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COSTUMI DELL'APPENNINO PISTOIESE
— Domani, ultima domenica di carnevale, quassù fanno la giostra. Si ricordi della promessa e badi di non mancare. — Così mi mandava a dire un garbato signorotto della Serra, al cui invito risposi, senza porre tempo in mezzo, mettendomi in cammino.
Quel castello, nella sua selvaggia solitudine, è forse uno dei più pittoreschi della nostra montagna. Equilibrandosi come per incanto sopra uno sperone pietroso, co' suoi tetti coperti d'ardesie nere e spioventi tutti dalla parte di chi lo guarda di fianco come grosse squamme d'acciaio, dà l'idea d'una enorme corazzata fantastica rimasta in secco lontana dal suo elemento. E conferisce all'illusione la vista, del mare che, a cielo sereno, disopra a una lunga distesa di poggi, si scorge luccicare nel fondo fra la Croce della Pania e i monti di Pisa. Il campanile della chiesa che torreggia sulla prua sta come il fumarolo maggiore fra le opere di difesa..
Lassù, fra una pioggerella fitta e gelata, arrivai la mattina di poi alle otto, dopo avere albergato, sorpreso dalla notte per la via aspra e lunga, in una casa di contadini alla Femmina Morta, dove trovai una buona cena e una veglia geniale in mezzo a quattro floride spose che intorno alla fiamma mi raccontavano dei loro mariti lontani alla Maremma, tenendo ciascuna fra le braccia un bel figliolone poppante.
La giostra annunziata non aveva più luogo. Gli organizzatori non avendo potuto raccogliere tanto danaro che bastasse alle spese che porta seco uno spettacolo in grande, e forse anche perchè in quel tempo quasi tutti i giovani erano alla Maremma, ci avevano rinunziato, e veniva sostituita dal modesto Bruscello.
A' miei ospiti dispiacque, io invece mi rallegrai di questo cambiamento, perchè così avrei veduto uno spettacolo affatto nuovo per me e del quale avevo appena sentito parlare alla lontana.
Il poeta ch'io volli conoscere per aver qualche notizia preparatoria sulla rappresentazione è un simpatico ometto verso la cinquantina, con ispida barba brinata, ne' cui occhi buoni e sorridenti brilla irrequieto il lampo d'un ingegno incolto ma vivace. Sta modestamente scontroso davanti a me, non vuol dir nulla in principio, perchè si vergogna, parla del suo lavoro come d'una bambocciata insulsa per passare il tempo, e mi anticipa le sue scuse dicendomi che compatisca un povero boscaiuolo il quale ha avuta la sfacciataggine di posar la scure per imbrattar fogli di carta colla penna. Ma incoraggiato dalle mie confidenze ed assalito dalle mie domande, si sbottona finalmente e mi dice ogni cosa.
La favola della rappresentazione è tutta di sua fantasia, così almeno egli mi assicurò, tutta scritta di suo pugno, ed ha le forme, benchè in miniatura, d'una vera e propria commedia familiare.
Giubbino, marito di Drusiana, vecchia arcigna e brontolona, ha due figlie. Gioiosa e Zaira, belle e avvogliate di marito. Astutillo, figlio di Gasparo, vecchio amico di casa, è innamorato di Gioiosa ed ha per rivale un certo Polognone, vecchio bisbetico e danaroso. Fido, Cefiso, Costante e Fedele, quattro giovanotti, sono invaghiti di Zaira.
Tutti si fanno avanti a chiedere la mano della ragazza preferita, e di qui litigi di Giubbino con la moglie sulla scelta da farsi in tanta abbondanza di pretendenti. Ma finalmente la questione si conclude per capriccio delle ragazze, le quali, essendo fuori dell'età minore, dispongono della mano a loro volontà, irritate dalle implacabili e pericolose discordie dei genitori. E la commedia finisce.
Il lavoro è composto di quaranta ottave accatenate formate a dialogo, senza spezzature di versi; tutto festoso, pieno di fiori boscherecci e gentili, e, quel che desta piacevole maraviglia, d'una castigatezza e d'una decenza
tanto ammirabili quanto il soggetto, specie fra le ire dei coniugi e le canzonature tra giovani e vecchi, si sarebbe prestato alle seduzioni della scurrilità. Il mio poeta, che fa anche scuola di contrabbando, ha saputo serbare intatto il decoro del suo grado.
