Camillo Berneri
Mussolini grande attore
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CAPITOLO PRIMO L'EPOCA DI MUSSOLINI

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CAPITOLO PRIMO

L'EPOCA DI MUSSOLINI

Sono numerosi i giornalisti stranieri che accostano Mussolini a Cola di Rienzo e a Masaniello. Candida ignoranza o sottile ironia?

Il primo è l'uomo che convocava ad audiendum verbum gli imperatori e i più potenti principi, si attribuiva il titolo di «Augusto» e dava un enorme valore a un bagno fatto nella vasca di Costantino. Pretendeva di essere figlio di Arrigo VII: in conclusione, un megalomane e quasi un folle. Anche il secondo fu un megalomane e un mezzo pazzo. È vero che Petrarca scriveva ai Romani invitandoli a venerare Cola come «un raro dono di Dio», e che Masaniello fu popolare in tutta l'Europa e venne salutato come novello Bruto da molti suoi contemporanei. Ma ciò dimostra solo la facilità con cui, in date epoche, si formano dei miti e delle antropolatrie.

Lo stesso Risorgimento è stato dominato da alcuni attori: Garibaldi, Pio IX, Vittorio Emanuele II hanno goduto di una immensa popolarità, non conosciuta da Pisacane, da Rosmini, da Cavour. Garibaldi ha dovuto una gran parte del suo prestigio alla sua bellezza fisica, al fascino del suo sguardo, ai suoi pittoreschi modi di vestire. Pio IX si avvantaggiava degli sfarzi e del fasto spettacolare della corte romana. Vittorio Emanuele II era anche lui un tipo pittoresco con dei baffi enormi e con il suo elmo armato di smisurate piume. Uno scrittore toscano, Renato Fucini, che nel 1877 visitò Napoli, scriveva di quella plebe:

«Il Re non è nelle buone grazie di costoro, perché sotto il suo regno i viveri sono rincarati; ma se Vittorio Emanuele attraversasse i quartieri bassi della città adornato di penne di pappagallo, di campanelli o di gemme di Murano, come il capo di una tribù selvaggia, si prosterebbero ad adorarlo. Non per questo tutta l'ammirazione che potessero concepire per un tal presunto corifeo, varrebbe a sradicare dalle loro convinzioni che Governo vuol dire oppressione, autorità, arbitrio; amministrazione, ladroneria» (R. Fucini, Napoli a occhio nudo. Firenze, Le Monnier, 1878, p. 36).

Il popolo italiano, in effetti, anche nei suoi strati più miserabili e più ingenui, non manca di un po' di spirito critico, e se ha momenti di facile e infantile entusiasmo per tutto ciò che colpisce la sua immaginazione e soddisfa la sua predilezione per le cose vistose, non cessa di osservare e non è sprovvisto d'ironia.

Prima della guerra, non mancavano in Italia idoli della folla che erano dei pulcinella, avventurieri e volgari opportunisti. Ma la loro influenza era limitata a una regione, a una città. Nessun demagogo godeva di una influenza nazionale. Se si svolgevano cerimonie spettacolari, esse non avevano la frequenza e la messa in scena di quelle del dopoguerra e nessun uomo politico, neppure fra i più sfrontati, avrebbe mai sognato di farsi dedicare dei monumenti, da vivo, come ha fatto Mussolini. Se si organizzavano manifestazioni in onore di un uomo politico, era per farlo uscire di prigione, per salutare un difficile successo elettorale, per ottenere la revisione di una condanna ritenuta ingiusta, per festeggiare la vittoria di uno sciopero diretto dal festeggiato, ecc... Se le donne del popolo si abbandonavano talvolta a manifestazioni esagerate, come quella di stendere con le loro mantiglie un tappeto per il vincitore o quella di offrirgli i bambini da abbracciare, queste manifestazioni non erano che derivazioni di costumi locali o del culto cattolico.

Dopo la guerra, al contrario, erano studenti, impiegati, borghesi e perfino nobili che si davano ad una vera frenesia di cerimonie, una più spettacolare dell'altra.

L'impresa di Fiume dette la scena mistica, il simbolismo, la liturgia si potrebbe dire, che doveva diventare una delle forze emotive del movimento fascista.

L'epoca di Mussolini è l'epoca di D'Annunzio. Eccola descritta da Pietro Nenni, già direttore del quotidiano Avanti! nel suo libro Six ans de guerre civile en Italie (Paris, 1929):

«Assistei a Fiume, nel settembre 1920, alle feste dell'anniversario della marcia. Si aveva l'impressione di vivere alla corte di un principe del Rinascimento, colto e magnifico. D'Annunzio si alzava all'alba. Era il primo a giungere allo appuntamento fissato ogni mattina ai suoi soldati ed era più che una passeggiata una corsa folle lungo la riva del mare o sulle colline circostanti. Alla tappa, il «comandante» parlava a quegli uomini il solito linguaggio immaginifico e violento. E la riunione terminava ogni volta con lo stesso cerimoniale:

– A chi l'Italia?

