IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
Henry Béraud ha ragione di dire: «Mussolini è incontestabilmente un grande oratore». Pochi oratori hanno praticato con miglior successo il precetto: Ars est celare artem. Mi ricordo di averlo sentito parlare quando era il leader della frazione rivoluzionaria del partito socialista2. Vedo ancora i suoi occhi di visionario, le braccia protese in avanti e scosse da un tremito convulso, le sue frasi martellanti. E penso, con melanconia, all'idolatria di cui godeva fra i «giovani».
Giovanni Zibordi, socialista riformista, scrivendo sull'Avanti!, a proposito del Congresso socialista di Ancona (aprile 1914) si mostrava avvinto dall'eloquenza di Mussolini che aveva trionfato sulla destra del partito:
«Benito Mussolini, l'agitatore degli animi, l'oratore-catapulta, diverso da tutti gli altri, perché, a differenza di molti (e in certo senso si potrebbe dire di tutti) non parla agli uditori, ma parla con sé stesso; ad alta voce. Dice forte – in altri termini – quello che sta pensando: non dice quello che convien dire in quel momento, a quel dato fine... o peggio, non dice quello che non pensa, non afferma forte quello che nega piano, fra sè.
Eppoi, l'eloquenza sua è tutt'una cosa, starei per dire tutt'un pezzo, col suo aspetto. Non è possibile contraffazione in lui, equivoco in altri. I suoi occhi e la sua bocca dicono le stesse parole. Le mani afferrano e stringono il parapetto della tribuna, in perfetto accordo col suo pensiero. Pare che guardi l'assemblea, ma guarda dentro di sè. Si può discutere quel che dice, ma non si può dubitare della sincerità. Il Congresso, il popolo plaude, sorride, si esalta, con trasporto immediato, fervido, impetuoso, al suo apparire, al suo discorso.
I superficiali possono credere che ciò avvenga perché è originale, perchè quel suo furore è gustoso, perché la sua eloquenza a scatti, lenta o precipite, tutta lampi di pensiero e folgori di parola, ha anche un lato estetico e divertente, per tutti, indipendentemente da quel che dice.
Io penso che, anche a sua insaputa, il pubblico – la parte più ingenua e primitiva di pubblico – obbedisca a un senso più profondo: all'impressione, alla intuizione sicura, che sotto quella ferocia di uomo del '93 c'è una infinita «bontà» socialista: cioè un dolore acuto dell'universo dolore, una volontà ferma di lotta per la giustizia: la capacità di mandar sulla ghigliottina il fratello, se stesso, se ciò è necessario all'Idea!
Il popolo, noi tutti, rivoluzionari o no, sentiamo che se Benito Mussolini crederà a un certo momento utile la barricata, sarà il primo a salirla (G. Zibordi, Attorno al Congresso. Tipi ed episodi in Avanti! del I maggio 1914).
I suoi occhi e le sue mani: ecco ciò che ha colpito e affascinato uno dei suoi antagonisti. In una intervista di Mussolini all'anarchico Armando Borghi si legge:
«Egli mi squadrò con una di quelle levate di palpebre che scoprono tutto il bianco dell'occhio, come a voler abbracciare una fuggente visione lontana, e che danno al suo sguardo e alla sua fisionomia un'aria pensosa di apostolo...».3.
In un'intervista pubblicata sulla rivista Gli oratori del giorno dell'agosto 1928 la poetessa Ada Negri parla del «pallore del viso, gli occhi magnetici, la voce timbrata» di Mussolini. «Ma soprattutto, aggiungere bisogna la mano di Mussolini. Egli ha una mano bellissima, medianica, alata quando si protende: il gesto è fascinatore. Molte volte io ho seguito la mano di Mussolini quando parla e mi è sembrata un faro, il primo faro della sua personalità. Nel campo femminile vi è stato qualcosa di simile nelle mani di Eleonora Duse, che magicamente gestivano, sparivano e apparivano nell'aria. Ecco, la mano di Mussolini io l'ho qui nella mente... io la vedo... è essa che potenzia i suoi successi oratori»4.
La gesticolazione, gli atteggiamenti costituiscono gran parte della sua oratoria. Ecco ancora come lo scrittore Ugo Oietti descrive Mussolini oratore:
«Oratore espertissimo, padrone di sè, sempre di fronte al pubblico, egli commenta ogni periodo, ogni battuta, col volto che le conviene. Il gesto è parco. Spesso egli gestisce solo con la destra, tenendo la mano sinistra in tasca e il braccio sinistro stretto al fianco. Talvolta si pone in tasca tutte e due le mani: è il momento statuario del riassunto, il finale. Nei rari momenti in cui questa raccolta figura di oratore si apre e si libera, le due braccia roteano alte sulla testa; le dieci dita si agitano come cercassero nell'aria corde da far vibrare; le parole precipitano a cateratta. Un istante: e Mussolini torna immobile, accigliato, e con due dita si cerca il nodo della cravatta elegante per assicurarsi che non s'è scostato dalla verticale. Questi momenti di gesticolazione tumultuosa non sono i momenti commoventi: sono per lo più il finale delle dimostrazioni logiche, un modo di rappresentare al pubblico la folla degli altri mille argomenti che egli enumera, accenna, tralascia per brevità, una specie di eccetera mimico efficacissimo». (Tantalo, Cose viste, in Il Corriere della Sera del 18 novembre 1921).