Il Bruscello corse rischio d'esser rimandato per causa della pioggia; ma finalmente, verso le undici, essendosi i nuvoli un po' allargati, fu dato mano ai preparativi ed io stetti in piazza ad aspettare, osservando.
Tutti coloro che dovevano aver parte nella rappresentazione andarono a truccarsi nelle proprie case, donde uscirono dopo poco per andare a riunirsi in quella del poeta in fondo al paese. La truccatura era a volontà di ciascuno, e sfoggiavano per bellezza d'abiti o destavano il riso dei monelli che via via li accompagnavano, secondo la ricchezza del guardaroba dei vecchi di casa o secondo il loro spirito grottesco. Cappelli a cilindro del secolo passato, giubbe lunghe intignate, solini giganteschi, sottane, vite e fazzoletti di bella seta antica che avranno servito allo sposalizio delle nonne e bisnonne, scarpe scollate con fìbbie e calzon corti, che da una cinquantina d'anni dormivano disperati di resurrezione, rividero a un tratto la luce dei loro monti, certo allegri per la lieta sorpresa, ma forse non troppo a loro agio sulle nuove membra, addosso alle quali per la maggior parte si adattavano alla peggio, chi per aver troppo padrone da ricoprire, chi per averne troppo poco. Giubbino avendo calzon corti e mancando di lunghe calze bianche, le aveva ingegnosamente sostituite con due fasce da bambini avvoltolate alle polpe. Gasparo aveva un paio d'occhiali di legno ricavati con la sega da un'assicella di castagno. Polognone, che pareva il capo d'una tribù selvaggia, aveva una corta gonnella di lana con la balza a strisce colorate, e in capo una specie di diadema giallo. Zaira, Gioiosa e la loro madre, le quali erano tre nerboruti giovanotti, indossavano la seta che sopra ho rammentato. Gli amanti tenevano per distintivo, d'un'eleganza alquanto peruviana, la camicia fuori de' calzoni cinta alla vita con un nastro. Il poeta che nella rappresentazione farà da prologo e da rammentatore, vestiva i suoi panni usuali, e soltanto aveva al berretto di lontra spelacchiata una penna di gallina e un nastro scozzese che gli svolazzava per le spalle. Giubbino e la sua signora consorte brandivano, annunziatore di imminenti dissapori domestici, un massiccio randello per uno.
Preceduti dal sonatore di violino e da un giovanotto che portava un grosso ramo fronzuto d'alloro, il majo, adorno di nastri, di fiori finti e di limoni e d'arance vere, comparvero tutti insieme sulla piazzetta facendo con l'allegria delle loro voci, dei colori e dei suoni uno strano contrapposto alla malinconia che pioveva dalle nuvole e dalla vista delle prossime giogaie nevose che tra la nebbia grassa chiudevano intorno la scena.
Arrivati in mezzo alla piazzetta, il giovanotto che era alla loro testa si fermò appoggiando in terra e tenendo dritto il ramo d'alloro intorno al quale, formando un circolo, si disposero gli attori.
Il pubblico era rappresentato da un centinaio di persone aggruppate in piedi attorno al circolo dell'azione, le quali stupefatte ammiravano in silenzio.
Il poeta che teneva nella destra una bacchetta e nella sinistra il manoscritto del Bruscello, si presentò al pubblico annunziandosi come l'Ambasciatore e dette principio, cantando il suo prologo:
Dopo tant'anni eccomi ritornato
Al pubblico, amatissimi signori;
Ed un nuovo Bruscello abbiam portato
Un fatto vo' narrar ch'ho ritrovato
Di vaghe donne e di leggiadri amori,
E gioirò se, dopo averlo detto,
Esclamerete: — Pazzo maledetto! —
E così continuò esponendo in altre due ottave la favola del Bruscello. Diceva i suoi versi come li diranno poi anche gli altri, con una lamentosa cantilena accompagnata all'unisono dal violino, e ad ogni distico cessava il canto per far un giro intorno al Bruscello (volevo dire Arbuscello) ballando a passi di polca assai lenta sonata dal violino come passagallo.