– A noi!

– Che fanno i nostri nemici?

Schifo!

Subito dopo D'Annunzio si dedicava agli affari «di Stato». Riceveva molta gente, moltiplicava messaggi e ambascerie, teneva rapporti con i Croati, gli Ungheresi, persino con i bolscevichi che sembra lo tenessero in grande considerazione. Collaborava a numerosi giornali.

Ma il progetto che, in quel momento, occupava il suo spirito avventuroso, era una marcia su Roma. A questo scopo non aveva esitato a sollecitare l'appoggio o quanto meno la neutralità dei socialisti, senza peraltro ottenerla. Quale pegno del suo interesse per la classe operaia, aveva pubblicato una Carta del Lavoro, vero codice di uno Stato corporativo. Sognava di sbarcare a Rimini o a Ravenna, di rifare la strada di Cesare, di giungere a Roma, sciogliere il parlamento e proclamare la dittatura dei patrioti.

– Che cosa faremo dei deputati, gridava ai suoi soldati.

Salsiccie.

– No, ci avvelenerebbero.

– Allora li sculacceremo, in piazza Colonna!

– Così, va bene...

Ma dove le sue qualità di attore di alto stile raggiungevano la perfezione era nei «comizi dialogati». Quasi ogni sera, convocava i suoi legionari ad una specie di grande rapporto. Esponeva e commentava i fatti del giorno. Che eloquenza! Che tagliente ironia! E quale veemenza contro i negoziatori di Versailles, da Clemenceau a Wilson. Erano quelli certamente i brani più belli dell'oratoria dannunziana che, d'altra parte, manca, com'è noto, di vera emozione.

Quando l'esposizione del comandante era finita, cominciava un pittoresco dialogo. Gli si ponevano delle domande. Si sollecitava la sua opinione su questo o su quell'argomento. Alla fine lasciava l'arengo dopo aver scambiato il saluto alla voce che più tardi il fascismo doveva riprendere:

– Per Gabriele D'Annunzio

Eia, eia, alalà!

– Per il popolo di Fiume!

Eia, eia, alalà!

– Qual'è il nostro motto?

– Me ne frego, rispondevano gli arditi alzando il pugnale, mentre il profilo mefistofelico di D'Annunzio si illuminava di un malizioso sorriso».

D'Annunzio era un istrione come Mussolini. La sua villa sul lago, a Gardone, museo-convento-alcova dove il lusso più sfrenato si mescolava ai simboli della povertà francescana, fu il suo teatro. Vi erano donne dai facili costumi in abito di suore francescane e legionari viveurs, anch'essi in veste di terziari. Vi si vedeva una statua di S. Francesco rappresentato con un'enorme spada al fianco ed anche un quadro raffigurante D'Annunzio completamente nudo, con la corona di poeta in testa e il monocolo, inginocchiato davanti a S. Francesco che gli apre le braccia.

La «cella monacale» aveva il soffitto in oro battuto; dappertutto era scritto Silentium e si sparavano cannonate. Le cerimonie mistico-eroiche si alternano a scene sardanapalesche. L'Imaginifico non ha paura del ridicolo. Ecco, per coloro che non seguono la stampa italiana, il resoconto di una cerimonia a Gardone. La riprendo dal Corriere della sera del 25 maggio 1926. Si tratta dell'inaugurazione del vessillo del gruppo sportivo degli impiegati della Banca Popolare di Milano.

D'Annunzio appare al Vittoriale, sul ponte, alla prua della nave Puglia, che inalza il suo albero maestro in mezzo al verde delle colline. È vestito da generale dell'aviazione. Su una montagna, sul ponte di una nave, in divisa d'aviatore: c'è la terra, il mare e il cielo.

