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CAPITOLO VI. Morte del fratello Giovanni. – Il fratello Giulio. – Il Codice militare. – Illegalità del grado di Capitano. – Orazione a Buonaparte. – Ode all'amica risanata. – Secondo innamoramento – La Chioma di Berenice. |
CAPITOLO VI.
Morte del fratello Giovanni. – Il fratello Giulio. – Il Codice militare. – Illegalità del grado di Capitano. – Orazione a Buonaparte. – Ode all'amica risanata. – Secondo innamoramento – La Chioma di Berenice.
Nel 1801 perdè il fratello Giovanni che pianse col seguente bellissimo
«Un dì, s'io non andrò sempre
fuggendo
Di gente in gente, me vedrai seduto
Sulla tua pietra, o fratel mio, gemendo
Il fior de' tuoi gentili anni caduto.
» La madre or sol, suo dì
tardo traendo,
Parla di me col tuo cenere muto;
Ma io deluse a voi le palme tendo,
E sol da lunge i miei tetti saluto.
» Sento gli avversi numi e le
secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta.
E prego anch'io nel tuo porto quïete.
» Questo di tanta speme oggi
mi resta!
Straniere genti, almen l'ossa rendete
Allora al petto della madre mesta.»
Alla sua precoce fine, avvenuta in Venezia, (era nato nel 1780) non fu estraneo, pare, il troppo abuso dei piaceri, ma non è vero che egli deliberatamente si togliesse la vita, come asserisce il Pecchio; causa della morte essendo stata invece un'infiammazione ai polmoni.
Dopo la perdita di questo figliuolo la madre confidò ad Ugo l'educazione di Giulio ancor giovinetto a cui egli largì cure di padre, non risparmiando nè fatica nè spese, onde giunse il giorno che compiacevasi del buon frutto ottenuto e scriveva di lui: «È giovine sano, bello, forte, pieno d'onore, riputato nel suo mestiere, ed amato ed istruito.» Ma, fra tante peripezie che la sua cattiva sorte gli apparecchiava, gli fu almeno in questo propizia che nol condusse a vedere la tragica fine del suo minore ed infelice fratello, avvenuta in Ungheria nel maggio del 1838 ov'era tenente colonnello di cavalleria nell'esercito austriaco. Un amor forsennato, l'umor tetro forse ereditario nella famiglia, e fors'anche l'esempio infausto dell'Ortis, il trascinarono all'estremo passo di torsi la vita quando già Ugo lo avea da un pezzo preceduto nel sepolcro.
A questo lugubre fatto allude la seguente ottava, seguito della dianzi citata poesia di Silvio Pellico, i cui versi se non de' suoi più belli, sono però, come sempre, improntati di nobili e delicati concetti.
«Biasmo gagliardo quindi al giovin davi
Che ti dicea suoi forsennati amori,
E l'atterrarsi codardia nomavi
Sotto qualsiasi incarco di dolori;
E sua vita serbar gli comandavi
Per la pietà dovuta ai genitori.
Pel dovuto anelar d'ogni vivente
Sì che sacri a virtù sien braccio e mente.»
Il generale Teulié, ministro della guerra, che al gusto delle lettere accoppiava la scienza del generale, avendo promossa ed istituita una commissione per compilare un codice militare pensò di volgere a profitto pubblico i talenti del capitano Foscolo, ch'egli conosceva ed apprezzava moltissimo, nominandolo capo della quarta sezione che doveva trattare della disciplina e delle pene. Questo lavoro fu poi sospeso, indi abbandonato affatto il progetto, per ragioni economiche dicono alcuni: altri che fu per ordine del generale in capo Murat ad istigazione di alcuni invidiosi colleghi italiani; ma frattanto Foscolo vi si era gettato a corpo perduto: avea fatta dimanda al Ministero di varie opere da consultare, di codici militari diversi, nazionali ed esteri, e del processo criminale di Mario Pagano. Ne distese infine un abbozzo che fu presentato al Ministro della guerra li 19 novembre 1801, e fu piaciuto e lodato da coloro che ebbero l'incarico di esaminarlo. Era fondato sopra principii liberali e, fra l'altre cose, pareggiava in tempo di pace il soldato al cittadino ammettendo per condannarlo od assolverlo un giurì militare.
