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(Raccontata dalla Luisa vedova Ginanni)
A Perugia c’era una volta un giovanotto che si chiamava Paolino, e siccome in un altro paese discosto ci facevano una gran fiera, lui pigliò con seco una quarantina di munete con l’idea di spenderle nella compera d’una cavalla.
Arrivo che fu in sulla piazza della fiera, in quel mentre che lui girava per vedere quala cavalla poteva fargli più comido, saranno state l’undici, gli viensano ’ncontro du’ bellissime ragazze, e insenza tanti discorsi l’abbracciano, lo baciano con un’allegria smensa e cominciano a dire:
– Oh! finalmente ti s’è visto, cugino! ’Gli era tanto tempo che ti s’aspettava. ’Gnamo, ’gnamo, ti si conduce a casa dalla zia, che sarà contenta di darti un bon albergo in fin che stara’ ’n questo paese. ’Gnamo, la cavalla la compererai domani. Noi tra poco si desina.
Dice Paolino ingrullito da quell’accoglienze:
– Ma io qui nun so d’avercene né di zie, né di cugine. Vo’ sbagliate, le mi’ belle ragazze.
– Che, che! nun si sbaglia, – bocian loro: – vientene a casa, e vederai che anco la mamma e’ ti farà capace. Nun dubitare, ti si tratterà da vero parente.
E ’ntanto lo presano una di qua e una di là per le braccia, e lo tracinorno con seco:
– Mamma, mamma! scendete giù, è vienuto il nostro cugino Paolino da Perugia, e sta con noi tutto ’l tempo della fiera.
Anco la vecchia Paolino l’accoglié con grandi feste:
– Caro nipote, vo’ ate fatto bene a vienir da noi. Si farà lo ’mpossibile, perché nun vi manchi nulla.
– Ma com’è che ’usino a qui nimo m’ha detto nulla ch’i’ avevo una zia e [368] delle cugine in questo paese?
Quelle donne però lo ’mbrogliorno tanto con le chiacchiere, che lui finalmente pensò: “Alle brutte i’ starò bene a albergo con queste da’ belle fanciulle, che si scapano a voler essere mi’ cugine. Che male ci pol egli essere se le sono davvero?”
Insomma a mezzogiorno feciano un buon desinare e del vino a Paolino gliene diedano a volontà, sicché ’gli era un po’ allegro e si pigliava delle confidenzie con le su’ cugine; ma loro ridevano e lo lassavan fare: doppo sortì e ’n piazza vedde una cavalla di su’ genio, la fissò per il prezzo di quaranta monete con patto di pagarla quando andava via, e ’ntanto riviense a casa delle cugine, che già era buio e loro ammannivano la cena.
A cena il chiasso nun mancò, e Paolino ’nsenz’accorgersene mangiava com’un porco della robba morvida con dimolt’unto e trincava vin bono a bicchieri pieni; all’ora del dormire le ragazze menorno Paolino mezzo brillo dientro la su’ cambera, ma gl’insegnorno dov’era il licit, ’n fondo a un àndito, caso mai n’avess’uto bisogno.
Dice lui:
– Io di notte nun mi levo mai: dormo.
Ma doppo dormito qualche ora si riscoté con un gran dolo di corpo, e ’n camicia al buio nuscì di cambera per cercare il licit e camminando a tastoni. A male brighe che fu nentrato, c’era la bodola spalancata, e giù! capitombolò nel mezzo al bottino ’n fondo dell’orto quanto lui era lungo.
Paolino rivienuto a galla principia a urlare:
– Cugine, zia, aitatemi, son casco in nel bottino. Corrite o affogo.
Scambio però di aitarlo quelle tre donne si mettiedano a sbergolare alle finestre:
– A’ ladri, a’ ladri, gente, c’è i ladri giù nell’orto.
A quel bocìo da ugni parte viensan, chi co’ forconi, chi con gli stioppi, e bucarono insin nell’orto per pigliargli e’ ladri, sicché Paolino tutto ’mpaurito ’gli ebbe di catti di nescire con gran fatica dal bottino, saltare il muro e fuggir via a gambe attraverso la campagna per nun essere bastonato o morto.
Doppo un bel pezzo di strada Paolino tutto strafelato e molle di quella robba del bottino si niscondette in una siepe, e ripensava a quel che gli era successo; oltre ’l freddo che gli faceva sbattere i denti per essere soltanto ’n camicia, lui aveva perso co’ vestiti anco le quaranta munete lassate dientro le tasche de’ calzoni, e come rimediarla nun gli rinusciva trovare ’l verso. Se [369] lui andeva a quel mo’ nel paese, ristiava che lo pigliassino per un briccone e lo facessan arrestare.