Si toglie il berretto e parla. Comincia a piovere e si grida dal pubblico: «Tenete in testa il berretto!». L'oratore risponde: «Il comandante non riceve ordini»; lancia il suo berretto fra la folla e aggiunge ridendo: «Mi dispiace che non sia qualcosa di più solido». Uno dei presenti, il sindaco di Crema, domanda la parola e annuncia che un piccolo gruppo di legionari cremaschi si è unito al grosso del pellegrinaggio sportivo e che porta in dono alcune preziose monete dell'epoca di Barbarossa. Il poeta risponde: «Non sono un numismatico ma le accetto come un obolo e fo osservare che anche la Banca Popolare doveva portarmi, e dovrà farlo, il buono da cinquanta centesimi che essa stampò, sessanta anni fa, al tempo della crisi finanziaria». Nessuno ha pensato a questo dono. E il poeta riprende a parlare qualificandosi «uomo di finanza»: «Il figliuol prodigo, di cui io sono il discendente, è il più perfetto uomo di finanza. Si dice, miei cari compagni economi, che il Comandante ha le mani bucate... Ecco il segno che mi apparenta a S. Francesco che aveva, anche lui, le mani bucate dalle stigmate. Attraverso le mie stigmate passerà anche quel buono di cinquanta centesimi che voi non mi avete portato». Terminato il discorso, abbracciato il labaro, D'Annunzio ordina di tirare sette colpi di cannone. Poi discende dalla prora, abbraccia alcuni legionari cremaschi e promette di andare a Crema, incognito «con la parrucca, una barba finta e un paio di occhiali d'oro da giovane pianista». Dopo aver parlato dell'efficacia del digiuno sul cervello, si ritira.

E questa non è stata una delle cerimonie più stupefacenti.

Le buffonate di D'Annunzio sono un segno dell'epoca. Ma ancora più significativa mi sembra l'avventura di Edgarde La Plante, comparsa cinematografica americana, che riuscì nel 1924 a farsi passare per un principe pellirossa e a divenire un personaggio ufficiale del fascismo.

Come i vermi che formicolano su un cadavere consentono di stabilirne il grado di decomposizione, così la specie di avventurieri che riescono ad imporsi in un dato momento storico illuminano lo stadio di decadimento di una nazione. La figura ed il ruolo di Rasputin sono stati giustamente studiati ancor più di Nicola II e dei suoi ministri.

La Plante non era che il capo di una troupe di pellirossa da circo, un presentatore-Barnum della casa cinematografica «Paramount», un ballerino e cantante dei teatri di varietà. Alcoolizzato, bigamo e omosessuale, non era fornito di alcuna cultura. Era un volgare scroccone. Conosciute a Nizza due contesse tedesche, madre e figlia, divenne loro amico: così cominciò a spillar loro denaro. A Grado, a Porto Rose, a Trieste debuttò facendosi passare per un grande capo indiano venuto in Europa per rivendicare i diritti della sua razza. I suoi primi successi, nei Casinò e negli stabilimenti balneari, gli suggeriscono l'idea di fare un giro trionfale attraverso tutta l'Italia. La prima tappa fu Venezia, ove venne accolto con una grande manifestazione popolare. Scese all'Hotel Danieli: i giornalisti accorsero per intervistarlo, presentandolo poi, con articoli stupidamente apologetici, come un autentico principe indiano. Invitato a ricevimenti ufficiali, cominciò a circondarsi di segretarie e di una specie di guardia personale composta da giovani fascisti. Ormai sicuro di , si gettò nell'avventura.

Il 21 luglio 1924 è proclamato a Fiume fascista ad honorem. Un generale della milizia fascista gli dona, a Trieste, la sua foto con questa dedica: «A Sua Altezza il Principe Chief Elk Tananna Ray, fascista nell'anima e gregario devoto». Il vescovo dell'Istria gli fa dono di un prezioso anello; ad Ancona è accolto ossequiosamente dalle autorità; a Bari riceve una seconda tessera ad honorem; nei paesi delle Puglie il suo arrivo è salutato dalle campane delle chiese; a Roma è ricevuto da Mussolini; a Milano i moschettieri di Mussolini lo nominano moschettiere onorario; a Torino parla alla celebrazione del secondo anniversario della marcia su Roma; dovunque gli è conferita la qualifica di membro onorario di numerose associazioni di ex-combattenti e dovunque distribuisce denaro a piene mani. Quando stava per sedersi a teatro, nel palco reale, dovette ripartire per la Svizzera con la sua collezione di foto con dedica, di doni, di tessere ad honorem, di lettere d'ammirazione. Arrestato, venne condannato per truffa e fu l'Italia ad essere giudicata. Uno dei membri del tribunale osservò: «Neppure D'Annunzio venne esaltato a tal punto» e una donna di spirito scrisse all'accusato: «In questo mondo e di questi tempi solo cervelli come il vostro fanno carriera. Che guaio aver voluto attribuirsi un titolo che non vi spetta! Se aveste scelto la carriera politica, sareste ora un grande capo...».

In effetti, pantografando questo episodio di cronaca, noi abbiamo la storia di quel periodo: l'ora del pasto politico dei nuovi arrivati. E si può, senza esagerazione, affermare che quasi tutti i «ras» fascisti sono dei... principi indiani. Basta leggere il capitolo che è loro dedicato in La Terreur fasciste (Paris, 1929) del professor Salvemini, per convincersene.


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