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Il filosofo vero non è un ipnotizzatore di cervelli. Non è un illusionista. Non fa saltare fuori dei conigli dal suo cilindro, nè delle uova di struzzo dai taschini del suo panciotto. Il filosofo vero, quando parla in pubblico, è un uomo che pensa a voce alta. È conferenziere alla Han Ryner, è non-tribuno. Può essere un mistico che delira, ma non un attore che vuole dominare il pubblico. Egli non cade in volgarità da campagna elettorale. Cousin può dire: «Signori, voi amate ardentemente la patria. Se volete salvarla, abbracciate le nostre belle dottrine». Kant non lo potrebbe. La demagogia e la filosofia sono inconciliabili. È per questo che la Chiesa ha avuto tanti teologi oratori. Ed è per questo che tutti gli oratori hanno un tono ecclesiastico e ragionano come quel predicatore di Roma, ricordato da Madame de Stael, il quale, nel furore della predica, scagliandosi contro gli enciclopedisti e specialmente contro il Rousseau, si levava il berretto crociato e lo buttava al suolo perché rappresentasse Jean Jacques, e gli urlava: «Che avete da opporre?» per poi gridare, trionfante: «Vedete? quando è messo al muro da una domanda, non sa rispondere!».
Il predicatore, sia tonsurato sia ateo, sia fascista sia giacobino, è facondo sempre ma non mai eloquente. La facondia permette di parlare a lungo ed elegantemente senza esporre idee che non siano dei luoghi comuni. Facondo è Herriot, eloquenti furono Castelar e Jaurès. Il vero oratore, il grande oratore è colui che fa della propria parola l'equivalente sensibile del proprio pensiero. È colui che non è semplicemente un virtuoso bensì l'esecutore delle proprie composizioni. Egli è retore, ma veste elegantemente un corpo vivente e non un manichino e lo veste di veli e non di panno trapunto, sì che quel corpo di idee si rivela, sì che il pathos è calore e luce insieme, fiamma del ceppo e non finzione scenografica.
Il facondo senza eloquenza è il tribuno volgare. Prato ondante al vento della parola, la folla accoglie il fondiccio di torbidumi ideologici, si compiace delle cascatelle di metafora più o meno barocche, si meraviglia della fluidità dell'eloquio, si lascia impaniare dalle civetterie del gesto e dei toni. Ma finito il discorso-spettacolo, non rimane, nei cervelli, che qualche vaga immagine fumosa di tutti quei razzi e di tutte quelle girandole. Alla domanda dell'assente: «Che cosa ha detto?» non vi è altra risposta: «Ha parlato bene», che altra risposta non è possibile. Involontaria, e di frequente incosciente, ironia in quel: «Ha parlato bene». Il Crisostomo piazzaiolo ha parlato non con aurea bocca bensì con bocca dorata; è stato facondissimo alle orecchie quanto infecondo alle menti. Ha seminato vento, che sulle folle sarà tempesta ieri, oggi e domani; e fino a quando gli idoli della piazza non saranno abbattuti dalla fame di dimostrazioni, dall'attenzione critica e da una saggia ironia. Allora non sarà, nell'agorá, folla di orecchie bensì dialogare di uomini pensanti. All'arte di persuadere subentrerà il gusto della chiarezza, e l'eloquenza non sarà l'arte di carezzare i pregiudizi, di solleticare le presunzioni, di aizzare le passioni, bensì chiarificazione purificante e formatrice. Non più statua animata e risonante simboleggiante la folla, bensì pilota della ragione nella tempesta delle passioni, bensì maestro che spiega e abitua a pensare. Non più ricerca dell'applauso mediante galoppo finale, bensì la sintesi riassuntiva delle particolari dimostrazioni.
Il tribuno morirà, come morirà il prete. E nell'oratore l'artista e il pensatore si fonderanno. Allora un bel discorso non sarà che una bella prosa che fu parlata ma che, letta, conserva il calore, la vigoria vibrante e al tempo stesso offre ricchezza di pensiero: come è dei discorsi di Jean Jaurès, uno dei pochi oratori in cui il tribuno non soverchia il pensatore.
L'eloquenza è duratura, la facondia è effimera. Demostene, Cicerone, Savonarola, Bernardino da Siena, Bossuet, Mirabeau, Lacordaire, Castelar, Jaurès, Gori, Galleani, Faure reggono alla lettura, ma non Gambetta, non Mussolini, non Hitler. Il pensiero è il sale della retorica. Spenta la voce, paralizzato il gesto, il tribuno è proprio morto, come è morto l'uccello canoro che pure imperlava il bosco e rigava d'oro il cielo. Ma il vero oratore sopravvive, chè egli è eloquente nello stile e non soltanto nella voce e nella mimica, che egli è oratore anche quando scrive, come fu del Lamennais. Eloquente fu il Mazzini, che non era oratore. Eloquente fu il Carducci e lo fu Rapisardi. Mentre facondo, sia pure in sontuosa forma, rimane il D'Annunzio come scrittore ed oratore politico.
La storia politica d'Italia è storia piena di tribuni facondi. Dai Gracchi a Cicerone, da Cola da Rienzo a Masaniello, da Imbriani a Mussolini, l'Italia è stata giocata dalla facondia tribunizia. L'Italia è stata, e sarà ancora per molto tempo un teatro, in cui il tenore preferito è passato dalla scena al palco reale, quando non è stato linciato per qualche stecca per essere, poi, portato in trionfo, vivo o morto. Il dialogo con la folla non l'ha inventato Mussolini e nemmeno Giulietti, e nemmeno D'Annunzio. È roba da foro romano. Male antico, il nostro. Del quale bisogna guarire. Fino a quando padroni della piazza saranno i tribuni, il duce sarà immanente nella storia d'Italia.
Bisogna abbattere il regime fascista, ma bisogna sanare l'Italia della mistica fascista, che non è che una manifestazione patogena della sifilide politica degli Italiani: il facilonismo retorico.
(Da L'Adunata dei refrattari del 28 marzo 1936)