In quel mentre però che lui se ne steva lì con que’ pensieri, sente a un tratto uno scarpiccìo e vede un branchetto d’omini che gli s’accostorno e gli dissano:
– Che ci fa’ te qui?
Paolino gliela raccontò la su’ disgrazia e quelli si messan’a ridere:
– Poero grullo! Tu nun sie ’l primo. In quel paese ’gli usa accosì per portar via i quattrini a’ forastieri allocchi. Ma no’ ti si propone di vienir con noi, che c’è più da guadagnare di quel che te ha’ perso. No’ siemo ladri e si va nel Campo Santo, addove gli han seppellito il Vescovo con la mitera e il bordone gremo di pietre preziose, e con un anello di diamanti ’n dito. ’Gnamo, te ci aiterai nella ’mpresa.
– Ma come volete ch’i’ vienga con voi accosì sudicio e molle, e per di più ’n camicia.
E i ladri:
– Che ti sgomenti? Qualche vestito ti si dà noi, e al primo pozzo che si trova no’ ti si laverà per bene. Su, arrìzzati e sbrighiamoci.
Gli conviense ubbidire a Paolino; e poi vols’anco provare quel che gli poteva succedere, e al primo pozzo addove c’erano du’ secchioni, i ladri presan Paolino di peso, lo messano in uno e lo calorno giù nell’acqua, e a forza di tuffi gli diedano una risciacquata meglio che col bucato; ma Paolino ’gli aveva una gran paura che i ladri lo lassassino là ’n fondo per levarselo di torno; in ugni mo’ nun lo tradirno, e nuscito che fu dal pozzo, loro lo ricopersano con qualche straccio e tutti assieme se n’andorno al Campo Santo.
La prima operazione fu di tirar su la lapida della sepoltura, e una volta spalancata nimo ci voleva bucare:
– Va’ te.
– Ma io co’ morti nun mi ce la dico.
Insomma gli avevan tutti paura di bucar giù a rubbare il Vescovo, sicché da ultimo obbligorno Paolino a calarsi dientro la sepoltura, se lui nun voleva buscarne e anche essere ammazzato; i ladri gli aspettavano di fora quel che Paolino gli porgeva via via.
Dice:
Poi:
Ma l’anello se lo niscose ’n bocca, e po’ disse:
– Come nun lo trovi? Eppure l’ha da avere ’n dito.
E Paolino:
Lo credo! Lo tieneva lui ’n bocca.
– Sì, c’è.
– No, nun c’è; – che finalmente i ladri dissano:
– Dunque, se non [370] c’è, e te rimani costì a cercarlo, – e riserrorno la lapida, lassando quel disgraziato di Paolino assieme al morto.
Paolino ’n quella sepoltura si diede a disperarsi, perché ’gli era ’mpossibile che da sé solo lui potessi aprire la buca; e badava a abbracciare il Vescovo e ugnolava:
– Oh! poer’a me! Ora mi toccherà a morir qui di fame. Oh! l’ho uta la fiera e la cavalla!
Ma ’n quel mentre gli parse di sentire delle voci e uno scarpiccìo di sopra alla lapida, sicché zitto e acquattato ’gli aspettava di vedere chi fussano, e s’accorgé che facevano di tutto per ispalancare la sepoltura.
Spalancata che fu, sente uno che dice:
– Scendi te.
E un altro arrispondeva:
– Io noe, de’ morti i’ n’ho paura.
Insomma, gli erano degli altri ladri vienuti per rubbare le ricchezze del Vescovo morto.
Doppo un po’ di contrasto finalmente un de’ ladri calò giù le gambe per rientrare, ma Paolino che steva attento fu lesto a abbrancargliele e a bociare:
– Oh! birbone!
Gua’! Quello credé che fusse ’l Vescovo, ritirò via le gambe con uno strattone, e poi urlando tutti per la gran paura scapporno, che pareva gli avessino il diascolo alle rene.
Allora Paolino nescì fora della sepoltura, che già era giorno quasimente, da un orefice vendiede l’anello di diamanti, e gli toccò tanti quattrini da pagar la cavalla e da avanzargliene un bel sacchetto, sicché lui arritornò a Perugia più ricco di quando partì per vienirsene alla fiera.