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(Raccontata dalla Luisa vedova Ginanni)
In una casetta vicino a un bosco ci abitava un omo attempato, che aveva moglie e tre figliole grandi da marito, e per quanto si sa, queste tre ragazze si chiamavano per nome Assunta, Tieresina e Caterina l’ultima; l’omo campellava alla meglio, e ugni volta che gli abbisognava di fare del foco andeva a provvedersi di legna secche nel bosco.
Un giorno dunque che lui col su’ corbello raunava de’ ceppi, deccoti gli vien sopra all’improvviso il padrone, che era un cosaccio com’un Mago e ’nsenza garbo né grazia, e co’ una vociaccia terribile gli sbergola:
– Oh! birbone, te mi sperperi il mio: te mi sciupini tutto il salvatico. I’ sare’ capace d’ammazzarti.
– Ma, signore, i’ ci son sempre vienuto giù di qui e de’ malestri nun ce n’ho ma’ fatti. I’ piglio du’ legna secche per riscaldare la mi’ moglie e le mi’ tre figliole che hanno freddo.
– Ah! te ha’ tre figliole? – scrama quel mastangone: – E le saranno belle, mi ficuro.
– Bene! – arrisponde il cosaccio. – I’ ti perdonerò, e anzi ti lasso libbero di tagliare in nel mi’ bosco, ma con patto che te mi dia una delle tu’ figliole per mi’ moglie. I’ son brutto, lo so da mene: da mangiare tavìa e da starsene da signore in casa mia nun me ne manca. Dunque per la tu’ figliola, se ha del mitidio, a vienire con meco sarà una sorte macicana.
– Se loro nun s’appongano, i’ nun ci arei accezione. ’Gnamo a casa, si sentirà.
Sicché dunque vanno assieme alla casetta dell’omo, che racconta quel che gli è successo e spone la domanda del su’ compagno.
[407] Dapprima le ragazze si trovorno ’mbrogliate nella risposta; gli pareva troppo mostro e sgarbato uno sposo simile: ma a’ tempi di carestia e’ ci s’accontenta anco del pan di segala, e sentuto che sarebban ite a star bene, doppo essersi consigliate ’n segreto tra di loro, la maggiore, che era l’Assunta, delibberò d’acconsentire, e ’nsomma, dientro la settimana diviense moglie di Tognarone. E’ si chiamava accosì quell’omaccio.
A male brighe che l’Assunta si trovò ’n casa di Tognarone, lui gli diede assoluta padronanza, con che s’accupassi di tutte le faccende, gli ammannisse da desinare, e tienessi ugni cosa in ordine.
Dice:
– I’ ho per costume di star fora alle volte ’nsino a otto giorni per i mi’ ’nteressi. Dunque te abbada al quartieri e serviti di quel che ti garba; te sie’ la padrona. Ma però c’è’ un comando, e che te m’ubbidisca. In nella dispensa c’è una Manetta di morto, e i’ voglio che te la mangi.
– Oh! porco, – scrama l’Assunta, – mangiatevela per voi codesta pietanza: a me nun mi nentra ’n bocca.
– Eh! se quando i’ torno te nun l’ha’ mangiata la Manetta di morto, le sono legnate da comunione e po’ ti serro per sempre dientro una stanza. A bon intenditor poche parole.
E va via. L’Assunta, rimasta sola, era sgomenta; nun sapeva come rimediarla. Lei di trangugiarsi la Manetta di morto nun se la sentiva, e in ugni mo’ la paura delle legnate e della prigione la tieneva in gran pensieri. Che fa? Piglia la Manetta, la stritola ben bene nel mortaio e poi la seppellisce in un canto dell’orto, e quando Tognarone riviense a casa gli diede a intendere che se l’era cotta per desinare.
– Ma ’gli è propio vero? Te nun le di’ le bugie?
– No di certo, – arrispose l’Assunta: – che l’ate più trova la Manetta di morto, dientro la dispensa? È segno ch’i’ v’ho ubbidito e l’ho mangiata.