Finito il prologo, si fa innanzi Gasparo accompagnato dal suo Astutillo a chiedere per lui a Giubbino la mano di Gioiosa. Giubbino promette. Gioiosa acconsente e tutti partono, ossia ritornano al loro posto sul circolo. Ma esce fuori Drusiana a rimproverare Giubbino perchè ha promesso, a sua insaputa, la minore delle figlie senza riguardo ai diritti dell'altra; e, riscaldandosi, gli racconta che lei aveva una chiesta anche per la Zaira e che Gioiosa l'aveva già promessa a un certo Polognone, vecchio molto saggio e, quel che più conta, ricco sfondato. Di qui il primo diverbio e si apre la serie delle bastonature.
Arriva Polognone il quale, sentendo che Gioiosa era stata da Giubbino accordata ad Astutillo, promette di non essere avaro se revoca la parola data. Drusiana invogliata dei quattrini del vecchio cerca persuadere Gioiosa perchè volti le spalle ad Astutillo, e la minaccia di lasciarla nubile se non fa a modo suo; la confonde con le parole e parte dicendo che va a trovar Giubbino per accomodare ogni cosa. E va infatti; ma lo abborda con frode dicendogli che Gioiosa s'è pentita d'aver dato parola ad Astutillo. Giubbino sospetta, scopre la frode ed ha luogo immediatamente la legnatura n. 2.
Segue una breve pausa e un uomo fuori della compagnia gira intorno con un bicchierino e una bottiglia di liquore rinfrescando la gola ai canterini affaticati. Intanto le mamme di quei giovanotti che nel Bruscello fanno da donna, accorrono trepidanti intorno a loro e si raccomandano che s'alzino le sottane per non far tante pillacchere; e li cuoprono con gli ombrelli e passeggiano e guardano sgomente quella povera seta già tutta inzuppata di pioggia. Il poeta, che quasi inosservato è stato sempre dietro ad ogni interlocutore rammentando, dando il tono del canto, battendo il tempo in aria con la mano e ballonzolando anche lui, accende la sua brava pipetta, ed ecco Cefiso che fra timore e speranza viene a chiedere a Giubbino la sua Zaira.
Oggi, Giubbino, è giorno di gran festa.
Qua da voi spinto m'ha la fantasia
Chè il giorno desiato ormai s'appresta
Perchè mi pare una giovane onesta.
Ornata e bella e pien di leggiadria.
Se per i sposa mi fosse negata
Per me sarebbe l'ultima giornata.
Giubbino resta pensieroso. Cefiso va via e viene Costante a fargli la stessa domanda:
Io che da tanto tempo l'ebbi amata
Zaira vostra figlia, o mio Giubbino,
Con lei farei la mia vita beata
Conducendola al ballo ed al festino;
E non potrebbi aver cosa più grata
Che star seco alla mensa e al tavolino.
Spero veder quel dì tanto gradito
Che lei sia la mia sposa, io suo marito.
Giubbino resta zitto e io colgo l'occasione per accertare chi ha la pazienza di leggermi, ammirando la rustica leggiadria di queste ottave, che non altero in nulla il manoscritto che il poeta mi ha cortesemente regalato.
Costante parte, e Fido e Fedele, uno dopo l'altro, vengono a fare la loro domanda. Giubbino che da un pezzo trattiene la sua impazienza e gonfia, non consola nemmeno d'una parola i due disperati amanti, li vede partire con indifferenza, ma si turba di nuovo e più seriamente all'arrivo del vecchio Polognone, che viene a ballare con gambe torpide e a cantargli con voce tremante la sua domanda per la mano di Gioiosa. Giubbino irritato dall'impudenza del vecchio barbogio, lo guarda beffardo e lo rimanda, dopo un'amara paternale, con questi versi:
Dartela a te mi parrebbe peccato
Perchè a momenti rassembri il suo nonno.
Valla a dimanda a chi ti ci ha mandato
E qui da me non ci far più ritorno....
