Camillo Berneri
Mussolini grande attore
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CAPITOLO QUINTO IL MITO DEL DEMIURGO

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CAPITOLO QUINTO

IL MITO DEL DEMIURGO

Arrivato al potere senza idee chiare, senza una solida cultura, con una preparazione politica essenzialmente giornalistica, Mussolini non era che un personaggio. Dovette cercare degli autori per recitare la commedia dell'uomo di Stato. Fece man bassa su nove portafogli, ma nominò una specie di Consiglio della Corona che fu la Commissione di 18 membri incaricata di stabilire ciò che avrebbe dovuto essere questo Stato fascista, cosa che Mussolini non aveva mai detto, pensato. Per il Presidente del Consiglio l'arte di governare era semplicemente un problema di polizia. Ripartì gli italiani in tre categorie: «... Gli indifferenti che restano in casa loro ad attendere; coloro che simpatizzano con noi e che possono circolare; e gli italiani che sono nostri nemici e questi non circoleranno».

Lui, il Duce, non aveva creduto al successo della marcia su Roma. Era restato a Milano, attendendo di veder finire la parata in una retata generale dei suoi luogotenenti. Chiamato a Roma dal re, era stato talmente sorpreso dagli eventi che dovette farsi prestare una camicia bianca per presentarsi al Quirinale.

Arrivato al potere, seppe assumere il suo ruolo apparente di deus ex machina. Lasciò alla alta burocrazia civile e militare il compito di studiare i problemi e di presentare le soluzioni che gli agenti degli industriali, dei banchieri e degli agrari modificavano a loro piacimento.

Si sa che una schiera di consiglieri lo rifornisce continuamente di progetti, informazioni, chiarimenti. Al momento utile, Mussolini non ha che da estrarre da una delle caselle della sua testa il progetto che occorre. La sua universalità tecnica non esiste. Egli ha solo una mentalità assimilatrice.

Tutti coloro che hanno vissuto al suo fianco sono d'accordo nel dichiarare: «È l'uomo dell'ultimo consigliere». Mussolini non fa che prendere su di la responsabilità delle decisioni elaborate dans les coulisses, presentandole come frutto delle sue lunghe meditazioni e della sua «smisurata volontà», come dice la stampa. Le sue principali occupazioni sono quelle di ricevere i visitatori, di concedere interviste a giornali stranieri, di scrivere articoli, di preparare e di fare discorsi. L'argomento su cui Mussolini non ha timore di ripetersi è quello del suo zelo come «servitore dello Stato». Nella sua autobiografia si preoccupa di far rilevare che non va mai a teatro, per poter lavorare alla sera. Che abbia una grande resistenza al lavoro, non v'è dubbio, ma egli ha la mania di farsi passare per un lavoratore prodigioso. E ne racconta di grosse! In un discorso del marzo 1929, si è vantato di aver accordato 60.000 udienze e di aver sbrigato 1.887.110 pratiche, dal novembre 1922 al marzo 1929. Si è pensato di fare un calcolo... degonfleur, e si è trovato che Mussolini avrebbe dovuto dare in media 26 udienze al giorno e sbrigare quotidianamente 813 pratiche. È un po' troppo, anche per un individuo che, come si sa, gode delle particolari simpatie del Padre Eterno. Ma può darsi che la cifra delle udienze sia esatta, poichè il «servitore dello Stato» perde quattro o cinque ore al giorno per ricevere tutti i poeti orientali, tutti i giornalisti corrotti, tutti i banchieri americani, tutti i fascisti balcanici, tutti gli istitutori australiani, tutti i pittori giapponesi, tutti i boy-scouts del mondo intero ecc. ecc. Se si aggiungono gli articoli, le prefazioni, i trafiletti, i comunicati, le cerimonie, la lettura di Machiavelli, le messe, le lezioni di Padre Tacchi-Venturi, la lettura di centinaia di giornali, le suonate di violino, le cavalcate, le corse in auto, il canottaggio, i voli in aereo e tutte le altre innumerevoli attività del Duce, bisogna concludere che gli affari di Stato non gli prendono poi tanto tempo.

