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Una bella rivelazione fu per me una conferenza di Angelo Tasca, che illustrò la questione della guerra di Libia con il Manuale di statistica del Colajanni alla mano. Parlare in un comizio con tanto di manuale statistico alla mano era trasferire alla piazza la serietà della scuola, inserire nella propaganda politica il positivismo dello studioso. Io fui entusiasta di Tasca, di Poggi e di tutti i pochi propagandisti socialisti che facevano del tavolino una cattedra. Per questa ragione ho avuto sempre una particolare simpatia per Gramsci, per Terracini e per gli altri pionieri culturali del partito comunista, che si distaccavano completamente dai bagoloni incolti che dovevano, venuti a mancare i cervelli, fare da generali e da «teorici».
Il problemismo salveminiano, il filosofare politico di Gobetti, l'onesto e limpido ragionare di Malatesta e di Fabbri, la scrupolosità di erudito di Tasca, mi hanno sempre confermato nella preferenza per la conferenza preparata e per la discussione che non sia torneo oratorio bensì dibattito di idee e nella mia repugnanza verso i discorsi altisonanti e nulladicenti che da Bombacci ad Ambrosini, da Bucco a Meledandri, da Rossoni a Cicala sono stati in auge nel sovversivismo italiano. Domandavo, un giorno, ad Attilio Sassi: «Ma che cosa ci stavano a fare Parsifal, i cigni e tutti quei fondi da magazzeno wagneriano che hai tirati fuori nel tuo discorso?» E glie lo domandavo non per satira bensì perché non riuscivo ad afferrare il nesso tra i salari dei minatori delle lignite valdarnese e la trilogia wagneriana, e non potevo ammettere che il pubblico, che aveva applaudito Parsifal, i cigni e tutto il resto, avesse capito più di me e intrepretasse quei richiami alla Bernard Shaw, che il Sassi, per fortuna, non conosceva.
La stessa meraviglia la provai ascoltando un discorso di Bombacci in cui si vaticinava la rivoluzione italiana come opera di un orso russo che sarebbe ruzzolato già dalle Alpi, dal crinale ai piedi del versante italiano, ben inteso. Come un orso, sia pure stando Lenin, nella metafora, sotto la pelle di quell'orso, potesse far scoppiare la rivoluzione italiana e farla vincere era per me un mistero infinitamente più incomprensibile di quello della santissima trinità, ma quattromila persone applaudivano a tutto spiano e Bombacci intanto, riavviatosi col pettine delle cinque dita della destra la chioma lunga ed ondata che faceva la sua forza politica, si avventurava in nuove immagini da fiabe per bambini. A forza di seminare sciocchezze a piene manciate, a forza di provocare diarree di entusiasmo senza pensiero, a forza di lanciare delle trovate da ciarlatani invece che delle idee nette e ferme, siamo giunti al fascismo. E non abbiamo ancora imparato che pochissimo, nonostante che la lezione sia stata disgustevole di olio di ricino, dura di manganello, lacrimante sangue e sghignazzante con tutti i denti, come la morte sghignazza. Oh, che ci vuole agli Italiani per stomacarli? Fino a quando chi parla in pubblico non abbia fatto proprio il principio di Gandhi: «Io non desidero che un solo essere mi segua, se non ho fatto appello alla sua ragione» non vi sarà educazione politica, non vi sarà libertà ne giustizia.
Oggi è costume ridere della retorica fascista. Ma siamo delle scimmie che ridono davanti ad uno specchio. Hitler grida, a Berlino: «Quando un popolo sollecita sinceramente la libertà, le armi gli spuntano da sole nelle mani!»
Il 18 dicembre 1791 il girondino Isnard compariva nel club dei giacobini con una spada in mano esclamando: «Vedete questa lama, o signori? Essa sarà sempre vittoriosa. Un terribile grido sarà emesso dal popolo francese e alla sua voce risponderanno quelle delle altre nazioni. Il suolo si coprirà di guerrieri e tutti i nemici della libertà saranno soppressi dalla faccia della terra».
I demagoghi sono di tutti i tempi e di tutti i colori. È la demagogia alla quale va schiacciata la testa.
(Da L'Adunata dei refrattari del 28 marzo 1936)