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BEATRICE DEL PIAN DEGLI ONTANI
Anche questa donna originale, che per tanti anni ha fatto risuonare de' suoi canti boscherecci le amene selve dell'Appennino ed ha empito la Toscana del suo nome poetico, è morta: è morta nella sua povera casetta al Pian di Novello nella grave età di ottantadue anni.
Ed anche ai non Toscani che si occupano di lettere non deve esser nuovo il nome di questa figlia prediletta della Natura, di questa pastora poetessa, per le pagine piene di entusiastica ammirazione che ha scritto di lei l'abate Giuliani nel Vivente linguaggio della Toscana, e più per il cenno che fa di questa donna singolare il Tommaseo nella prefazione alla sua Raccolta di canti popolari toscani.
«A Cutigliano — dice il Tommaseo — ho trovata ricca vena di canzoni che non ho in un sol giorno potuta esaurire. Feci venire dal Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d'un pastore, che bada anch'essa le pecore, che non sa leggere, ma sa improvvisare ottave.... Donna di circa trent'anni non bella, ma con un volger d'occhio ispirato, quale non l'aveva madama De Sade, lo giurerei, per le tre canzoni degli Occhi». Più innanzi, sempre parlando di ]ei, cita versi dei quali dice che migliori non ne vanta fra i suoi Francesco da Barberino; ed ammira uscenti dalla bocca d'un'alpigiana il sedio, il viso adorno, il greve, il truono, il vertudioso, il confino, e quel sentimento di canto e di poesia che per questi poveri montanari pare sia come un bisogno. E quanto questo sia vero, lo dimostri un piccolo esempio.
Tempo addietro io trovai smarrita per la strada una lettera che veniva dalla Maremma, diretta ad una donna di Piteglio. Cercai lungamente, ma non potei trovare la destinataria; ed alla fine l'aprii per curiosità. Era d'un giovanotto che scriveva alla sua innamorata. Comincia in prosa a spassionarsi con lei, tenta esternarle, come può, tutta la tenerezza del suo core, ma ad un certo punto dice che la prosa non gli basta più alla foga dell'anima e le domanda per grazia che ascolti in versi tutto quello che le vuol dire. Ed ecco quei versi che io ho fedelmente trascritti correggendone soltanto l'ortografia:
E un giorno poi di me sarò padrone;
Si vive sempre con bona intenzione
Per giungere a quel giorno desiato.
Anche tornerà bianco l'Abetone,
Anche Piteglio tornerà gelato.
Passerà i mesi e gli anni e le stagioni
E passeranno a noi queste afflizioni;
L'amore è fatto con tribolazioni,
Non si riposa mai notte nè giorno.
E se di me tu ti ricorderai,
Verso la casa mia te ne verrai.
Di fare questi passi a te conviene,
Che ci ritroverai tutto il tuo bene.
Ti voglio bene com'a un primo amore.
Tra questa gente, nel 1802, nasceva Beatrice Bugelli, su nella parrocchia del Melo sopra a Cutigliano, in una delle ultime casette dove incomincia la regione inabitata fra il Libro Aperto e lo Scaffaiolo. Maritata a venti anni ad un Bernardi del Pian degli Ontani, là andò a domiciliarsi e là visse lungo tempo, finchè, distruttale la casa da una piena del Sestaione, andò più su, al Pian di Novello, a costruirsi quella misera casetta dove ieri io la vidi agonizzante.
Fino al giorno del suo matrimonio aveva sempre cantato versi appresi da altri, nè mai si era accorta del Nume che le covava nel core focoso. All'amante non aveva mai cantato un suo verso, al marito improvvisò la prima ottava quando in brigata festante uscivano di chiesa dopo l'anello.
Da quel momento la sua vena, come per lo scoppio d'una mina, si aprì larga, perenne, impetuosa. Donna di forti passioni che le fiammeggiavano negli occhi agitati, il verso e la rima composti in ottava diventarono il suo linguaggio familiare. Sempre eccitata, e potente di parola e d'immagini anche nella prosa, accalorandosi, i suoi periodi si accorciavano, le sue frasi si contraevano fino ad una giusta misura, alcune parole incominciavano a prendere assonanza fra loro e ad un tratto, gonfiando l'impeto, le assonanze diventavano rime, le frasi endecasillabi e i periodi ottave che via sgorgavano a torrenti finchè il giorno e gli ascoltatori duravano.
Divulgata la sua fama prima dall'Arcangeli e dal Tigri pistoiesi, poi dal Giuliani e dal Tommaseo, fu chiamata e festeggiata nelle prime case di Firenze, di Pistoia, di Pescia e perfino di Bologna, dove la rozza pastora dell'Appennino fece risuonare dei suoi canti le sale più aristocratiche, portandoci un'ondata di salubre aria montana. E la sua casetta fu, fino a questi ultimi tempi, il pellegrinaggio gradito anche dei molti stranieri, che nell'estate si fanno ospiti delle nostre montagne.
La sua vena era sempre fluente, ma nella lotta con altri improvvisatori la molla dell'estro le scattava più violenta; e, come il cavallo generoso fiuta l'odor della polvere, essa, dalla quiete delle sue selve, odorava il fiato dei combattimenti, e là correva, formosa da giovane come una Sibilla di Guido Reni, bella da vecchia come una Parca michelangiolesca, e là dove compariva era il terrore dei suoi avversari con la sola presenza, era la loro strage appena avventate le prime ottave battagliere e roventi.
