mastro Ignazio l'avaro.

Costui, arricchito presto e male, credendo di portar seco i suoi denari, non lasciò nulla ai parenti. La notte stessa della morte, un carbonaio lo vide salire il monte a cavallo della sua somara, triste e pensieroso; e dietro a lui andava abbaiando un suo cagnolino fedele. Arrivati alla cima, magnano, somara e cagnolino sparirono nell'abisso e non se n'è saputo più nulla. Dio l'aveva giudicato.

— Siamo arrivati! — gridò una guida.

— Che dobbiamo fare?

Salire a piedi il Monte Nero per vedere i crateri e dopo proseguiremo per la Casa degli Inglesi e per il cono centrale. —

Con pochi soldi facemmo contento l'egregio impiegato del Comune, il quale, avendo guadagnato la sua giornata, si sdraiò subito a dormire in un covo che si era fatto, dentro una caverna di lava sempre calda.

Con un tempo indiavolato rampicammo sulla cresta del Monte Nero. Dirò quello che vidi, ma rinunzio a descrivere e a dire le impressioni di quella vista, perchè impossibile a farsi da bocca umana.

Appena arrivati alla cima, si aperse davanti ai nostri attoniti sguardi la scena infernale. Al buio fitto che ci aveva sgomentati fino a quel punto, successe una luce calda e abbagliante che illuminava tutta l'ampia distesa delle correnti infuocate. Su in alto i due coni sempre attivi, con esplosioni violente e intermittenti l'uno, e con getto continuo l'altro, lanciavano in aria fiamme, fumo e lapilli. Dinanzi, in una spianata a perdita d'occhio, sgorgavano rigagnoli di fuoco dal suolo lievitato, e serpeggiando venivano come affluenti minori a ingrossare il fiume che, da una larga gola spalancata alla base del cono più basso, sgorgava lento e maestoso a inondare le pendici sottostanti, la cui distruzione si perdeva per noi in un velo di fumo infuocato.

Per quella bocca il vulcano, in questa ultima eruzione, aveva già mandato fuori dalle sue caverne ventiquattro milioni di metri cubi di materie incandescenti a distruggere le selve di quella zona che, per la fecondità del suolo formato dal disfacimento delle più antiche lave del monte, aveva dato vita e alimento al gigante vegetale, il famoso castagno dei cento cavalieri.

I nostri occhi non supplivano al pauroso incanto; i nostri cervelli si affaticavano invano, spossati sotto un tumulto di sensazioni acute e indefinibili. E tutta quella scena ci arrivava come un sogno di febbre, con vaneggiamenti, sussulti e miraggi nuovi di leggende lontane lontane, di giardini fiorenti visti non si sa quando, di racconti paurosi ripensati nelle notti insonni dell'infanzia, e di fantasmi succhiati dalle saghe nebulose del Nord. Tutti rabbuffati e sconvolti sotto un interno senso di paura che uno scoppio improvviso del suolo ci avventasse in quella voragine, facendo lava anche dei miseri nostri corpi, si stava tremanti a guardare, aggrappandoci alle sporgenze scabre del monte per non esser rovesciati dalla furia del vento giù per il precipitoso pendio, in fondo al quale era più agitato e profondo quel mare di fuoco,

Non so quanto ci trattenessimo quanto ci saremmo ancora trattenuti a quel grandioso spettacolo, se un turbine di vento non ci avesse all'improvviso rotolati tutti per terra, tribolandoci gli orecchi, il volto e le mani coi lapilli che ci frustava contro fischiando.

Fu un vero spavento di morte, perchè con uno sforzo lievemente maggiore avrebbe potuto portarci in mezzo alle lave. Approfittando di un breve intervallo di calma, ci trovammo tutti in piedi a correre precipitosamente giù per l'opposta discesa del monte; ma un altro turbine ci buttò tutti nuovamente per terra. Questa volta con minore spavento perchè ormai il pericolo d'esser balestrati fra le lave era sparito; ma sempre col medesimo tormento dei lapilli e il timore di vederci spogliare dei mantelli senza dei quali saremmo rimasti assiderati dal freddo.

