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NOVELLA VII
(Raccontata dalla ragazza Elena Becherini)
C’era una volta un omo e una donna, che facevano i pastori in montagna, e loro avevano per figliolo un ragazzotto in su i diciassett’anni e nun gli volevano punto bene; sicché per levarselo d’attorno lo mandavano sempre al bosco con un tozzaccio di pan nero in mano a badare alle pecore.
Un giorno un agnello del branco cascò giù in un botro e si sfragellò tutto e morì. Nun c’è da dire quanto i du’ cattivi genitori sgridorno il povero ragazzotto; che anzi, gnene diedano a quel dio, e poi, abbeneché fusse notte buia, lo scacciorno fora di casa, con la promessa d’ammazzarlo, se lui avess’uto la sfacciataggine di ritornarci.
Quello sciaurato, piagnendo, vagolò per un pezzo ne’ dintorni, insenza sapere addov’andare, fino a che rifinito e affamato viense a un sasso vôto, e raggriccito dal freddo lì si poté alla peggio accoccolare, doppo essercisi accomido un po’ di lettuccio con delle foglie secche. Ma dormire nun gli rinuscì, sia dalla paura di trovarsi in quel logo al buio e solo, sia perché anco ripensava a’ casi sua e ignoto del poi.
Nun era dimolto che steva il ragazzotto dientro a quel sasso, quando ci capitò un omo, che gli disse:
– Ohé! tu ha’ preso il mi’ letto, temerario. Che ci fa’ tu costì?
Tutto impaurito il ragazzotto si mettiede a raccontargli le su’ disgrazie e lo supplicò con le mane ’n croce che nun lo scacciassi, ma che lui fusse per quella notte contento di fare a mezzo del ricovero; ché a bruzzolo ’gli anderebbe via indove la sorte lo menava.
L’omo acconsentì di bona voglia; e anzi gli garbava d’aver trovo il vôto del sasso pieno di foglie secche, perché a [55] lui nun gli era vienuto ’n capo quel conforto: il ragazzotto poi si rannicchiò da una parte quanto potiede per non dargli noia a quell’omo, e restò quietò insenza bucicarsi e finse di dormire, stando con del sospetto assai per cagione del compagno.
Infrattanto l’omo, ché lui nemmanco dormiva, badava a borbottare, concredendo che il ragazzotto nun lo sentissi:
– Che poss’io regalare a questo ragazzotto, che m’ha empiuto di foglie secche il mi’ giacitoio, e si tiene accosì da parte per nun darmi ’ncomido, sicché pare che nun ci sia?
Il ragazzotto però sentiva bene il ragionamento, ma figurava d’essere appioppato.
E lui:
– Altro! meglio che nel mi’ letto. Ma è giorno. I’ devo andarmene a giostroni per il mondo, perché i mia a casa nun mi ci voglian più, e s’i’ ci torno il babbo e la mamma gli han promesso d’ammazzarmi. Perdonatemi lo sturbo. Addio.
E il ragazzotto s’avviava piagnendo.
– Aspetta un po’, ragazzo. Stanotte i’ son resto contento di te, e però ti voglio regalare certe cose, che forse ti potrann’anco essere di dimolto vantaggio nel mondo. Ecco, bada qui. Questo ’gli è un tovagliolino di filo; ugni volta che tu lo spieghi, se tu gli ordini da desinare, ce ne sarà in abbondanza per quanti vo’ siete a tavola. Questa ’gli è una scatolina; ugni volta che tu l’apri, dientro ci sarà una muneta d’oro. Questo ’gli è un organino; ugni volta che tu ti metti a sonarlo, e’ balleranno a tu’ piacimento tutti quelli che lo sentano. Ora va’ pur via e non ti dismenticar di me.
Il ragazzotto, un po’ dubitoso della verità, prese que’ regali e poi se n’andiede con Dio.
Cammina cammina il ragazzotto viense a una città piena di popolo, addove si preparavano grandi feste e giostre: il Re del paese aveva bandito, che qualunque fusse tanto ricco da mettere in deposito una grossa somma di quattrini, lui e’ l’arebbe lassato giocare la su’ propria figliola, con promessa di dargliela per su’ moglie, assieme al tesoro ammucchiato, se rinunsciva il vincitore.
A questa nova disse tra di sé il ragazzotto:
– Deccolo il mumento di far la prova della scatolina. Mi vo’ anch’io mettere ’nnanzi in fila con gli altri, se la scatolina mi dà i quattrini al bisogno.
