Camillo Berneri
Mussolini grande attore
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FASCISMO AUTORITRATTO DI UNA NAZIONE

IL GRANDE COSTRUTTORE

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IL GRANDE COSTRUTTORE

Il despota è un «grande costruttore». Policrate, il tiranno di Samos, ordinò grandi opere pubbliche. Il piccolo e feroce Erode fu il più grande costruttore d'Israele dopo Salomone. Nerone concepì mostruosi disegni di opere pubbliche ed iniziò il taglio dell'istmo di Corinto. I nomi di molti tiranni greci, di molti imperatori romani, di tutti i faraoni sono uniti ad acquedotti, a ponti, a templi giganteschi, a dighe, ecc. Aristotele (Della Repubblica, libro 5, Cap. 11) notava che nei governi dispotici si fa lavorare il popolo a delle opere pubbliche per meglio dominarlo. A questa necessità politico-economica si aggiunge, talvolta, la demagogia edilizia, della quale è tipico esempio la costruzione delle Halles di Parigi, che Napoleone, che le aveva ordinate, chiamava: «il Louvre del Popolo». Ma la mostruosità edilizia della tirannide ha una sorgente più profonda: quella del bisogno di simbolizzare in colossi di pietra il proprio potere. La fede cristiana crea la chiesa di Sant'Ambrogio in Milano, il potere pontificio crea la basilica di San Pietro in Roma. Il Comune si afferma nel palazzo dei Consoli in Gubbio e la Giustizia borghese rivaleggia con il culto cattolico nel palazzo di giustizia di Bruxelles. A Mosca è in costruzione un babilonico palazzo dei Soviets. Il potere, laico od ecclesiastico, individuale o collettivo, ama manifestarsi in gigantesche costruzioni. Vi è una protestation edilizia, che meriterebbe di essere profondamente studiata.

I Faraoni, sovrani magnifici, divinità temporali, papi-re per eccellenza erano, quasi tutti, uomini meschini. Il più grande, il più egiziano tra essi, Ramsete II, nei suoi sessantasette anni di regno non fece che costruire. Gli dobbiamo la metà dei templi e dei monumenti dell'Egitto. A lui si devono, tra l'altro, le gigantesche costruzioni di Luksor, di Karnak, di Rammessèum, di Abon-Limbel, di Abidos, i colossi di Memphi. Questo omuncolo era pervaso da una ipertrofica vanità, da una puerile e morbosa passione per i colossi di pietra. Avrebbe sventrate tutte le montagne del mondo per costruire dei giganteschi monumenti del suo potere, per incidere il proprio nome in caratteri eterni, per opporre all'ossessione della morte il pensiero dell'immortalità storica.

L'architettura egiziana è tutta a linee diritte, non perché ignorasse la volta, ma perché la sdegnò. La curva è il seno materno, la linea diritta è la spada del soldato, il bastone del guardiaciurme, lo scettro del sovrano, l'indice del sacerdote. L'ideale archittettonico degli Egiziani è un ideale teocratico. La grandiosità massiccia è il simbolo della forza più formidabile, del potere il più assoluto, della tirannide la più spietata. Il tempio è l'antro di Dio e la fortezza della casta sacerdotale, l'obelisco lo scettro del Faraone, la piramide il sepolcro dei potenti che sopravvivono nella dinastia. Bisogna essere bambini per ammirare i mostri dell'architettura egiziana, bisogna essere perversi per amarli. Napoleone, ossessionato dalla propria volontà di potenza, non poteva non amare l'architettura faraonica. A Sant'Elena, rimpiangeva di non aver costruito, in Parigi, un Tempio egiziano. L'architettura fascista è cubista-egiziana. Non potrebbe essere altrimenti. Mussolini costruisce lo stadio imperiale di Bologna e vi figura in statua equestre. L'architettura tirannica costruisce piedestalli al potere. La legge che domina lo stile politico delle dittature è la stessa che domina lo stile architettonico delle tirannidi. Un Cuvier dell'archeologia potrebbe dire: datemi un frammento di un tempio, o di un arco trionfale, e vi dirò in quale regime politico-sociale quel tempio, o quell'arco, fu costruito. Un Freud dell'archeologia aggiungerebbe: E io vi darò la fisionomia morale del tiranno.