Arrivati finalmente in fondo a una buca, a ridosso d'una rupe che col suo calore ci rimise gii spiriti nelle membra, tenemmo consiglio.

Tornare indietro era un sacrifizio troppo forte per noi venuti da tante miglia lontani per salire alla cima dell'Etna; andare innanzi era imprudente e forse impossibile. Anche le guide, sebbene contro il loro interesse, facevano le stesse riflessioni e fu deciso il ritorno.

Amara delusione! sconsolato ritorno! Non so se qualcuno di voi abbia mai visto un bellissimo quadro del Meissonier o abbia almeno sentito parlare di un certo Napoleone primo, il quale, per un caso consimile al nostro, partitosi da Parigi per la conquista della Santa Russia, dové tornare indietro da Mosca. Ebbene, quel dipinto era riprodotto dal gruppo delle nostre persone ravvolte in larghi mantelli siciliani; la cupa mestizia di quei volti era viva negli animi nostri.

Ma noi non aspettava la Beresina, Waterloo e Sant'Elena. Noi aspettavano Siracusa, Palermo, l'unica Taormina e, da ultimo, il dolce ritorno alle nostre famiglie.

E, partiti la sera stessa da Catania, il mio compagno ed io, girammo, girammo, sempre figurandoci d'esser contenti e di goder molto, ma sempre rincorsi e sempre tormentati dall'incubo della mancata ascensione, primo e quasi unico scopo del nostro viaggio.

Ma noi, ormai bastantemente iniziati nei misteri del vulcanismo, si sentiva benissimo che una eruzione era vicina a scoppiare dai nostri cervelli di mattoidi. Tornando da Palermo, sotto il meriggio di un sereno immacolato, la gran vela dell'Etna ricomparve ai nostri occhi in tutta la sua sfolgorante maestà. Il mio compagno ed io ci guardammo in viso, e fu tutto fissato.

La sera stessa alle otto, con la risolutezza dei fanatici, eravamo già a Niccolosi e già montati sui soliti muli, dopo lo solite costolette del solito albergatore.

Ah! questa volta sei nostra, fatata Montagna! Sii mite con noi, ti preghiamo. Noi non veniamo a molestarti perchè tu ci racconti la storia delle generazioni umane in mezzo alle quali, facendoti largo col fuoco, ti sei innalzata a tanta altezza. Noi non veniamo a chiederti conto delle tue vittime, non a farti un processo, a cercarti, indiscreti, la fede di nascita, fra le squamme della tua pelle. Non temere di noi. Siamo due innocui vagabondi che non racconteremo spropositi scientifici, te lo giuriamo, su gli arcani della tua vita. Hai tollerato tante nullità sulla tua groppa, tollera anche noi. Tollera due fanatici della tua diabolica bellezza; e se ti verrà il capriccio di ingoiarci nelle tue viscere, come già la balena il povero Giona non esser troppo pagana; imita il biblico esempio e rendici sani e salvi allo Stato che perderebbe in noi, due dei suoi più zelanti funzionari.

La salita fino alla Casa del Bosco non ebbe nulla di nuovo, tranne uno splendido lume di luna invece delle fiaccole da trasporto funebre e il nostro buon umore, dinanzi alla certezza d'arrivare in cima, invece dei dubbi sconfortanti dell'altra volta.

Arrivati alla Casa del Bosco verso la mezzanotte, avemmo un incontro sgradevole, ma insieme fortunato. Sgradevole perchè trovammo chiusa la casa dove tutti i visitatori dell'Etna fanno sosta e prendono conforto di cibo, di riposo e di caldo; fortunato perchè credo che il nostro arrivo salvasse un uomo da grave pericolo.

Dopo aver cercato e chiamato inutilmente le guardie, che poi si seppe essere assenti e lontane, ci demmo tutti ad aiutarci come meglio si poteva, raccogliendo intorno seccumi per far fuoco.