Detto fatto, principia a aprirla e serrarla, [56] e ugni volta c’era dientro una bella muneta d’oro lampante; sicché in poco tempo lui ebbe in possesso una bella somma, si comperò de’ cavalli, dell’armi luccichenti, pigliò de’ servitori e si vestì con lusso da principe; e poi andato dal Re gli diede in deposito un buggianchìo di quattrini, e si fece credere il figliolo del Re di Portogallo, e però volse che l’accettassino per giocatore della ragazza reale. Insomma la fortuna l’assistette, e guadagnato in tutti i giochi, il Re fu ubbligato a dichiararlo lo sposo della Principessa.
Ma pur troppo, il ragazzotto ’gli era stato allevo soltanto tramezzo alle pecore, e commetteva delle malcreanze, e il Re lo prese ’n sospetto del su’ parentato. Dunque, con gran segretezza il Re spedì delle persone fide e dimolto furbe per i paesi vicini a cercare delle notizie su questo ragazzotto; se lui fuss’o no figliolo del Re di Portogallo. Guà, a forza di domande quelle spie scopersano tutta la verità, e il Re, stizzito a bono per il tradimento, comandò che subbito il ragazzotto si serrass’in una prigione fonda, che rimaneva appunto sotto la sala de’ conviti nel palazzo reale.
Il ragazzotto si trovò d’un tratto in nella prigione, quando invece pensava di diventare genero del Re; e dientro a quel brutto logo c’erano anco altri diciannove carcerati, che in nel vederlo entrare gli diedano il “benvenuto” con grand’allegria; e lui a raccontargli il caso suo, e chi lo sbeffeggiava e chi n’aveva compassione. Si sa, la gente nun è tutta a un mo’.
Doppo un po’ deccoti il carcerieri col mangiare; pan nero, e, a mandarlo giù per la gola, de’ secchi d’acqua stietta. Disse allora il ragazzotto, una volta che il carcerieri se ne fu andato col chiuder la porta a catenaccio:
– Gnamo, buttate via codesta robba, ché ce l’ho io un bel desinare per tutti.
– Oh! che buffone! tu pari matto. Come vo’ tu fare a darci tavola imbandita?
Arrispose, insenza sgomentarsi, il ragazzotto:
– State a vedere: – e spiegacciato il tovagliolino di filo comandò forte: – Su, tovagliolo; apparecchia per venti.
Detto fatto, apparse un bel desinare per venti, ché nun ci mancava proprio nulla; neppure del meglio vino: i carcerati a quella vista scaraventorno via il pan nero e l’acqua e papporno [57] a crepapelle. Il carcerieri infrattanto ugni giorno trovava il pan nero e l’acqua per le terre, e nun sapeva che lunari almanaccarsi, perché nunistante que’ carcerati erano vegeti e vispoli sempre più; fece dunque pensieri di raccontare questa maraviglia al Re.
Il Re, in nel sentire il racconto, s’incuriosì e si volse da sé sincerare co’ su’ occhi della cosa e mettere a esame i carcerati, e però scese giù in nella prigione. Dice:
– Com’è che vo’ sbeffate il solito desinare e in ugni mo’ campate bene tavìa? I’ lo vo’ cognoscere questo miracolo, e se delle bugìe nun me le infilzate, vi ’mprumetto, parola di Re, di perdonarvi.
Viense innanzi a quel discorso il ragazzotto in persona, e nun gli niscose nulla:
– Sappia, Maestà, ch’i’ son io che do a tutti i mi’ compagni da mangiare e da bere, anco meglio che alla tavola reale. Anzi, se lei vole accettare, io lo ’nvito alla mi’ mensa oggi medesimo, e lei dicerto resterà dimolto contento.
– I’ vo’ vedere quel che tu sa’ fare e come tu mi tratti.
Subbito il ragazzotto spiegacciò il tovagliolino di filo, e poi comandò forte:
– Su, tovagliolo, apparecchia per ventuno e da Re.
Il tovagliolino ubbidì con gran stupore del Re, che desinò meglio che alla su’ propia tavola.
Finito che ebban di mangiare, disse il Re al ragazzotto:
– Me lo venderesti tu il tovagliolino?...