Questa fatica e lo avergli il Ministro riconosciuto implicitamente il grado di capitano aggiunto, aggregandolo come tale nel detto ufficio, non valsero a convalidare il titolo, che gli fu contestato per lungo tempo con la minaccia di torgli l'emolumento, a pretesto che difettava di legalità. Adducevasi che, per render la nomina normale, non bastava il voto del Ministro della guerra, ma era eziandio necessaria l'adesione del vice-presidente Melzi. La questione in sè aveva un apparente fondo di verità, ma in sostanza erano mendicati cavilli per straneggiarlo. Dall'esame dei certificati il giurì dei reclami emise sentenza, risultare dai medesimi essere il Foscolo un ufficiale «che si è distinto in campagna, riportando delle ferite e spiegando in ogni occasione attività e zelo e cognizioni, in modo che possiede tutti i requisiti necessari per essere confermato capitano, avendone esercitate le funzioni fino dal giorno 29 ventoso anno VIII, conce risulta da certificato del capo dello Stato Maggiore generale Audinot, che lo assegnò come aggiunto presso l'aiutante generale Fantuzzi, qualificandolo capitano.»
Questo giudizio veniva corroborato dal seguente rapporto del ministro Teulié al Melzi in data 30 ottobre 1802.
«La sua nomina di capitano aggiunto ha origine da un ordine del generale in capo Massena, che a Genova lo impiegò a richiesta dell'aiutante generale Fantuzzi. Molti altri che erano nello stesso caso, e fra questi il capitano Gasparinetti furono conservati e promossi.... Assoggetto in questa occasione al vice-presidente, che il brevetto dà titolo, ma non sempre meriti al grado; ma che i meriti, le ferite e i servigi danno sempre diritto al brevetto, specialmente negli uomini di un'esatta e morale condotta. E dalla condotta passata del cittadino Foscolo non può che risultare la certezza del suo valore e del suo zelo per l'avvenire.
» Sarebbe quindi, a mio parere, un utile acquisto per l'armata, se le si aggregasse un uffiziale quanto ardente e coraggioso in tempi di guerra, altrettanto pieno de' lumi necessari a' tempi di pace; ed immeritevolmente il Foscolo sarebbe condannato a perdere tre anni di sudori e di meriti per la semplice mancanza di legalità.»
Ma visto che la debita giustizia si faceva ancora aspettare a lungo, il detto Ministro scrisse al Foscolo la seguente lettera:
«Fino a che sieno rischiarati i vostri titoli militari, come vi ho scritto con altra mia, voi potrete, cittadino, impiegarvi alla traduzione di alcune opere francesi, che occorrono alla nostra armata.
» Perciò quando la vostra salute il conceda, vi renderete presso il Capo della 1a Divisione, che saprà utilizzare a pubblico vantaggio la vostra penna, i vostri lumi ed il vostro civismo.
» Salute e fratellanza.»
Incaricato di scrivere pei Comizi di Lione, un'Orazione a Buonaparte, la dedicava li 7 gennaio 1802 ai cittadini Sommariva e Ruga, membri del Comitato di governo della Repubblica Cisalpina, dai quali ne aveva avuto la commissione. Le lodi che in essa tributa al primo Console sono pretesto per esporre opinioni e dir verità che altrimenti non sarebbe stato possibile manifestare; ma verità consimili ed ancor più ardite già dette le avea nelle lettere dell'Ortis. Gli dipinge l'odiosità della tirannide e lo esorta a moderato comando se ama gloria verace. Gli addita corrotti i tre elementi di ogni politica società: Leggi, Armi, Costumi; la santa giustizia e la virtù contaminate e vendute, ed apostrofando i reggitori della cosa pubblica esclama: «Ma gli accusatori, i testimoni ed i giudici de' vostri delitti sono le vostre tante improvvise, malnate ricchezze, onde di poveri e abbietti, superbi oggi andate ed impuni. Sostenere la ingiustizia è da forte, dissimularla è da schiavo; ma ritorcerla a proprio vantaggio, dividendo quasi opime spoglie le vesti de' propri concittadini, è da bassissimo scellerato.» Non manca in essa, dice il Carrer, qualche prolissità e qualche sfoggio di boria scolastica; ma nel generale quale altra orazione italiana d'argomento politico si vorrà credere di questa migliore?
Nè il prefato biografo, nè il Pecchio e tampoco il Pavesio fanno menzione che il Foscolo rifiutasse sdegnosamente l'offerta anticipata di 12 mila franchi unita alla promessa di ricever cariche in compenso di questo lavoro, come nota il signor Carlo Gemelli, tratto forse in errore da un articolo della Revue des Deux Mondes, ch'egli cita in appoggio della sua asserzione. In proposito di questo l'autore dice: «Scrivendo la mia orazione ognun sa ch'io ubbidii più alla mia fama ed alla verità, che alla speranza di beneficii e di gradi.»