Quando un oratore deve il suo successo all'aspetto fisico, al timbro della voce, al gesto, è già un attore. Ma il grande oratore è veramente attore? Lord Morley ebbe a dire: «Tre cose sono importanti in un discorso: colui che parla, come parla e ciò che dice, e quest'ultima cosa è la meno importante delle tre». Fox affermava addirittura che se un discorso appariva molto bello alla lettura, doveva trattarsi di un brutto discorso. Mirabeau e Jaurès dimostrano che questo non è che un paradosso. Se la grandezza dell'oratore fosse tutta nei gesti, nella voce, nel giuoco delle sue espressioni, l'ars oratoria non sarebbe che una branca dell'arte teatrale.
L'eloquenza di Mussolini è ricca di immagini, e le immagini sono nei discorsi ciò che gli aggettivi sono negli scritti. Più il pensiero è solido e l'espressione potente ed immediata, meno aggettivi ed immagini si incontrano nel discorso, che non è altro che prosa parlata. Il grande oratore è il Molière della parola, colui che crea i suoi discorsi e li pronuncia con arte, mentre l'oratore comune tesse con bei gesti e belle frasi, e con una sua mimica, un velo ricco di riflessi che però si ridurrà ad uno straccio quando non ci sarà più il suo tessitore ad agitarlo.
Dell'eloquenza di Mussolini come di quella di Gladstone non resterà che un'eco rumorosa. La vera eloquenza è quella della fonte perenne; quella del tribuno è una voce che muore appena tace: come quella del cantante.
Mussolini è dunque un grande tribuno. Gustave Le Bon ha detto: «Conoscere l'arte d'impressionare la immaginazione delle folle, significa conoscere l'arte di governare»5. Ciò è vero psicologicamente, ma è falso storicamente poichè i grandi tribuni han saputo portare le folle all'esaltazione, condurle ove essi volevano condurle, ma il potere conquistato con la sola parola è sempre stato un pallone presto sgonfiatosi sull'abisso.
Nel marzo 1919, Mussolini non aveva alcun programma da presentare al primo Congresso dei Fasci. Arturo Rossato, uno dei suoi luogotenenti in quel tempo, lo dice: «In fondo, nessuno di noi sapeva ciò che bisognava fare». Ma:
«Mussolini, con quel suo piglio da Colleoni in arcione ed in elmetto dichiarò che il nuovo partito doveva essere di "combattimento"... Faceva risuonare la parola "combattimento" appoggiandoci su la voce». (Op. cit., pag. 40).
Così Mussolini si metteva alla testa del suo piccolo esercito. Ma egli lo conduceva ben presto a rinnegare le proprie origini, il suo programma democratico e pacifista. Lo poneva al soldo della plutocrazia industriale e agraria. Lo conduceva fino a Roma, per rinnegare ciò che restava ancora nella propaganda e nell'azione del liberale, del democratico, del pacifista. L'arte di arrivare è dunque l'arte di governare? Se sì, Mussolini è un grande oratore, un grande uomo politico. Ma allora, bisogna finirla di parlare dell'eloquenza come di un'arte degna e della politica come di una attività rispettabile.
L'uomo che si vanta di «calpestare il cadavere imputridito della dea libertà», l'uomo che all'atto di insediarsi come Primo Ministro dice ai deputati stupefatti: «Dipende da me, Signori, di trasformare quest'aula in un bivacco fascista», non ha dato una sola linea personale alle direttive del proprio governo. Non ha fatto durante quasi dieci anni di potere che dei discorsi rimbombanti, al galoppo di sogni grandiosi. Ha inebriato la gioventù d'entusiasmo, senza nutrirla di idee. Ne ha lusingato l'orgoglio, senza dirle una parola di chiarezza e di orientamento:
«Il fascismo – egli ha detto – è una passione, un dinamismo, la vita vivente. La gioventù è bella perchè ha gli occhi limpidi in cui si rispecchia il vasto e tumultuoso spettacolo del mondo; è bella perchè ha il cuore intrepido che non teme la morte; solo la gioventù sa morire... In noi è il destino dell'Impero, giovani di tutte le scuole e di tutti i cantieri. Salute a voi, adolescenti che vi affacciate alla vita con un'anima pura e che illuminerete il mondo».
Dire simili cose sullo scenario di una piazza ove le pietre parlano di potenza, sotto un cielo in cui volteggiano gli aerei, dal balcone ornato di bandiere e di vessilli, dirle con una voce sonora, col volto più romano possibile, ecco l'opera principale del Duce. Parole, ancora parole, sempre parole. Dopo aver distrutto migliaia di cooperative e di camere del lavoro, parlerà così agli operai milanesi, il 6 dicembre 1922:
«Visitando poc'anzi questa bella grande officina, io mi sono sentito preso da un profondo senso di commozione; ed ho rivissuto in un attimo i giorni lontani della mia giovinezza. Perchè io non scendo da antenati aristocratici e illustri; i miei antenati erano contadini che lavoravano la terra, e mio padre era un fabbro che piegava sull'incudine il ferro rovente. Talvolta io, da piccolo, aiutavo mio padre nel suo umile lavoro; ed ora ho il compito ben più aspro e più duro di piegare le anime. A vent'anni ho lavorato con le braccia, dico "con le braccia"; ho fatto il manovale e il muratore, ma ciò vi dico non per sollecitare la vostra simpatia, ma per dimostrarvi che non sono e non posso essere nemico della gente che lavora. Però sono nemico di coloro che in nome di ideologie false e grottesche vogliono mortificare gli operai e condurli alla rovina.
Voi avrete modo di constatare che più delle mie parole varranno i fatti del mio Governo...». (Il Popolo d'Italia del 17 dicembre 1922).
Gli atti del suo Governo sono stati rivolti a schiacciare gli operai e i contadini. Ma Mussolini parla ancora di suo padre fabbro ferraio e posa ancora a ...amico del popolo.