– Perché no, Maestà? – gli arrispose: – ma con de’ patti. Che lei mi lassi dormire una notte assieme alla su’ figliola, mi’ legittima fidanzata.
A questa domanda il Re ci pensò un po’ su; ma poi disse:
– L’accordo, ma che tu stia in sulle sponde del letto, a finestre aperte e con delle guardie in cammera: otto ce n’hanno da essere, e di più un lampione sempre acceso. Se ti garba accosì, bene, e insennonnò, sciolti.
– Vadia pure a su’ mo’, Maestà, – arrispose il ragazzotto, – e doppo il tovagliolino è nel su’ possesso.
E difatto il ragazzotto dormì tutt’una notte colla Principessa: ma nun ci fu versi che si potessi movere e toccarla, e quando viense giorno il Re diede ordine di rimetterlo in prigione.
In nel vedere rientrare il ragazzotto in prigione i carcerati cominciorno a canzonarlo e bociavano:
– Che babbaleo! Badalo lì il mammalucco! Ora sì che bisognerà che si mangi [58] pan nero e si beva acqua del pozzo. Ma che bel patto grasso facessi tu con il Re!
Dice il ragazzotto insenza scomporsi a quell’urlìo:
– Oh! che nun si mangia e beve anco co’ quattrini?
E i carcerati:
– Eh! sì; ma i quattrini per iscialare addove gli ha’ tu?
Arreprica il ragazzotto:
– Meno chiasso e lassatevi servire da me, e vo’ vedrete.
Subbito lui tira fori di tasca la scatolina e si mette a aprirla e serrarla, sicché in un mumento raccapezzò un monte di munete d’oro; e con le munete tutti i santi giorni diede desinari da principe a’ carcerati, e stiedano come pasque. Il carcerieri, ’gli è naturale, mezzo ingrullito dallo stupore in nel vedere che il pan nero e l’acqua stietta la buttavano per la prigione, corse daccapo dal Re a raccontargli ugni cosa; e il Re scese giù al solito per sincerarsi co’ su’ propri occhi, e quando seppe della scatolina fatata, disse al ragazzotto:
– Vo’ tu vendermela codesta scatolina?
– Perché no, Maestà? Magari! – gli arrispose il ragazzotto: – ma col medesimo patto di prima.
E il Re:
– E io pure te l’accordo come prima.
Insomma, anco questa volta il ragazzotto dormì con la Principessa, insenza poterla toccare nemmanco con la punta delle dita, e a bruzzolo lo ristiafforno in prigione.
I carcerati in nel vedere daccapo il ragazzotto rimesso con loro, più che mai lo canzonavano e badavano a bociare:
– Ora poi è finita la cuccagna. Bisognerà bene adattarsi al pan nero e all’acqua del pozzo.
– Pazienza! – arrispose quello; – ma l’allegria nun deve mancare. Se nun si desina da signori, e no’ si ballerà da matti.
– Come, come? – gridorno i carcerati.
Disse il ragazzotto:
– Aspettate che il Re sia qui di sopra al convito, e po’ vedrete che baldoria.
Di lì a un mumento sona la campana del pranzo reale e i convitati, tutti ’n sala con il Re assieme, si siedettano alla mensa.
Il ragazzotto allora tira fori il su’ organino e comanda:
– Organino, presto: che ugni persona balli alla tavola del Re; e sona pure di gran forza.
Che ti vo’ vedere? Parevan tanti matti spiritati su ’n sala. Ballavano a furore, omini, donne, mobili; le stoviglie e i cristalli si sfracasciorno in pezzettini; le pietanze tutte all’eria e giù per le terre: chi sbatteva la testa ne’ muri, oppuramente, nel soffitto da gran sbalzi che era [59] ubbligato a fare; il Re poi ’gli urlava a gola squarciate, nun sapendo in che mondo si fusse. Quando il ragazzotto smettiede il sono, il Re tutto stafelato scese in nella prigione a domandare chi era quel gustoso che si spassava a quel mo’; subbito viene avanti il ragazzotto e dice:
– Son io, Maestà! ’Gli è con quest’organino ch’i’ fo nascere il chiasso; e giù, in quel mentre, sona e risona daccapo; e il Re salta di qui, salta di là, che pareva un razzo matto.
– Smetti, smetti! – berciava il Re: – tu mi rovini.
Il ragazzotto a quel bocìo non sonò più, e il Re gli disse allora:
– Che me lo vo’ tu vendere codesto organino ’ndiavolato?