Un'altra manìa di Mussolini è quella di stare sempre bene in salute. Per più di un anno si è nutrito di biscotti e di latte; un'ulcera duodenale lo inchiodava frequentemente a letto, ma egli ha sempre simulato di crepare di salute. Diffusasi la notizia che era sofferente, convocò a Villa Torlonia i giornalisti ed eseguì davanti a loro dei giuochi equestri: «E ora andate a dire che sono malato».

Una gran parte dei suoi sforzi è diretta a sostenere il mito della sua forza instancabile e della sua indipendenza creatrice.

Il suo attualismo, nel senso italiano della parola, nasconde l'impotenza del suo pensiero. Il suo eclettismo maschera la sua incapacità di dare linee di tattica e di lavoro al partito e al governo. Egli chiarisce: «La forza del fascismo risiede nel fatto che esso prende da tutti i programmi la parte vitale». Se fosse vero, il fenomeno fascista presenterebbe una continuità. Vi sarebbe in esso un nucleo coerente; invece non ha fatto che vuotarsi via via per riempirsi delle anime più diverse. Il suo attualismo si è risolto in un opportunismo inconsistente. Mussolini è il Marinetti della politica. Non fa che esaltare il dinamismo del suo partito, in un volgare e folle pragmatismo.

«Noi suoniamo la lira su tutte le corde: da quella della violenza a quella della religione, da quella dell'arte a quella della politica. Siamo politici e siamo guerrieri. Facciamo del sindacalismo e facciamo anche delle battaglie nelle piazze e nelle strade. Questo è il fascismo così come fu concepito e come fu attuato...»6.

Alla vigilia di prendere il potere, l'uomo di Stato dichiara:

«Il fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa si propone? Lo diciamo senza falsa modestia: governare la nazione. Con quale programma? Col programma necessario per assicurare la grandezza morale e materiale del popolo italiano».

Ma del programma non c'è niente. Cos'è questa grandezza morale e materiale di un popolo? Non la definisce. Ed ecco Mussolini che esalta il vuoto dinamico:

«Noi non crediamo ai programmi dogmatici, a questa specie di rigidi schemi che dovrebbero contenere e mortificare la cangiante, incostante e complessa realtà. Ci permettiamo il lusso di sommare, conciliare, superare in noi queste antitesi in cui restano imprigionati coloro che si fossilizzano in un monosillabo di affermazione o di negazione. Ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalitari e illegalisti, secondo le circostanze di tempo, di luogo e d'ambiente, secondo la storia in cui siamo costretti a vivere e ad agire».

È l'impotenza di un pensiero che si esalta nell'attualismo senza chiari orizzonti e senza bussola.

Nella sua autobiografia, Mussolini dichiara: «Non credo alla pretesa influenza dei libri... Non ho mai legato il mio nome e le mie idee ad una qualsiasi scuola». Niente di men vero. Tutti i suoi scritti e i suoi discorsi sono a dimostrare la viva influenza delle sue letture. Nietzsche, Stirner, Marx, Sorel, Hervé sono stati il suo nutrimento, male assimilato, quando era socialista rivoluzionario. Machiavelli, Hegel, William James sono stati i suoi maestri in seguito. Una prova della sua povertà ideologica è data dai suoi saggi su Klopstock, sulle figure femminili del Guglielmo Tell di Schiller, dalla sua vita di Huss. Nel 1913, nella sua prefazione all'edizione italiana del libro Il socialismo rivoluzionario di Albert e Duchesne, tentò una sintesi del suo pensiero politico: ne uscì una cosa pietosa. Il solo studio di qualche valore che egli abbia dato è stato Il Trentino veduto da un socialista. Ha dimostrato sempre di non avere che idee acquisite.