– Or ora si vederà; – e si mette a girare dappertutto, e ’n quel mentre chiamava:
– Manetta, mi’ Manetta, addove sie’ tu? Manetta, mi’ Manetta, addove sie’ tu?
E quando ’gli arrivò giù nell’orto sente una voce di sotto terra:
’Gli era la Manetta tutta d’un pezzo siccome avanti.
Tognarone nun fece tanti dicorsi; agguanta un randello e ’nsenza misericordia la picchiò a refe nero l’Assunta, e poi mezzo ammazzata la prendette pe’ [408] capelli e strasciconi la portò in una stanzaccia buia e ce la chiuse a catenaccio.
Il giorno doppo, quasimente nun gli fusse successo nulla, Tognarone va dalle sorelle dell’Assunta.
Appena quelle lo veddano:
– Come sta l’Assunta?
– Bene bene! Lei gradirebbe la compagnia della mezzana per aitarla un po’ e nun restar sola quand’i’ vo fora. Che volete vienire, Tieresina?
– Perché no? – arrispose la Tieresina, e ammannito un fagotto di panni se n’andiede con Tognarone.
Domanda la Tieresina arriva che fu a casa:
Tognarone fa una mutria da assassini e a denti serrati dice:
– L’Assunta i’ l’ho gastigata per aermi disubbidito, e te nun essere ardita a ricercarne. I’ t’ho preso ’n scambio di lei e che te abbi giudizio, se ti garba la vita iscerta. Qui nun ci manca nulla, e chi sta sottoposto pole stare sicuro che i’ nun gli do noia.
La Tieresina rimanette male a questo brutto discorso di Tognarone, ma oramai nun c’era da ritornare addietro e bisognò che ci stridessi; sicché non ripricò e si mettiede a fare le su’ faccende.
Doppo diversi giorni dice Tognarone:
– I’ ho per costume di star fora alle volte ’nsino a una settimana. Dunque te sie’ padrona spotica e abbadami al quartieri. Ma però c’è un comando, e che te ubbidisca. Dientro alla dispensa e’ c’è una Manetta di morto e i’ ’ntendo che te la mangi.
– Oh! porco lezzone, ’gnorante sconsagrato, birbone venduto! M’ate condutto qui per una simile ’nfamità? Io per mene nun la mangio davvero codesta pietanza.
– E se te nun la mangi, – disse Tognarone, – te finirai come quell’altra. Legnate a morte, e po’ butta per sempre in una stanza. Dunque pensa a’ casi tua, e alla rivista.
E se n’andiede.
La Tieresina, poera figliola, nun sapeva che versi si pigliare ’n tra lo schifo d’aversi a mettere dientro lo stombaco la Manetta di morto e la paura di buscarne ’nsenza misericordia. Pensa e ripensa, finalmente la spezzettò sul taglieri la Manetta, e doppo la seppellì sotto l’acquaio di cucina, e quando riviense Tognarone gli diede a intendere a faccia fresca che lei l’aveva ubbidito.
Tognarone però, malizioso, dice:
– Che sia propio vero? Già te le bugie nun le sa’ dire.
– Che! – arrispose la Tieresina: – e poi, che ce l’avete ritrova la Manetta nella [409] dispensa? È segno che me la sono ’ngollata per contentarvi.
– Ora si vederà, – dice Tognarone, e principia a girar per casa barbottando: – Manetta, mi’ Manetta, addove sie’ tu? Manetta, mi’ Manetta, addove sie’ tu? – e a male brighe che lui s’avvicinò all’acquaio, la Manetta subbito e’ bocia:
Gli era lei tutta d’un pezzo come per l’avanti. Guà! e’ finì al solito: con un randello Tognarone la macolò tanto la Tieresina, che lei parse morta distesa per le terre, e allora quel birbone la tracinò pe’ capelli nella medesima stanza addov’era l’Assunta e ci mettiede ’l catenaccio.