Dell'incarico datogli il Comitato dovette per certo rimaner male (perciò forse l'Orazione non fu recitata) imperocchè, nel mettete al nudo le piaghe dello Stato e nell'additare le malversazioni pubbliche, con inusitato coraggio non la risparmiava a nessuno; ma la verità, per quanto dura ella sia agli orecchi di chi l'ascolta è sempre la santa cosa! Sublime ufficio del letterato e del poeta sarebbe il dirla senza ritegno, perchè si accatta l'approvazione dei buoni e può porre un freno ai malvagi. Non gl'incolse danno per allora, ma gli precluse la via a bella carriera.
Frattanto Napoleone, che personalmente dirigeva il congresso, aveva, da astuta volpe, predisposte le cose e guadagnatosi l'animo de' più influenti, ai quali fu fatto intendere, senza parere, qual nuova forma volevasi dare alla Cisalpina repubblica, all'intento di armonizzarla colla recente costituzione francese. E facile assai gli fu il compito, perciocchè ne' quattrocentocinquanta deputati italiani non trovò che adulazione e cieca ubbidienza, laonde fattosi crear presidente fecesi anche pregare di cambiarne il nome, non più Cisalpina, ma repubblica Italiana nomandola; cosa molto pregna, dice il Botta con quel suo linguaggio espressivo, in mano di Buonaparte. La venerazione profonda ch'io sento per l'illustre storico non mi frena però dal dire che inconcepibile è il suo silenzio sull'Orazione e sull'atto eroico di chi la dettava.
L'ode all'amica risanata, scritta in questo medesimo anno (1802) è degna sorella della precedente ed ambedue spirano una grazia, una vivacità tutta propria non che quell'armonia soave, indefinibile, indizio di vena altamente poetica; se non che questa è forse tinta di maggior voluttà pagana per le spesse e leggiadre immagini mitologiche. È verità quanto dell'antica ivi si narra, imperocchè, bellissima ella era, e dotata di molti pregi, ma non del più stimabile, dopo l'onestà, in una donna; cioè, la costanza.
Il Pecchio che dice di averla ben conosciuta ne dà il seguente ritratto: «Chiome lucide, nerissime, occhi neri e languenti, un tuono di voce basso e lento, che chi ha studiato il bel sesso italiano sa, che suol essere accompagnato da un cuor bollente, statura alta; questi erano in iscorcio i pregi della persona..... Aveva l'anima grande d'un vero conquistatore, che non fa caso delle lagrime e miserie che cagiona, purchè arrivi al suo fine. Si faceva giuoco degli uomini, perchè li credeva creati come i galli per innamorarsi, ingelosirsi e azzuffarsi. Tanta era però la sua bellezza che nessuno gliene voleva male, e ognuno partiva contento del suo sorso.»
Era oltre a ciò di famiglia ricca e patrizia, figlia di quella marchesina F.... (aggiugne il Pecchio) che Sterne incontrò su la soglia d'una sala in Milano, e a cui impedì involontario più volte il passo, nell'uscirne in furia ch'ella faceva. Vuolsi che questo amore, il più violento che forse il Foscolo provasse, si sciogliesse con un duello e temperasse in lui le passioni eccessive alle quali era portato per indole, e il togliesse per sempre all'idea del suicidio a cui sentivasi spinto; ma è a supporsi che contribuito vi abbia anche il divagamento della vita militare e le sue emozioni. Questa donna, al dire di lui, aveva il cuore fatto di cervello, cioè non sentiva le passioni che sì facilmente accendeva negli altri; ma tuttochè innamorato disperatamente di lei, giuocava con furore, e quando nel giuoco gli arrideva la sorte, scialava, del futuro incurante. Leggesi in una sua lettera: «Ho amato le Muse d'amore talvolta appassionato e nobile sempre, ma spesso anche freddo infedele; dacché Amor, dadi, destrier, viaggi e Marte m'invadevano la giovinezza più vigorosa.»
Quando poi la fortuna non gli si mostrava benigna, solea talvolta, dopo una sconfitta al giuoco, rinchiudersi in casa per molti giorni e fu in mio di questi periodi di sconforto e di solitudine che, nel 1803, dedicandolo all'amico Giovani Battista Niccolini, volgarizzò l'inno di Callimaco sulla Chioma di Beranice, corredandolo di un'infinità straordinaria di note, colle quali dà saggio di moltissima e rara erudizione. Servì a confondere i prosuntuosi che lo invidiavano e a farsi beffe de' pedanti; ma per sè stessa questa operetta non è di quelle che aggiungono più fama al suo nome.