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CAPITOLO XIV. Articoli di critica. – Ire letterarie. – Accademia de' Pitagorici. Inimicizia col Monti. |
CAPITOLO XIV.
Articoli di critica. – Ire
letterarie. – Accademia de' Pitagorici.
Inimicizia col Monti.
Ripresa stanza in Milano trovò pascolo intanto alla sua attività scrivendo negli Annali di scienze e lettere, apprezzati come opera periodica delle migliori che abbia avuto l'Italia, imperocchè colla gravità degli argomenti, propugnava schiettamente il pubblico bene e l'onor nazionale. Vi collaborò coli Michele Leoni fino al gennaio 1811 in armonia di sentimenti letterari e politici col suo collega il medico Rasori, direttore e proprietario di quella pubblicazione, ex professore anch'egli, ed antico compagno d'arme all'assedio di Genova. In questo giornale apparirono per suoi i seguenti articoli: Articolo critico intorno alla traduzione de' due primi canti dell'Odissea d'Ippolito Pindemonte; Dissertazione storica intorno ai Druidi ed ai Bardi Britanni; Atti dell'Accademia dei Pitagorici ossia Ragguaglio di un'adunanza della medesima; Articolo critico intorno a due traduzioni del poema di Virgilio l'Eneide; Effetti della fame e della disperazione sull'uomo; Articolo storico critico intorno allo scopo di Gregorio VII, ed altri due apparvero nel giornale della Società d'incoraggiamento: uno, Considerazioni sulla poesia lirica; l'altro, Osservazioni critiche alla traduzione italiana di un'ode di Tommaso Gray. Si riferiscono pure a questo tempo, portando la data del 1811, i frammenti inediti intitolati: Della patria, della vita, degli scritti e della fama di Niccolò Machiavelli.
Ugo Foscolo detestava i pedanti e quella mediocrità di letterati che, per mettersi in mostra e avvantaggiarsi, non rifuggiva da qualunque bassezza.12 Perciò nauseato di loro e dell'adulazione rettorica dell'epoca, parlavane con pochi riguardi, e, quasi scherzando, aveva queste cose schernite nel comento alla Chioma di Berenice. Tali arditi giudizii, come quel suo sentenziare reciso, assoluto, spesso in opposizione a inveterate opinioni; la singolarità del suo ingegno, la stima in cui era tenuto dai grandi, gli suscitarono dei nemici. Questi da prima, operando occultamente, non ardirono di scoprirsi; ma quando egli nella Prolusione, come gettar volesse il guanto di sfida, ruppe, con tutta solennità e a visiera calata, la sua lancia contro la ciarlataneria letteraria, e, più oltre ancora procedendo, pubblicò nei giornali gli articoli su riferiti; l'ira de' nemici suoi scoppiò furibonda e la guerra da ambo le parti fu dichiarata.
Aveva preso occasione in uno di questi articoli, dice il Carrer, di notare «molti abusi negli studi e molti pregiudizi tenuti come principii incontrastabili, avea scagliato l'anatema contro molte riputazioni letterarie, e dettato nuovi canoni di critica. Mirava a dare alle lettere la loro naturale importanza riconducendole sull'antico cammino.»
Poco o niun conto tenendosi prima di Foscolo dei gravi problemi sociali a miglioramento della umana società, la critica si occupava soltanto di eleganze rettoriche, di leggiadrie grammaticali, di peregrinità filologiche, e, come se ciò fosse tutto, ne andava superba. Era una letteratura arcadica, convenzionale, di vuota forma e quando vuota non era, era falsa ed ipocrita perchè si volevamo esprimere sentimenti che non erano nella coscienza e a cui l'anima non era partecipe. Fu questa una pagina delle meno belle della sua vita, imperocchè, dimenticata quella nobil fierezza a lui propria, e la dignità del carattere, si avvolse in contumelie, libelli e diatribe virulenti per le quali se da una parte egli è degno di scusa, sono dall'altra cagione di biasimo meritato.