Daccapo il giorno doppo Tognarone con un viso ridente si presenta alla casa delle tre sorelle, e quando la Caterina lo vedde di lontano, subbito gli si fece ’ncontro a domandargli le nove dell’Assunta e della Tieresina.
– Eh! le stanno bene: ma ènno dimolto acciaccinate, perché vanno alla festa. Anzi loro gradirebbano la vostra compagnia per aitarle e poi per ispassarsi assieme. Se volete vienire, e’ m’hanno mando a posta per pigliarvi.
La Caterina, che era più furba, dimolto persuasa del discorso di Tognarone la nun fu; ma per nun gli dare sospetto di nulla arrispose:
– A lassare i mi’ vecchi soli mi rincresce; in ugni mo’, se loro nun hanno accezione, i’ son contenta dello ’nvito.
Insomma si trovorno d’accordo, e la Caterina col fagotto de’ su’ panni andette via con Tognarone e nun si fermorno per insino a casa, e quando nentrati, disse la Caterina:
– Le tu’ sorelle c’ènno e nun c’ènno, – arrisponde Tognarone con un grugnaccio malandrino.
– Che vole dire un simile ’ndovinello!
– E’ vole dire che loro si portorno tuttaddua dimolto male, con gran disubbidienza, e ch’i’ l’ho legnate a morte e butte in una stanzaccia a sbasire. E la listessa sorte ti toccherà anco a te, se ti girassi operare di tu’ capriccio.
Alla Caterina gli mancò poco che num gli viensano le convulsioni a quella nova; ma si fece forza per nun si tradire, perché subbito pensò che era più meglio infingersi, e accosì forse avere un bel pan di ricatto; sicché la disse:
– Avete fatto bene, Tognarone, a gastigarle le mi’ sorelle; e vo’ nun vi dubitate, che di me nun poterete lamentarvi. Comandate pure, ch’i’ son pronta a ubbidirvi ’n tutto e per [410] tutto.
– Brava, la mi’ Caterina! – sbergola Tognarone: – accosì mi garbi. Ora te ha’ da sapere, ch’i’ ho per costume di star fora magari otto giorni per i mi’ ’nteressi: te siei padrona spotica, ma soggiornami ’l quartieri, e poi dientro la dispensa c’è una Manetta di morto, e i’ vo’ che te la mangi al tu’ desinare. Dunque addio, e alla rivista.
’Gli era istata ’n sull’undici unce la Caterina di saltargli addosso e sgraffiarlo Tognarone, quando lei sentette quel brutto comando; ma con l’idea di scoprire tutte le su’ birbonate e fargliela pagar cara, non gli arrispose, e a male brighe che lui fu nuscito, lei pigliò la Manetta, la mettiede in una pentola a bollire, e lì foco ’nsenza discrizione giorno e notte, sicché la Manetta, bolli bolli, finì con distruggersi per l’affatto, che nun ce ne rimané nemmanco l’ombra; e po’ la buttò nel logo il fondigliolo; e in nel mumento che Tognarone riviense a casa e’ gli disse d’averlo ubbidito, quel mammalucco bisognò bene che lo credessi, perché gli fu inutile di girellare dappertutto e chiamare, come quell’altre volte: “Manetta, mi’ Manetta, addove sie’ tu?” nun gli arrispose nimo; la Manetta era strutta e svaporita.
– Brava, brava, la mi’ Caterina! – isbergolava Tognarone, che nun s’era avvisto della billèra. – Oh! a tene sì, che ti vo’ bene! Tene sie’ stata propio fedele e una bona ricompensa te la meriti. Decco qui: i’ t’affido la chiave del mi’ armadio segreto, e dientro c’ènno tesori d’ugni sorta, e anco l’unguento per rinsanichire le piaghe e far rinvivire i morti. Tienla custodita e quel che t’abbisogna servitene a tu’ piacimento. Infrattanto i’ ti lasso, perché i’ ho dell’altre faccende da sbrigare. Addio, la mi’ Caterina. Pòrtati sempre accosì, che nun te n’averai a pentirtene. Addio, sai?