Senza Rocco, senza Federzoni, senza Gentile, senza Rossoni non avrebbe potuto creare «lo Stato integrale». La Carta del Lavoro non è che un plagio che deforma e altera lo spirito del progetto di Costituzione dello Stato libero di Fiume presentato da Gabriele D'Annunzio nel 1920 e una imitazione del regime sindacale-statale dell'URSS. «La rivoluzione del 1922» che si proclama futurista, fu ricondotta da Mussolini a un imperialismo carico di ricordi della Roma di Augusto, delle vittorie di Scipione e simili vecchi gessi. Paganesimo e cattolicesimo, attaccamento al passato e futurismo, pacifismo e militarismo, sindacalismo e plutocrazia: tutto si mescola nella retorica di Mussolini. Egli non è che un genialoide. Il genio è la forza dell'atleta, l'ingegnosità del genialoide è la forza dell'epilettico. Il primo è lo splendore, la seconda soltanto il lampo di un breve momento di successo.

Un filosofo italiano, Giovanni Bovio, ha descritto nel suo saggio Il genio una figura di «genialoide» che corrisponde troppo bene a quella di Mussolini per non citarlo:

«È antico quanto la vanità; l'egoarchia gli è congenita, perchè non vede altro che ; il paradosso gli è proprio, perchè non può produrre altro; ma si moltiplica ne' tempi di più facile concorrenza agli onori e alla fama. Allora riesce più immediatamente funesto nella politica che nelle altre parti della vita. Non c'è altezza di ufficio e di potere a cui non si reputi pari; e non queta se nol tiene. Allora i popoli pagano.

Il genio nella direzione dello Stato muta i mezzi e resta saldo nel fine; il genialoide muta mezzi e fine, stimando accidentali tutte le forme di Stato, ed essenziale il suo dominio. Lo si vede quindi andar saltelloni dall'uno all'altro estremo, dalla licenza alla violenza, da Voltaire a Gesù, buttandovi in faccia tutti i paradossi politici, cioè: che la libertà costa ai popoli; che chi non muta si fossilizza; che l'espansione dello Stato è conquista; che una religione si rialza per decreto di Governo o iniziativa di classe; e via, alla svelta». (G. Bovio, Il genio. Un capitolo di psicologia, Milano, Treves ed., 1900, pag. 163).

Non è il profilo del genialoide Mussolini?

Del genialoide, Mussolini ha anche i tratti fisici. Schopenhauer osservava che l'espressione geniale di una mente consiste nella possibilità di scorgere in essa una marcata preponderanza alla conoscenza pura. «Al contrario nelle menti comuni l'espressione della volontà è predominante e si vede che la conoscenza non vi opera che sotto l'impulso della volontà ed è determinata sempre da un motivo...». La fisionomia del Duce è una mescolanza di intelligenza e di volontà, con marcata preponderanza di quest'ultima. Ugo Oietti (loc. cit.) scriveva a questo proposito:

«Ha due volti in uno: il volto di sopra, dal naso in su; quello di sotto, bocca, mento e mascelle. Non v'è, tra i due, nessun nesso logico; ogni tanto, serrando le mandibole, spingendo innanzi il mento, corrugando le ciglia, Mussolini riesce a imporre quel nesso ai due suoi mezzi volti, a conciliarli con uno sforzo di volontà, per un attimo. Gli occhi tondi e vicini, la fronte nuda ed aperta, il naso breve e fremente, formano il suo volto mobile e romantico; l'altro, labbra diritte, mandibole prominenti, mento quadrato, è il suo volto fisso, volontario, diciamo pure classico. Quando alza le sopracciglia, queste arrivano a formargli sul naso un angolo acuto da maschera giapponese. Quando invece le aggrotta, esse si dispongono in una netta linea orizzontale, e gli occhi scompaiono sotto le due arcate buie, e tra quella mezza calvizie e quel mento appare una maschera cupa e ferma che è stata detta addirittura napoleonica. Quale è il vero volto di Benito Mussolini?».


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