Fra i suoi avversari più accaniti vanno rammentati: un conte Paradisi, Urbano Lampredi, un Anelli, un Lamberti e il Guillon. Solevansi essi adunare insieme ad altri pseudo-letterati, fra cui però non mancavano uomini d'ingegno, nella stanza di un caffè dirimpetto al teatro della Scala, ove, discutendo per lo più di cose letterarie, protraeano la conversazione fino ad ora tarda di notte. A questa riunione d'amici, che assunse per ischerzo il nome di Accademia de' Pitagorici, interveniva talvolta il Foscolo; ma di rado prendeva parte ai ragionamenti, preferendo in vece di starsene seduto taciturno, e, qualche sera, per ore intere immobile cogli occhi fissi, la quale stranezza veniva giudicata effetto di vanità. Da questa riunione prese egli argomento per dettare quello scritto satirico che porta per titolo: Ragguaglio di un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici nel quale, senza nominare alcuno individualmente, lasciava con facilità indovinare dove andavano a cadere i suoi colpi di sferza.
Ma ciò che più è a deplorarsi, la ruppe in quel tempo anche col Monti, la cui amicizia durava inalterata da quindici alani. Se ne ignora il perchè, ma pare per futili chiacchiere letterarie riportate e rinfocolate nell'animo troppo versatile del Monti da uomini poco onesti e nemici al Foscolo. Corsero in seguito fra loro degli epigrammi. Uno del Foscolo, diceva:
«Questi è il poeta Monti, cavaliero.
Gran traduttor dei traduttor d'Omero.»
E il Monti con spirito troppo più caustico che non conveniva:
«Questo è il rosso di pel, Foscolo detto;
Falso così che falsò infin sè stesso
Quando in Ugo cangià ser Nicoletto.
Guarda la borsa s'ei ti viene appresso.13»
Poi il Monti lo chiamò cortigiano che portava la maschera di Catone perchè, diceva egli, mostrava di avversare i grandi in pubblico e li accarezzava in privato per insinuarsi nelle loro grazie. Al che rispondeva Foscolo: «Ho pensato a tutti gli anni della mia vita meritevoli di molte taccie fuorchè di questa: e poichè ho amato passionatamente le donne, e ho pazzamente perduto le notti al giuoco, non mi sono trovato mai nè Catone, nè mascherato, nè cortigiano.»
L'affezione che dimostravangli i grandi era forse mossa da diverse ragioni: o perchè temevano il suo libero e franco procedere, o per gratificarsi l'opinione pubblica, onorando il merito, o perchè realmente sentivano per lui simpatia, o perchè anche erano alcuni con lui venuti crescendo ed educandosi insieme; ma è accertato che lasciò correre l'offerta del ministro Vaccari, fattagli più volte sorridendo alla sua tavola e a quella del ministro Venèri, di dargli alloggio nella propria casa.
È a ritenersi però che questa scissura non sarebbe bastata a separare definitivamente due uomini, che pur tanto stimavansi, se non vi aggiungeva peso la mutabilità eccessiva del carattere morale del Monti, colpa che l'amico non poteva più perdonargli, perchè troppo in opposizione al modo suo di pensare dignitoso e costante. Ultimo addio fra loro fu una lunga lettera giustificativa diretta al Monti: lettera, dice il Carrer, tra le più belle che si possano leggere in qualsiasi lingua. È concepita in termini urbani, manifestanti il dolore di perdere un'antica amicizia, della cui sincerità, dice il Foscolo, ho dato più volte incontestabili prove. Faceva presentire che la loro dimestichezza non si sarebbe potuta più nutrire di quella schietta cordialità di prima e terminava dicendo: «Ma quali possono essere le nostre ragioni, e qualunque sia la mia colpa, io attribuirò tutto al mio rigore di carattere e alla vostra instabilità, e persisterò a fidarmi del vostro cuore e a non avvicinarmi più a voi se non quando la mia amicizia potrà efficacemente giovarvi.
» Intanto io sono sicuro che voi tornerete a maledire a' Creonti e a' Tersiti, ma sono certo altresì che voi mi perdonerete le colpe che forse inavvedutamente ho commesse, e quelle ch'altri v'ha fatto e vi farà credere.
» Per me siate certo ch'io non conservo rancore contro di voi, ch'io perdonerò le vostre collere momentanee all'antica e lunga amicizia, e torno a ripetervi, ch'io non credo che abbiate fatta mai contro di me cosa alcuna, la quale meriti un lungo risentimento. E vivetevi lieto.»