Avendo io visto un mucchio di paglia sottovento al muro della casa, andai a prenderne un pugno per innescare gli sterpi preparati. Accostatomi, sentii un lamento che mi fece tornare indietro con ribrezzo, a chiamare i miei compagni. Un uomo quasi nudo, perchè scalzo e coperto appena di camicia, calzoni e giacchetta, cascanti in brandelli da tutte le parti, stava disteso fra cotesta paglia e ci guardava a occhi spalancati senza poter mandare una parola dalle labbra livide e tremanti.

Accendemmo subito un gran fuoco e, condottocelo dinanzi, cominciò a poco a poco a riaversi e a parlare. Le guide, non intendendo noi il suo dialetto, ci facevano da interpreti, raccontandoci quello che egli raccontava balbettando e agitandosi convulsamente, seduto in terra perchè non poteva reggersi in piedi.

Era un cercatore di funghi venuto lassù da un paesello presso Acireale; aveva contato di passare la notte alla Casa del Bosco, ma anche lui l'aveva trovata chiusa. Preso prima dalla fame, poi dal freddo, non avendo cibo, fiammiferi, s'era rannicchiato sopra quella paglia, tirandosene addosso quanta più aveva potuto per riscaldarsi; e , raccomandandosi ai suoi santi, era rimasto, non sapeva se addormentato o svenuto, fino al nostro arrivo.

Lo ristorammo di cibo e di bevanda, e gli avremmo fatto parte anche dei nostri vestimenti se non ne avessimo avuto troppo bisogno per noi. Ma la fiamma schioccava allegra, egli avrebbe potuto alimentarla, e partimmo di accompagnati dalle sue benedizioni; e le sentivamo sempre quando eravamo già inoltrati nella selva di castagni che segna il limite della vegetazione sui fianchi della montagna.

La selva cessa ad un tratto, e si apre davanti a noi la sterminata landa delle lave nude, illuminate in pieno dalla luna. Non più un segno di vita animale vegetale, non più un filo d'erba un canto d'uccello notturno. Anche la luce e i rumori del campo d'eruzione si erano perduti lontano dietro le nostre spalle. Una sottile colonna di fumo bianco ci insegnava la direzione del cono terminale; e noi, taciti e soli fra tanto silenzio e tanta solitudine, si andava innanzi compresi da un sacro orrore, avvicinandoci alla cima.

E si andava, si andava, ora attraverso a un campo di cenere dove i muli affondavano fino ai ginocchi; ora fra lave secche che strepitavano come vetro sotto ai loro zoccoli; ora per campi uniformi, ora sull'orlo di precipizi neri e profondi.

Si andava, si andava, quasi cullati in un sogno, intirizziti dal freddo e sbalorditi dalla stanchezza delle membra e del pensiero.

Guardandomi dintorno sgomento, e pensando al cammino fatto e a quello che mi restava da fare per giungere alla cima, mi tornarono alla mente le parole dello Spallanzani che chiamò il Vesuvio, paragonandolo con l'Etna, un vulcano da gabinetto.

L'avevo creduta una esagerazione, ma esagerazione non pare più quando ci siamo inoltrati sulla schiena di questo enorme vulcano. Se io da Catania fossi salito sopra uno dei tanti coni secondari che si sollevano come pustole sul cuoio di questo mostro, al Gemellaro, per esempio, o ai Monti Bossi, avrei compiuto un'ascensione quasi pari a quella del Vesuvio; e il Gemellaro e i Monti Rossi sono, sui fianchi dell'Etna, protuberanze così insignificanti, che darebbero appena nell'occhio se qualcuno non ce le additasse.

L'ascensione del Vesuvio, se si toglie l'ultima montata dall'Atrio del Cavallo alla sommità, è una passeggiata che tutti possono fare in poche ore da Napoli e senza disagio.

Quella dell'Etna pochi arrivano a compierla, sebbene la montagna si trovi in una latitudine tanto più meridionale, perchè non tutti, anche se saldi di muscoli, sono in condizione da tollerare tre cambiamenti di clima in una giornata.