E la sua vita, in mezzo a tanti tumulti, fu esemplare per rigidezza di costumi, che il suo amore era il canto, la sua pace quella casetta solitaria fra le carezze del marito e le dolci cure dei suoi otto vispi figliuoli.
Ma anche in quell'asilo di pace le procellose avventure andarono a trovarla. La miseria qualche volta l'afflisse, il lavoro per sostentarsi fu sempre eccessivamente faticoso e le bufere troncarono i suoi castagni; partorì due volte alla macchia, perse il marito ancora valido e franco, e suo ultimo e più grave dolore fu la morte di un figlio, giovane di ventidue anni, dolore che lasciò nel suo animo una ferita così profonda che non si è più rimarginata.
Dopo di che morì, mai più contento
In questo mondo niun mi potè dare.
Questi versi, fra bellissime ottave, improvvisava la madre sventurata all'abate Giuliani che, a Cutigliano, amorosamente stimolandola, la indusse a cantare sul tema doloroso. E cantando piangeva.
Povera anima travagliata! La sua ultima vecchiaia fu tranquilla, sebbene sempre angustiata dal rimpianto del figlio benaffetto.
In mezzo a un gruppo di figli, di nuore e di nipoti, vegliava al fuoco nei lunghi inverni filando e raccontando novelle; nelle brevi estati seduta fuori sulla porta, guardando il cielo de' suoi monti ed ascoltando il canto degli usignoli, che ebbero sempre per lei un fascino potente e gentile, passava i giorni in un sereno riposo.
Ma anche in questi ultimi tempi, al comparire di qualche visitatore a lei simpatico, pareva che la Beatrice degli anni più belli volesse rivivere. I suoi occhi mandavano lampi, le sue rughe pareva si stirassero sotto la pressione dell'eccitamento, si drizzava ispirata e cantava; ma la sua voce era fioca, il calore di quell'anima era ravvivato da una vampa di paglia, pochi versi e faticosi uscivano dalla sua bocca, e ricadeva a sedere con un gesto di dolorosa rassegnazione.
Diventato fatalista davanti a questa figura originale, ho nell'animo un senso vago d'afflizione, come se a me fosse toccato segnare Torà della sua morte. Molte e molte volte sono stato a Cutigliano, altrettante al Pian degli Ontani poco sotto alla sua capanna del Pian di Novello, e mai, ora per la stagione cattiva ora per gli affari, non ero stato a trovarla, quantunque lo desiderassi con ardore e sapessi che lei desiderava conoscer me. Ieri, finalmente, libero da noie, con una buona mattinata rigida ma asciutta, mi mossi da Cutigliano per andare a salutarla. La via era faticosa e mal sicura per la neve che lassù trovai alta un metro circa; ma fidando nella pratica di due bravi giovanotti cutiglianesi che mi facevano da compagni e da guide, vi giunsi senza altri inconvenienti che qualche tuffo fino alla cintola nella neve, la quale, nei luoghi più battuti dal sole, si sfondava con gran ridere di noi e col provocarci a nuove e più feroci fumate nelle nostre pipe capaci.
Arrivato alle prime capanne sulla spianata del Pian di Novello, domandai della Beatrice.
— È là che more — mi rispose una donna additandomi una casetta bruna quasi sepolta nella neve.
— More! Nei giorni scorsi è stata malazzata, lo so, ma ieri stava bene; me l'hanno detto a Cutigliano.
— Anche due ore fa stava bene, signore; ma stamani alle otto gli è preso un insulto, e ora c'è il prete che l'assiste. —
Alle otto precise movevo il primo passo da Cutigliano e avevo guardato l'orologio per misurare il tempo della gita. Strana coincidenza alla quale pensai allora sul serio, rimproverandomi non so di che. Una folata di fantasmi dolorosi in quel momento mi attraversava il cervello.
Il prete del Pian degli Ontani, che dalla finestra mi vide e mi riconobbe, scese per venirmi incontro.
— Ella arriva tardi — mi disse — la povera Beatrice è su che more.
— L'ho saputo. E non c'è speranza?
— Per me non arriva a stasera. Ottantadue anni, capisce? A quell'età è un brutto combattere contro la morte. Vuol salire a vederla?
— No, no, priore. Lasciamola morire in pace. Intorno al letto ci saranno i suoi parenti ad assisterla.... non li disturbiamo. Guardi, io mi metto qui a riposarmi un poco e poi voglio continuare per salire, se sarà possibile, al Lago Nero.
— Come le piace. —
Sedetti sopra un masso che sbucava di sotto la neve e, tirato fuori il mio album di disegni, mi misi a prendere un ricordo di quella casa e di quei monti. Venne fuori anche il figlio maggiore della Beatrice, e tutti mi fecero cerchio osservandomi disegnare e conversando malinconicamente dell'accaduto.
Dopo poco s'affacciò alla finestra una donna, che fece cenno al prete d'andar su. Il prete corse, e cinque minuti dopo, lui accennò a me che andassi, dicendomi che s'era un po' riavuta. Salii a malincuore ed entrato in una cameruccia affumicata, abbassando il capo per non battere nelle travi, vidi la povera vecchia stesa sopra un miserabile pagliericcio, che senza aprire gli occhi, nei quali brillava già la lacrima dei moribondi, incominciava allora, composta e tranquilla, il rantolo dell'agonia.
Fuori, i suoi nipotini strillavano al sole rincorrendosi sulla neve gelata; i faggi d'intorno pareva cantassero al vento:
O casa bruna, o vedova finestra,
Dov'è quel sol che ci soleva stare
E ci soleva ridere e far festa?
Ora vedo le pietre stare in pena....
O casa bruna, finestra serena!...
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