A male brighe rimasta sola la Caterina volse scoprire la stanza in dove Tognarone aveva serrato le su’ sorelle maggiori; e cerca e ricerca, finalmente ’n fondo a un àndito buio vedde un uscio con un catenaccio, e accostato l’orecchio sentette dietro degli ugnolìi: “Ohi! ohi!” come di persone che pativano.
Coraggiosa la Caterina tira ’l catenaccio e apre, e lì stese ’n sul solaio trova l’Assunta e la Tieresina tutt’ammaccate e sanguinenti, e che parevano quasimente all’ultimo fiato. Lei subbito le piglia a una per volta e se le porta a birigino ’n [411] cambera sul letto, e poi con quell’unguento dell’armadio di Tognarone le medica, e doppo un po’ le du’ donne soccallano gli occhi e adagino adagino tornano ’n sé e si levano rinsanichite.
Che allegrie in nel ricognoscersi! Nun si pole nemmanco raccontarle. Basta, si dissano tutti e’ successi e finirno col fare una congiura contr’a Tognarone per ritornarsene a casa sua in ugni mo’.
Doppo mangiorno a du’ palmenti, che della fame ficuratevi se loro n’avevano, e la Caterina le niscose ’n segreto, perché Tognarone non le scoprissi, quando arritornava.
– Lassatemi ’l pensieri a me, che forse mi rinusce fargliela in sull’auzzatura a questo birbone venduto. Me l’ha da pagar cara.
Deccoti che arriva doppo diversi giorni Tognarone e la Caterina premuriosa va a riscontrarlo, l’accompagna ’n casa e gli fa mille finezze; Tognarone nun capiva più ’n sé dal gran contento, e ’nsenza accorgersene, dalla tanta fede per la Caterina, lui finì che quasimente lei lo menava per il naso; sicché quando gli parse tempo disse la Caterina:
– Mi’ omo, de’ mi’ vecchi ’gli è un bel pezzo ch’i’ nun ne so più nulla. Poeri mi’ genitori! Loro e’ si lamenteranno di me con bona ragione. E poi con queste carestie è capace per insino a mancargli ’l campamento. Sai, mi’ omo, quel che ho ideato? Ho ideato di mandargli a mi’ genitori un cassone pienato di robba, e te me l’ha’ da portare.
– Da mangiare, de’ vestiti e qualche altro gingillo, – arrispose la Caterina: – ma quando i’ l’ho chiusto, che vo’ nun sia ardito d’aprirlo per istrada. Badate, veh! perch’i’ starò a vedere, e se vo’ disubbidite, i’ vi cavo gli occhi con le mi’ mane.
– Almanco, che te nun lo faccia tanto peso.
La Caterina dunque ammannì ’l cassone, ma ’n scambio di pienarlo con soltanto della robba per regalo e’ ci accomidò sdraiata l’Assunta, e quando l’ebbe serro disse a Tognarone:
– ’Gnamo, pigliatelo e portatelo al su’ destino.
Abbeneché con isforzo Tognarone prendette ’l cassone e se lo mettiede in onca, ’n sulle spalle, via; ma ci si ripiegava sotto. Scrama:
– Arcipreti! e’ pare un masso.
– È che vo’ siete un poltrone e la fatica nun vi garba. Sbrigatevi, e abbadate che nun vi caschi, e arricordatevi di nun aprirlo, se vi [412] preme di stare d’accordo con meco.
Tognarone ponzava: in ugni mo’ sortì dall’uscio e s’arrivolse in verso la casa della Caterina; ma arrivo dietro a un palazzo, siccome ’gli era stracco e tutto molle di sudore, posa il cassone su un muricciolo e poi pensa di guardare quel che la su’ donna ci aveva barbato per farlo tanto peso, e con quest’idea va per aprirlo.