– Perché no, Maestà? – arrispose il ragazzotto. – Ma a che patti?
– Guà, a’ patti di prima, – gli disse il Re.
– Cogliomberi! – scramò il ragazzotto.
– Troppo grassa, Sant’Antonio! O novi patti e chiari, o riprincipio a sonare, e sòno infino a tanto che nun siete tutti sfiaccolati e morti.
– Fagli te, dunque, i patti.
Dice il ragazzotto:
– Deccogli. I’ vo’ che mi s’accordi di sentire le brame della Principessa, quand’i’ sarò a letto con lei, e che lei sia ubbligata a rispondermi. I’ prometto per il mi’ lato di stare a su’ comandamenti.
Il Re ci pensò un po’ su prima d’acconsentire; ma tra la paura di riballar daccapo, e quel che mulinava in nel core, arrispose:
– Per me l’accordo; ma in cammera ci metto doppie guardie e du’ lampioni accesi.
A male brighe sortito di lì il Re, lui fece chiamare la su’ figliola ’n segreto e gli disse:
– Bada bene, i’ ti comando che stanotte a tutte le domande di quel ragazzotto malandrino, quando tu sie’ a letto con lui, sempre tu gli arrisponda di no alle su’ richieste.
La Principessa, con un inchino, a quelle parole arrepricò:
– Babbo, lei nun dubiti, che l’ubbidisco.
Eccoti, viense la sera e il ragazzotto se n’andiede a letto con la figliola del Re, e doppo che furno sdraiati da del tempo, dice il ragazzotto:
– Con il fresco che fa, che vi par egli bene, sposa mia, di tienere aperte accosì le finestre?
E la Principessa:
– No.
– Dunque, guardie, – bocia il ragazzotto, – per ordine espresso della Principessa, che le finestre siano serrate.
E le finestre viensan serrate. Passa [60] un quarto d’ora e il ragazzotto dice:
– Che propio, sposa mia, vi par egli bene che no’ siemo qui a letto con tutte queste guardie d’attorno?
E la Principessa:
– No.
Subbito bocia il ragazzotto:
– Guardie, avete vo’ sentito? Dunque, per ordine espresso della Principessa, andate via di cammera in sul mumento.
E le guardie se n’andorno a dormire, che nun gli parse vero. Passa un altro quarto d’ora e il ragazzotto dice:
– Sposa mia, che vi par egli proprio bene star qui a dormire con du’ lampioni accesi?
E la Principessa:
– No.
Diviato il ragazzotto spense i lampioni e fu buio fitto in nella stanza; e quando il ragazzotto rinentrò nel su’ cantuccio a letto, lassato un po’ di tempo insenza ismoversi, finalmente disse con una voce tenera:
– Cara mia, no’ siem sposi legittimi, e nunistante no’ si resta accosì discosti, che quasimente pare ci sia una siepe di pruni in questo mezzo. Vi garba a voi questo fatto?
E la Principessa:
– No.
Nun occorre che si racconti chiaro quel che ’gli accadette; gli sposi s’avvicinorno, si diedano de’ baci e si strinsano con le braccia, e addio.
Quando viense il giorno e il Re seppe ugni cosa dalla su’ figliola, s’incattivì a bono, fece un busso alla Principessa e in tutti i modi voleva che al ragazzotto gli tagliassin il capo: ma la Principessa protestò che lei aveva ubbidito al comando del Re col rispondere sempre di no a tutte le domande del su’ sposo. Lui però era stato furbo in nel fare quelle domande.
E poi dice al Re la Principessa:
– Che vole, caro babbo? Oramai nun c’è più rimedio; quel che è stato è stato, e insomma questo giovane ’gli è di certo il mi’ legittimo marito. Dunque, che lei ci perdoni a tutti e dua, perché no’ siemo innamorati e nun ci si pole separare a nissun patto.
Guà, il Re lo vedde bene che una toppa insenza scandolo e barbarietà nun c’era da mettercela, e pensò meglio di perdonare a que’ dua, e che lo sposalizio si facessi con dimolte feste e lussuose, e corressan anco le giostre.
Doppo il ragazzotto, diventato genero del Re, campò tanto assieme con la Principessa, che poi alla morte del socero fu erede di tutto quanto il Regno, e accosì da pastore gli toccò la sorte di acculattarsi ’n un trono reale per la su’ vita intiera.