(Da L'Adunata dei refrattari del 4 maggio 1935)

1 Non abbiamo potuto controllare sulla rivista citata dall'autore questa affermazione della famosa artista francese. Recentemente Il Corriere della Sera (n. del 14 giugno 1965) nel ricordare il novantesimo compleanno della Sorel, riferiva che un giorno essa disse a Mussolini: «Voi ed io siamo dei grandi attori».

2 L'a. si riferisce probabilmente al discorso tenuto da Mussolini al XIII congresso del partito socialista, svoltosi nel luglio 1912 a Reggio Emilia, dove Berneri aveva iniziato, quindicenne, la propria attività politica nelle file della gioventù socialista (cfr. Camillo Berneri alla scuola di Prampolini, in appendice al presente volume).

3 L'intervista di Mussolini apparve nel corpo della corrispondenza di Armando Borghi da Forlì dal titolo La macchia gialla si allarga in Romagna – La scissione proletaria a Forlì – La responsabilità del partito repubblicano – Dal nostro inviato speciale, pubblicata su L'Agitatore di Bologna del 9 ottobre 1910. Riportiamo qui di seguito il testo completo dell'intervista, che costituisce l'ultima parte della corrispondenza, dato che risulta ignorata da tutti i biografi e dagli editori dell'Opera omnia di Mussolini:

«La ...provvidenza non abbandona alcun mortale: è proprio vero. E il compagno Zanchini fu soccorso a questo punto da una voce che lo salutava da lontano.

Era Benito Mussolini, il direttore della Lotta di classe, a cui egli imprime tutta la sua vivacità del suo spirito polemico e l'arditezza delle sue vedute quasi sindacaliste... quasi quasi antiparlamentari, fino al punto di polemizzare col Gaudenzi con queste parole:

«Con quale faccia tosta ci venite a cantare che non dovete rimproverarvi nessuna transazione colla vostra coscienza, nessuna debolezza di carattere voi repubblicano che avete giurato fede al re?

Non avete ripiegato un lembo o tutta la vostra bandiera giurando per andare al parlamento, fede e lealtà ai Savoia, contro ai quali vorreste combattere?»

Sarebbe dunque questo il dilemma: in Italia, o monarchici o antiparlamentari!

Ma torniamo a bomba.

Qualche tua impressionedomandai al Mussolini, che capì subito di che si trattava.

Egli mi squadrò con una di quelle sue levate di palpebre che scoprono tutto il bianco dell'occhio, come a voler abbracciare una fuggente visione lontana, e che danno al suo sguardo e alla sua fisionomia un'aria pensosa di apostolo...

È la fotografia del Ravennate, caro Borghi – mi disse – con questo di peggio: che qui vi è maggior pericolo che alla ragione si sostituisca il coltello. Qui c'è meno preparazione alle contese civili e vi è un partito repubblicano dalle tradizioni più salde, almeno nel bigottismo dei suoi seguaci.

Cosa intendete di fare voi?

Abbiamo fatto tutto il possibile per evitare la scissione, ma avvenuta per opera degli avversari la rottura, siamo disposti a lottare senza pietismi e senza restrizioni.

Come sono divise le forze?

Abbiamo 700 coloni noi e circa 2.000 i gialli, che li moltiplicano per cinque sull'iscrizione, secondo il metodo già adottato a Ravenna; di braccianti ne abbiamo 2500 noi e circa un migliaio e mezzo gli altri. Le nostre forze in maggioranza sono nell'alto forlivese, quelle gialle dalla parte che confina col ravennate.

C'è... il Graziadeismo da voi?