L’Assunta però indettata dalla sorella principia a dire:
– Oh! birbone bugiardo! nun vi vergognate a rinfrucolare e’ fatti degli altri? Vo’ me la pagherete al ritorno.
A quella voce Tognarone rimanette a mezzo punto.
– Poer’a me! – scrama, – ’gli ha la vista lunga la mi’ donna. Che sia monta ’n sul tetto?
E subbito si rimette io onca il cassone e séguita a camminare ’nsino a un ponte; e anco lì si provò, concredendosi al sicuro, a aprire il cassone: ma la solita voce dell’Assunta lo ’mpaurì, sicché lui ’nsospettito d’essere scoperto, piglia ’l cassone e ’nsenza più fermarsi lo porta diviato a’ genitori della Caterina, e lì lo lassa, e detto addio se ne va.
La Caterina isteva a aspettarlo Tognarone co’ una faccia malandrina e le mane ’n su’ fianchi, e siccome se lo ficurava che lui si fusse provato a disaminare il cassone, gli fece un busso, quasimente che lei e’ l’avessi visto co’ su’ propi occhi; lui mogio mogio badava a biasciucolare delle palore per protestare che il cassone e’ nun l’aveva aperto, e la Caterina gli disse:
– Ma la tentazione vi viense, e s’i’ nun bociavo, vo’ disubbidivi al mi’ comando. Per questa volta vadia pure liscia; quest’altra poi vo’ sentirete la gragnola doppo ’l tono.
Accosì passorno otto giorni, che Tognarone si sentiva più sempre spadroneggiato dalla su’ donna, che a fin di settimana gli disse:
– A quest’ora i mia la provvista l’hanno da avere bell’e finita, e i’ ho voglia di mandargliene un altro de’ cassoni, pienato come al solito. Dunque i’ l’ammannisco e vo’ lo porterete, e che nun vi salti in nel capo di guardare quel che c’è dientro.
– Arricordati almanco che nun sia peso da farmi richinare.
La Caterina ’nsenz’abbadargli, ascese in cambera a preparare il cassone e ci mettiede niscosta tra la robba la su’ sorella Tieresina: poi comandò a Tognarone che lo pigliassi per il medesimo viaggio, e lui se lo buttò in onca alla sgarbata e andette via.
Ma per istrada, allacco dalla fatica, si [413] fermò rieto al palazzo, poi addoppato a un pagliaio, poi sotto ’l ponte, anco per la curiosità di sapere quel che ci fusse nel cassone; e la Tieresina ugni volta sbergolava:
– ’Gnorante! che attienete le ’mprumesse a questo mo’? Fate l’obbligo vostro e nun vi ’nteressate delle spizzee degli altri.
Tognarone a quelle voci sbirciava d’intorno concredendo che la Caterina gli stessi alle costole, e po’ diceva tra sé tutto ’nsospettito:
– Cattadeddua! Ma che la mi’ donna ’gli abbia la vista d’un falcaccio? Che sia monta ’n sul comignolo del tetto?
E rialzo ’l cassone, da ultimo viense alla casa della Caterina, lo lassò lì, e detto addio a que’ vecchi, se ne andette diviato; ma torno che lui fu, e’ buscò un altro diascoleto, che propio nun sapeva racchetarla la Caterina ’nviperita, per bone ragioni che gli portassi.
Oramai gli era rinuscito alla Caterina di rimandare le du’ sorelle a’ su’ genitori; ci mancava che pure lei potessi fuggire dalle mane di Tognarone, e nun gli pareva tanto facile. Pensa e ripensa, finalmente almanaccò d’infingersi ammalata:
– Mi dole ’l corpo, mi dole ’l corpo, i’ mi sento male, – cominciò a dire. – Bisogna ch’i’ vadia a letto. Ohi! ohi!
