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(Raccontata da Pietro di Canestrino operante)
In nella provincia di Genova ci si trovava una vedova che aveva tre figlioli, e loro si chiamavano accosì, Francesco, Tonino e Angiolino, e Angiolino sempre voleva dormire, quasimente no che le notti, ma tutto ’l giorno.
Quegli altri du’ fratelli principiorno a rimbrontolare la madre, e gli dissano:
– Madre, noi nun si pole più andare avanti con questo nostro fratello, che pare impastato di sonno. Dunque pensate voi a quel che si pole fare, perché no’ siemo dimolto isdegnati contro di lui.
La madre, che è tenera pe’ su figlioli gli arrispose a questo ragionamento:
– Cari i mi’ figlioli, i’ nun lo posso discacciare Angiolino, perché anco lui i’ l’ho partorito come voi dua. Proviamo a dargli moglie, ché allora lui si sveglierà.
I’ fratelli l’accordorno, sicché Angiolino pigliò donna; ma arrivo alla mattina quando ’gli era tempo di levarsi e la moglie voleva saltar giù dal letto, lui gli disse:
– Cosa fai?
– I’ mi vo’ levare, perché i tu’ fratelli nun abbino a lamentarsi.
– No, – bocia Angiolino: – infintanto ch’i’ resto a letto, te nun t’ha a movere di qui.
I fratelli stevano aspettando che gli sposi scendessino, ma l’aspettare pur troppo fu assai, che que’ dua nun apparirno ’n sala insino all’ora de’ tafani.
Allora poi i fratelli incattiviti a bono dissano alla madre:
– Per l’addietro lui era solo e ora son dua i poltroni. Sapete un po’ quel che gli è? No’ ci si vole partire. Ognuno il suo e loro vadiano addove gli pare.
E feciano [234] diviato accosì, gli dettano la su’ parte, e poi Angiolino lo mandorno fora di casa con la su’ moglie Carolina.
Angiolino e la Carolina co’ su’ fagotti dietro rene si rivolgano in verso la città del Modanese, capitale di tutto il Regno; ma in poco tempo consummorno ugni cosa, e furno obbligati a ritirarsi ’n un piccolo villaggio accosto a un fiumicello che passava per di là.
Un giorno che nun avevan più nulla da mangiare, disse accosì alla Carolina il su’ Angiolino:
– La fame e’ m’ha fatto ir via par anco il sonno. Ma i’ ho un pensieri. Quaggiù in nel fiume c’è de’ pesci; i’ vo’ andare a pescare per vedere se mi rinusce rabbrezzare un po’ di fortuna.
Dunque Angiolino con le su’ reti scese al fiume, e a male brighe arrivo le buttò in fondo di un rinserrato d’acqua e doppo qualche mumento le ritirò a sé.
– Oh! Dio, – scrama, – che pescio è egli mai questo che ho chiappo?
A furia se ne ritorna a casa e fa vedere il pescio alla Carolina:
– Guarda, Carolina, che pescio i’ ho trovo.
Arrisponde la Carolina tutt’allegra:
– Gnamo a venderlo, ché si potrà comperare del pane e dell’altre cose bone da camparci per un bel pezzo; perché questo pescio ’gli è una meraviglia, che nissuno pole mai averne visto di simili.
– No, – disse Angiolino alla moglie che languiva dall’appetito: – la mi’ idea sarebbe piuttosto di regalarlo al Re, e mi raccomando che te nun t’apponga.
La Carolina a quella supplica del marito nun seppe contradirci, sicché tutt’addua s’avviorno assieme in verso la città; ma quando furno arrivi alle porte, la Carolina lo consigliava il su’ Angiolino a venderlo il pescio, perché a quel modo lui poteva levarsi ’l sonno d’addosso più presto che con l’andare dal Re.
– Che! I’ ho disegnato di regalarlo al Re questo bel pescio, e nun vo’ venderlo a nissun patto.
Sicché dunque la cara consorte bisognò che restassi per allora a bocca asciutta e fora delle porte a aspettare il ritorno d’Angiolino.
Quando Angiolino fu arrivo al primo ’ngresso del palazzo reale, riscontrò lì la prima sentinella, che gli disse:
– I’ vo’ dal Re e gli porto questo regalo che qui. Si pole? – addimanda Angiolino.
– Aho! se tu mi dài mezzo il premio che ti tocca, – disse la sentinella, – i’ ti lasserò anco passare, e insennonnò arritorna pure d’addove sie’ [235] vienuto.
In quel momento Angiolino tirato dalla ’ngordigia del sonno, perché lui nun aveva possuto dormire quanto gli era parso, nun ci ripensò all’inganno dell’infame soldato, e pattovì come lui volse di dargli mezzo il premio, e tirò ’nnanzi.
Arrivo doppo in vetta della ritorta scala, deccoti una seconda guardia che lo ferma e lo ’nterroga, che lui vadia a fare dal Re, sicché Angiolino rispose:
– I’ son per fargli un regalo. Digli ch’i’ ho pescato un pescio raro, e che è degno soltanto di lui.
– Come! dunque ’gli è una rarità? – scrama la guardia.
– Sicuro, – dice Angiolino, – e i’ son qui però.
– Senti, il mi’ ragazzo, – disse la guardia, – se tu non mi dài la quarta parte del premio che ti toccherà, i’ nun ti lasso ire più ’nnanzi.
Anco a questa guardia Angiolino gli ’mpromesse quel che volse, e tirò via.
Giunto che fu in nella sala d’aspetto, ci steva lì pure la terza sentinella, che subbito gli domanda:
– Che vole?
