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CAPITOLO III. Caduta di Venezia. – Repubblica Cisalpina. – Ostracismo alla lingua latina. – Difesa in favore di Vincenzo Monti. |
CAPITOLO III.
Caduta di Venezia. – Repubblica Cisalpina. – Ostracismo alla lingua latina. – Difesa in favore di Vincenzo Monti.
Frattanto l'adottiva sua patria era stata venduta, ond'ei valendosi della facoltà accordata ai Veneti dal trattato di Campoformio, di potere, cioè passare in Lombardia sotto la nuova repubblica Cisalpina, si traslocò a Milano; però indignato per sì turpe traffico, dà sfogo all'anima esulcerata colle seguenti espressioni, argomento alle due prime lettere dell'Ortis.
«Da' Colli Euganei, 11 ottobre 1797.
» Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu che io per salvarmi da chi m'opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre; vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare questa mia solitudine antica, dove senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'Italiani. Per me segua che può. Poichè ho disperato e della patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de' miei padri.»
«13 ottobre.
» Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere più. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero ch'io aveva promesso a mia madre di rifuggirmi in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore: e mi perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà e con l'esilio? Oh quanti de' nostri concittadini gemeranno pentiti lontani dalle loro case! perchè, e che potremmo aspettarci noi se non se indigenza e disprezzo; o al più, breve e sterile compassione: solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? terra prostituita, premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d'ira? Devastatori de' popoli, si servono della libertà come i papi si servivano delle crociate. Ahi! sovente disperando di vendicarmi, mi caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida della mia patria.
» E questi altri?.... Hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando con l'oro quello che stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi.....»
Dopo la cessione di Venezia all'Austria le speranze degl'Italiani si fondavano tutte sulla nuova repubblica Cisalpina dalla quale si ripromettevano tuttavia grandi cose. Perciò il movimento militare, politico e letterario si era concentrato tutto in Milano ove, per fini diversi, convenivano da tutte parti e chi cercava, come al solito, di pescarsi uno stato nel mare magnum, nella baraonda di una capitale in via di formazione (e questi erano il più gran numero); e il fiore dell'intelligenza italiana, in cui non difettava il puro e vero patriottismo. Fra gli ultimi va collocato il Foscolo, il quale imprese a scrivere con Melchiorre Gioja e Custodi nel Monitore Italiano; e benchè egli attendesse a compilare le relazioni delle tornate del Corpo legislativo, e quelle del consiglio de' Seniori, aggiungeva osservazioni proprie una delle quali ricorda a' legislatori che la libertà di cui godevano calò dalle Alpi accompagnata dalle desolazioni e dal terror della guerra e seguìta dall'orgogliosa avidità della conquista. Altra volta indignato de' soprusi che commettevano le soldatesche repubblicane, si volge agli stessi legislatori ed esclama: O togliete gli arbitrii, o scendete da quel seggio ove rappresentate una nazione oppressa e delusa dai suoi stessi ministri. Di non meno coraggio civile diè prova nell'Italico, ove aveva pure per collaboratore il Gioja, onde sarebbe ovvio indagare il motivo per cui quel giornale venne, dopo pochi mesi, dal governo soppresso (1798).
Di quell'anno abbiamo il seguente sonetto all'Italia per la sentenza capitale, nel Gran Consiglio Cisalpino, contro la lingua latina. Come si vede, traspira in esso con forza, misto ad ironia, il dolore per sì barbara proposta, accresciuto eziandio dalla nausea che destava quell'illustre consesso, composto di uomini italiani, vedendolo trattare gli affari di Stato in lingua francese.
«Te nudrice alle Muse, ospite e Dea,
Le barbariche genti che ti han doma
Nomavan tutte; e questo a noi pur fea
Lieve la varia, antiqua infame soma.
» Che se i tuoi vizi e gli anni
e sorte rea
Ti han morto il senno ed il valor di Roma,
In te viveva il gran dir, che avvolgea
Regali allori alla servil tua chioma.
» Or ardi, Italia, al tuo
Genio ancor queste
Reliquie estreme di cotanto impero;
Anzi il toscano tuo parlar celeste
» Ognor più stempra nel
sermon straniero,
Onde, più che di tua divisa veste,
Sia 'l vincitor di tua barbarie altero.»
A tali aberrazioni ci aveva condotto la frenesia repubblicana d'allora, da stimarsi inutili gli studi classici che sono fondamento e corredo ad ogni umano sapere; e forse una delle ragioni per cui le mediocrità abbondano oggigiorno in Italia si è il non tenerli in quel pregio che meritano. Ora invece è di moda il darsi con furore alle lingue straniere, ottima cosa invero se si potessero apprendere senza scapito de' buoni studi; ma invece pur troppo avviene, come dice il Foscolo, che per balbettar molte lingue, si balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi.
Su questo argomento mi piace riferire un'opinione del Pecchio per confutarla. «Che occorre di greco, dic'egli, al matematico, al fisico, all'avvocato? Il greco poi per un negoziante è come insegnare la danza a un cappuccino. Esso è fatto per un letterato di professione, o per un ricco ozioso che vi potrà dedicare tre o quattro anni, chè già non se ne esigono meno per saperlo bene.»
Che al matematico, all'avvocato e al negoziante non sia necessario il greco si potrà con lui convenire; ma in quanto al fisico, e a tutti coloro che si danno alle scienze naturali, non è di poco aiuto il saperne almeno tanto da potere afferrar subito il significato delle moltissime voci che hanno la radice in quella lingua. Oltre a ciò il giovinetto, quand'entra nel tirocinio della sua istruzione, non può conoscere ancora a che la natura il chiami, o ingannarvisi facilmente; e però un fondo anticipato di buoni studi sarà sempre un'ottima riserva per l'avvenire. Non gli resterà allora preclusa nessuna via dello scibile umano; servirà allo scienziato a dar miglior forma a' suoi scritti, e a tutti poi a formarsi un buon intelletto.
Nello stesso anno 1798 scrisse una difesa in favore dell'amico Vincenzo Monti per purgarlo dalle accuse del pubblico, indispettito della sua Basvilliana, e per condannare al silenzio i nemici del Poeta alfonsinese, i quali mascheravano l'invidia col pretesto di quella pubblicazione onde inviperire contro di lui. Ma queste belle doti dell'animo non brillavano di luce sì pura nel Foscolo che non fossero alquanto offuscate da traviamenti e difetti; colpa il bollore delle passioni, l'età licenziosa e il nuovo stato dell'armi a cui si diede indi a poco, laonde, tocco poi da rimorso, canta in un sonetto:
«..... dal dì ch'empia licenza e Marte
Vestivan me del lor sanguineo manto,
Cieca è la mente e guasto il core, ed arte
La fame d'oro, arte è in me fatta e vanto.»
La fame d'oro era la frase delle prime edizioni, alludendo al giuoco sfrenato d'azzardo a cui si dava in preda le notti, che poscia, forse dolente di far palese questo suo traviamento, corresse in quella di L'umana strage.
Seguendo l'ordine cronologico va qui rammentato il Discorso sull'Italia al generale Championnet, che porta la data del 1799, scritto ispirato dall'amor patrio per la felicità d'Italia, che è lo scopo precipuo a cui mirano tutte le sue opere letterarie.