Tognarone sgomento gli arriscaldò le lenzola, gli fece del brodo di cappone, e la Caterina ficurò di stare più meglio e che voleva riposarsi:
– Ma – dice – te ’ntanto preparati a portarmi quest’altro cassone a casa mia, perché son otto giorni, e i’ vo’ che que’ poeri vecchi nun manchino di nulla. Va’ pur fora pe’ tu’ ’nteressi e al ritorno i’ averò ammannito ugni cosa.
Tognarone dunque sortì, e ’n quel mentre la Caterina con de’ cenci e una maschera fabbricò una fantoccia della su’ grandezza e la mettiede dientro al su’ letto, e alla testa gli ci aveva appiccico un filo, sicché, quand’uno apriva l’uscio, quella fantoccia tentennava ’l capo, come se dicessi di sì; poi lei si niscose ben bene con dimolti quattrini, vezzi e pietre preziose in nel cassone, e ci si rinchiudé. Deccoti che arritorna Tognarone, e ’n punta di piedi ascende le scale e apre l’uscio di cambera, che era a finestre soccallate, e domanda:
– Come va, Caterina? Che, dormi?
E siccome lui smoveva la ’mposta, guà! la fantoccia gli accennava di sì.
– Che ho da ire subbito col cassone a casa tua?
E la fantoccia, sì.
Dunque Tognarone stronfiando alza il cassone per buttarselo in onca, e gli parse anco [414] più greve di quegli altri dua, sicché scrama:
– Perziolino! che ci sia una macina?
E quando lui fu per istrada camminava richino e in un bagno di sudore, e tutte le volte che s’imbatteva a un logo per riposarsi, o al palazzo, o al pagliaio o sotto ’l ponte, lì messo ’n terra ’l cassone e’ gli vieniva la tentazione di vedere quel che la Caterina c’avessi riposto dientro; ma la Caterina a quell’atto di repente diceva:
– Oh! birbon venduto! che te nun abbi un simile ardimento. Sbrigati ’n scambio, che nun mi garba di rimanere accosì sola.
E Tognarone ’mpaurito da quelle voci, ’nsenza frammettere ’ndugio, ripigliato ’l carico, finalmente giugnette al su’ destino.
E’ vecchi lo ’nvitorno Tognarone a rinfescarsi e gli porsano una sieda; ma lui nun volse nulla e disse:
– Tante grazie. I’ ho lassa la moglie un po’ ammalata, e i’ devo tornar di corsa, perché la nun stia solingola e nun gli manchi ’l custodimento. Addio, addio e alla rivista; a quando la Caterina ’gli è rinsanichita.
Con la lingua mezza fora e ansimando peggio d’un cane Tognarone arriva a casa sua, e vede la porta sempre spalancata come al mumento che lui era partito; ’n furia salisce la scala a in nel nentrare in cambera domanda tutto premurioso:
La fantoccia smossa dal filo acchinò il capo, e Tognarone e’ s’accosta al letto per abbracciarla; ma poero mammalucco, e’ s’accorgette ’n scambio che quella ficura ’gli era soltanto un mucchio di cenci e no la su’ giovane donna. Ficuratevi, se in nel cognoscersi corbellato ’n quel mo’, nun gli prendette a Tognarone una gran rabbia! Pareva ammattito. ’Nsenza stare a dire, “che c’è?” agguanta un’accetta e via a gambe a casa de’ vecchi per affettargli tutti quanti: ma la fece a sego, perché le ragazze e’ s’erano per bene asserragliate e prepare a quell’assalto. Loro istevano alla finestra co’ una caldaia d’acqua a bollore, e a male brighe viense Tognarone per iscassinare l’usciale, giù, gliela rovesciorno in sul capo, sicché lui cascò morto stecchito a gambe all’eria.
Doppo, andorno con un barroccio addove abitava Tognarone, presano ugni cosa, e accosì le diventorno ricche sfondolate e nun patirno più la miseria; e a su’ tempo nun gli mancò un bel marito a ognuna, perché dov’ènno quattrini e’ giovanotti ci corrano facile in nel mondo.