La Sicilia alla valle, coi suoi fichi d'India, con le sue palme e con tutta la sua vegetazione quasi tropicale; gli Appennini fino alla Casa del Bosco, col loro lusso di Cerri, di castagni e di faggi; le Alpi, dalla Casa del Bosco alla cima, coi loro disumani deserti di pietre e di gelo.

I muli andavano, andavano, affondati nei lapilli fino alla pancia; nessuno della cavalcata aveva parole.

Anche la guida più giovane, che giù tra i castagni aveva cantato qualche nenia intonata con la malinconia delle sue lave natie, ora taceva.

Ed io, affaticato dal deserto, correvo dietro ai fantasmi che passavano.

Erano moltitudini di abbronzati Sicani, gli atavi immaginosi di Dionisio e di Gelone, i quali dagli scogli di Ortigia, — guardando attoniti il giovine vulcano avventare macigni al cielo che denso di vapori rispondeva coi fulmini all'offesa, — creavano la favola dei giganti.

Era l'ombra di Pindaro inneggiante alla nevosa colonna del cielo. Erano turbe di fuggenti che, incalzate alle spalle da fiumane di fuoco, si cacciavano innanzi le mandrie, coi loro vecchi sul dorso, coi figli piangenti per mano; erano grida di terrore; erano canti di ringraziamento; era la voce di Geova che per la bocca del Profeta diceva: «gli uomini si affaticano per niente e i popoli lavorano per il fuoco».

Spuntava l'alba in un sereno di cristallo, e noi eravamo sul capo del gigante.

La sete della nostra vanità era sazia; i nostri calcagni ferrati facevano stridere le lave sulla cima del più gran vulcano del Globo. I nostri occhi si beavano in uno dei più grandiosi spettacoli della natura.

Non racconto perchè la parola non basta alla mia voglia, non dipingo perchè non ho tela da tanto quadro. Lo immagini chi può, pensando che di lassù avevamo ai nostri piedi la Sicilia intiera, il mare infinito, le isole minori da Malta allo Stromboli, e le catene della Calabria fino a perdita d'occhio. Giù per i dirupi della enorme montagna fino alla valle lontana, l'aspetto di un paese lunare capovolto, tanto fitti sono gli innumerevoli coni vulcanici, i figli dell'Etna, aperti nei suoi fianchi fino dalle età più remote della Terra.

L'ombra mandata dalla, gigantesca piramide, spettacolo meraviglioso! dalla base dell'Etna al mare di Trapani, stampava un cono violaceo su tutta la Sicilia, gialla sotto i primi raggi del sole.

Stanchi, ma non sazi di quella vista, e rinfrancati dal riposo, prendemmo la discesa.

E deviando ora di qua ora di , dalla Torre del Filosofo alla orrenda Valle del Bove, e da quella alla vetta della Montagnola sotto la quale stava a picco il campo della nuova eruzione, rianimati dai caldi raggi del sole, arrivammo presto e soddisfatti tra la benefica ombra delle selve. Un breve riposo, un breve raccoglimento, eppoi subito in cammino per Catania.

Addio, superbo e terribile amico. Grato all'ospite magnanimo, dirò alle genti un gran bene di te. Ma questo non impedirà agli uomini di cingerti i piedi con una catena di ferro, e di sguinzagliare su quella l'Encelado moderno che, sbuffando e fischiando, carico di sacchi, di valigie e di polli come un procaccia, verrà a confrontare il suo fuoco di lucciola con le fiamme delle tue caverne.

Non credermi correo di tanta profanazione, e tollera, ti prego, il temerario pigmeo. Ma se, ringhiandoti troppo d'intorno, come è costume dei botoli piccini, e raspandoti ai piedi t'arrivasse al sangue.... Amico Mongibello, ci siamo intesi!

Addio fulgida gemma della mia Italia meravigliosa.



 

 

 


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