Ma il soldato avvisato già dalla prima sentinella gli fece a Angiolino la chiesta dell’ottavo del premio che gli si spettava da parte del Re, e Angiolino, che nella su’ zucca gli era oramai vienuto in mente il rimedio, gli accordò agni cosa e poi disse che l’annunziassino al Re, e insenza indugio fu fatto passare a udienza.
Angiolino a male brighe si vedde dinanzi a Sua Maestà, gli profferse questa maraviglia del pescio raro, sicché il Re tutto istupito gli disse:
– Addove mai l’ha’ tu trova simile rarità?
E allora chiamorno subbito la Regina, perché anco lei ne godessi la vista; e il Re soggiunse:
– Dimmi te qualcosa, di’, che gli ho io da dare in premio di dono accosì grande a quest’omo?
Arrisponde la Regina:
– E’ gli si pole dare cento scudi in nel mumento e poi s’aiterà.
Ma Angiolino, doppo aver ripensato dientro di sé, disse:
– Maestà, questo dono i’ nun l’accetto.
– Oh! dunque, che vo’ tu?
– I’ voglio, – disse Angiolino, – cento staffilate.
– Sie’ tu matto, oppuramente lo fai?
La Regina più svelta però soggiunse:
– Dàgli i cento scudi e mandalo via questo citrullo.
– ’Gnora no! – disse Angiolino.
– I’ ho già detto che voglio cento staffilate, e per meglio intendersi, cento nerbate, e nun accetto altro fora che questo.
– Guà! – il Re gli arrepricò: – se tu le vòi, [236] i’ te le farò dare.
E subbito dice che chiamino quattro soldati, e ordina che preparino quel che ci voleva per dargli a Angiolino le busse in nella sala, perché tutti da siedere e insenza moversi potessin godersi quello spettacolo redicolo.
In un mumento ugni cosa fu portata e pronti per l’esecuzione, e la gente badava a scramare:
Disse allora il Re a’ soldati:
– Pigliate quest’omo e appiccicategli cento staffilate.
– Sì, ’gli è giusto, – dice Angiolino; – ma prima una grazia.
– Che grazia domandi tu? – chiese il Re.
– Lei, Maestà, mi deve mandare a chiamare la prima sentinella, che vienga qui.
Subbito la sentinella fu chiamata, e volsan sapere che voleva da lei Angiolino.
Dice:
– I’ voglio che questo ribaldo si pigli la metà del premio che mi tocca; e siccome i’ mi contento del premio che ho trascelto, è anco di ragione che la sentinella n’abbia mezzo.
Tutta l’udienza era maravigliata da questo discorso; ma poi saputo quel che era successo, acclamorno alla richiesta d’Angiolino, e la sentinella fu messa sotto e a suo scorno gli diedano cinquanta belle nerbate, sicché a quelle battiture lei saltava come un capretto.
Servita la prima sentinella, disse Angiolino:
– Chiamino pure la seconda guardia. Quest’infame soldato mi voleva mandare arrieto, se nun gli ’mpromettevo il quarto del premio che mi toccava. Gliene sieno date venticinque delle nerbate.
– Oh! – dice Angiolino: – anco la sentinella della sala d’aspetto dev’esser premiata. Gli tocca l’ottavo secondo la su’ prutenzione.
La sentinella tremava a verga a verga, perché aveva sentuto gli urli de’ su’ compagni e tutto l’andamento dell’affare; ma nun ci fu rimedio, e pur lei viense pagata con dodici nerbate e una di bon peso.
– In ugni mo’, – disse il Re, quando la nerbatura delle sentinelle fu finita, – ce n’è sempre dodici di resto delle nerbate, e queste sono per te.
– Sì, gli è giusta, – arrispose Angiolino; – ma prima i’ vo’ vedere s’i’ trovo qualcuno che le comperi.
Sorte dunque Angiolino dal palazzo e si mette a girare per le strade della città, e finalmente trova una bottega addove si vendeva di questi staffili.
– Quanto costano questi?
[237] – E io ce n’ho dodici dal Re, – dice Angiolino, – e ve gli libbero per tre paoli il capo.
– E i’ gli piglio.
– Bisogna però che venghiate con meco, – dice Angiolino.
Partono assieme, e arrivi alla sala dice Angiolino:
– Questo è quello che ha compro gli staffili.
– Oh! – scrama il Re sorridendo: – dunque te siei quello che ha comprato?
– Sì, Maestà, – arrisponde il mercante.
– E quanto gli ha’ fissati?
– Tre paoli per capo, – dice il mercante.
– Sta bene, – dice il Re; e poi ordina a’ soldati che lo piglino il mercante e gli diano le dodici nerbate.
A quella sorpresa urlò il mercante:
– I’ ho compro, Maestà, gli staffili e no le busse.
Ma nun gli valse; lui aveva detto che ’gli avea compro e per forza gli furno consegne le dodici nerbate, e po’ dovette anco pagarle tre paoli l’una.
Doppo di questo fatto tutta l’udienza accordorno che fusse premiato di cinque lire al giorno Angiolino e la su’ moglie, e accosì loro andassino a casa allegramente.
Angiolino si partiede però lesto e corse a ritrovare la Carolina, e feciano gran baldoria e festa, e un bellissimo desinare con invito a’ fratelli e alla madre d’Angiolino, e tutti si goderno una tranquilla pace.
La mi’ novella nun è più lunga:
Tagliatevi ’l naso e i’ mi taglio l’ugna.