Poi volgendosi infuriato a sua moglie, che è comparsa allora:
Lo so il partito che tu l'hai guastato.
Brutta vecchiaccia, guarda che frastorno!
Alfin mi faccio dalla più piccina
E il bastone sarà la medicina.
Drusiana, che non vuol mosche sul naso, fa ronzare il suo randello intorno alla groppa di Giubbino e, fra la rabbia e lo scherno, gli risponde:
Mi bolle il sangue come una fucina,
Alfin ce le possiamo barattare....
E Giubbino che simili inviti non se li fa mai ripetere due volte, le si avventa furibondo ed ha luogo la terza edizione delle baruffe coniugali.
Le ragazze intervengono sollecite a sedare. Giubbino urla che lui non vuol fare il pagliaccio col dar parole e non mantenerle, e che se non vorranno fare a modo suo non darà marito a nessuna. E nella furia maltratta anche Astutillo, che comparisce a reclamare i suoi diritti. Uno dietro l'altro arrivano anche Fido, Costante, Fedele, Cefiso e Polognone, contro i quali Giubbino si scaglia per metterli fuor di casa. Gli amanti si dispongono rassegnati a partire cantando ciascuno versi di affettuoso rammarico. Ma due di loro sono presto consolati dalle ragazze le quali, appoggiandosi ai loro diritti dopo essere uscite dall'età minore, dispongono della loro mano a dispetto dei genitori irragionevoli. E Zaira è la prima che, brillando di fiera contentezza, spiattella a chiare note la sua risoluzione:
Dall'allegrezza mi sento stiantare
Per il mio Fido che mi vuol gran bene....
Ed appena ha detto di volerlo a tutti i costi per suo sposo. Gioiosa ne segue l'esempio e strilla:
Anch'io non vo' più viver di dolore,
Voglio sposare il mio diletto bene;
Vo' dar la ricompensa a tanto amore,
Vo' levare il mio cor dalle catene.
Se contento non è 'l mio genitore....
Ma Astutillo, che non può più stare alle mosse, afferrandole la mano la interrompe:
Metto alla sposa mia l'anello in dito
E tu (rivolgendosi a Polognone rivale):
E tu resta costà coll'appetito.
Tutto vien sistemato: gli sposi rifiutati si ritirano mogi mogi, i fortunati si rallegrano e si accarezzano in disparte, mentre sorge una fiera disputa fra Giubbino e Drusiana i quali si incolpano a vicenda della cattiva educazione data alle loro figlie. Ma Giubbino che schizza fiamme e veleno da tutte le parti, ricorre al solito espediente ed urla:
Le bastonate n'anderanno a spasso!...
DRUSIANA. Darle sulle tue spalle è mio dovere.
GIUBBINO. Vo' far della tua pelle un materasso.
DRUSIANA. E io vo' fare un vaglio della tua.
GIUBBINO. Avanti, dunque, e chi le piglia èn sua.
E qui, accade l'ultima definitiva solenne bastonatura, che è prolungata fino alla consumazione dei mozziconi di randelli di paglia che son loro restati fra le mani.
Finita la scena, il poeta si ripresenta come Ambasciatore e improvvisando due ottave ringrazia gli spettatori e chiede scusa se non ha saputo meglio contentarli. Accenna alla moralità della favola, dice, additando gli attori, che sono buona gente, che è stata una burla e che tutti sono amici più di prima come li vedrete ora alla prova».
Il violino attacca stridendo le prime note del trescone, tutti i giovanotti si danno a far gazzarra, agguantando a gara le più gioconde e fresche ragazze che si trovano in piazza, ed incomincia la ridda fantastica fra la più schietta allegria.
Così ebbe fine il Bruscello della Serra, questo bizzarro spettacolo, che mi è sembrato degno di attenzione perchè modellato quasi perfettamente sull'antico Bruscello accademico dei Rozzi di Siena, senza che punto rassomigli agli spettacoli villerecci che sotto lo stesso nome usano ora per le campagne della Maremma senese. E in tal modo gentile si rallegrano i barbari abitatori di queste montagne, mentre nelle civili borgate della pianura, fra i bestiali bagordi carnevaleschi, il popolaccio si scoltella ubriaco.