No! da noi il socialismo è un po' più sublimato che altrove, e io faccio il possibile perchè l'alta pressione della mentalità rivoluzionaria si mantenga. Siamo poco parlamentaristi, noi: non è molto che abbiamo rifiutato una conferenza sul suffragio universale...

Lo vedo bene; ma poco parlamentarista è come dire poco sifilitico, caro amico; il resto verrà da , se non interviene il 606.. dell'anarchismo.

La conversazione finì. E io lessi negli occhi grandi di Mussolini una grande virtù di dubbio...».

Circa le circostanze in cui avvenne l'intervista cfr. A. Borghi, Mezzo secolo di anarchia 1898-1945 (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1956, p.111-112).

4 L'intervistatore è Silvestro Sando, un giovane giornalista fascista, suicidatosi pochi giorni dopo l'intervista; pubblicata appunto sotto il titolo L'ultima intervista di Sando. Le poetesse: Ada Negri.

5 Sembra che Mussolini fosse un buon conoscitore degli scritti di Le Bon. In una intervista concessa ai primi del giugno 1926 a La science et la vie di Parigi dichiarava: «Ho letto tutta l'opera di Gustavo Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua Psicologia delle folle. È un'opera capitale, alla quale ancor oggi spesso ritorno».

6 Dal discorso pronunciato a Milano il 4 ottobre 1922 (Il Popolo d'Italia dal 5 al 6 ottobre 1922).

7 Sul n. del Popolo d'Italia indicato dall'autore non abbiamo trovato il passo qui citato. Probabilmente si tratta di un errore di data che comunque non abbiamo potuto rettificare.

8 Riportiamo il testo del discorso da Atti parlamentariCamera dei Deputati. Discussioni. Tornata del 12 giugno 1924, notando tuttavia che dal resoconto ufficiale manca l'ultima frase che abbiamo ripresa dal testo pubblicato in Matteotti (ed altri), Parla l'opposizione. Milano, Umana, 1924, pag. 43.

9 Così il 3 gennaio 1925 colui che aveva ordinato le aggressioni contro Amendola e contro i fascisti dissidenti Misuri e Forni, disse alla Camera: «Ma potete proprio pensare che nel giorno successivo a quello del Santo Natale... io potessi ordinare una aggressione alle 10 del mattino in via Francesco Crispi, a Roma, dopo il mio discorso di Monterotondo, che è stato il discorso più pacificatore che io abbia pronunciato in due anni di Governo? (Approvazioni) Risparmiatemi di pensarmi così cretino. (Vivissimi applausi) E avrei ordito con la stessa intelligenza le aggressioni minori di Misuri e di Forni?» (Atti parlamentari. Camera dei Deputati. Discussioni. Tornata del 3 gennaio 1925). [Nota dell'autore].

10 La testimonianza è resa dello stesso Rossi in alcuni appunti inediti utilizzati da G. Salvemini per il volume The Fascist Dictatorship in Italy (London, Jonathan Cape, 1928): opera che il Berneri consultò per il suo lavoro. Gli autografi di questi appunti non si sono più ritrovati (cfr. G. Salvemini, Scritti sul fascismo. Vol. I. A cura di Roberto Vivarelli. Milano, Feltrinelli, 1961, p. 205).

11 Nota di Alfredo Felici Tutto l'Aventino annientato nella rubrica Cronache del mesePolitica interna, in Gerarchia del gennaio 1926, pag. 63.

12 Secondo la descrizione del Dr. Henyer (Les troubles du caractère de l'enfant in Journal de médecine et chirurgie 10-11 1922) il pensiero del fanciullo paranoico è costantemente diretto alla possibilità di avere una superiorità sul suo ambiente. Egli è capace di uno sforzo immenso per familiarizzarsi con una materia che gli è intellettualmente del tutto superiore, solo per «stupire» coloro che lo circondano. Egli acquista una eccezionale conoscenza di una branca del sapere e resta ignorante in tutti gli altri campi. [Nota dell'autore].

13 Da ras: appellativo con cui venivano definiti i vari gerarchi fascisti in provincia.

 


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