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CAPITOLO XV. Battaglia di Wagram. – Umiliazione inflittagli. – Vagheggia i trionfi della scena. – Nascita del re di Roma. – Recita dell'Ajace. – Esilio in Firenze. |
CAPITOLO XV.
Battaglia di Wagram. – Umiliazione inflittagli. – Vagheggia i trionfi della scena. – Nascita del re di Roma. – Recita dell'Ajace. – Esilio in Firenze.
Mentre ardevano questi dissidii, resi oggi fortunatamente assai più radi fra' letterati, la gran battaglia di Wagram (luglio 1809) prostrava l'Austria ed apriva a Napoleone le porte di Vienna. Si stipulava la pace a durissime condizioni per l'imperatore, delle quali la più amara per lui fu di dover accordare in matrimonio la propria figliuola Maria Luisa all'odiato e formidabile nemico suo.
Nella gioia di questi trionfi, tanto Napoleone a Parigi, quanto il principe Eugenio in Italia, che vi ritornava colla sua parte di allori colti sotto le mura di Giavarino, erano larghi di promozioni, onorificenze, largizioni; ma al povero Foscolo davansi in vece promesse e lusinghe; e frattanto ei rimaneva all'asciutto. Egli, alle speranze incredulo e al timore, non si lagnava; ma era costretto di vivere assai parcamente: la vendita del Montecuccoli procedeva lenta e le riscossioni stentate; per corredar la casa a Pavia aveva incontrato qualche debito, ed inoltre si era colà obbligato per tre anni con la pigione. Per tutte queste cose si trovava in angustie e più ancora che certe febbri spesso lo visitavano, ed infine perchè Milano non gli piaceva.
Fu soltanto nell'ottobre del 1810, che S. A. il Vicerè, incalzato forse dalle premure che gli facevano i potenti ed autorevoli amici del Foscolo, si dispose finalmente a dar corso all'istanza sua e passatala con un rescritto alla Direzione dell'istruzione pubblica, ordinò che si provvedesse; ma anzichè riconoscere i meriti di lui con un impiego, com'egli avea chiesto, perchè lo si temeva e fors'anche si odiava, si volle umiliarlo con un soccorso in danaro. Gli fu perciò saldato un debito di L. 661.67 che teneva ancora col padrone della casa in Pavia, a cui per un resto di pigione avea dovuto lasciare in pegno libri ed arredi; vennegli accordato un compenso di L. 1200 in considerazione delle perdite fatte sulla stampa del Montecuccoli di cui rimanevangli molte copie invendute, ed in fine gli fu creata una pensione di professore emerito di annue L. 767.51, che dispose in favore della madre, avendo ottenuto le fossero pagate a Venezia in rate mensili.
In quanto al poetare, il genere che più gli solleticava la fantasia, dopo perduta la cattedra, erano le tragedie; ma per isventura in esse Melpomene non gli si mostrava nel pieno delle sue grazie, e un cumulo di circostanze gli congiuravano contro, quando in vece se avesse proseguito a battere il cammino della lirica, o fossesi dato ai sermoni, si può argomentare dai frammenti lasciati che non sarebbe in essi riuscito da meno di quel ch'ei fu nei Sepolcri e negl'Inni alle Grazie. Il suo pensiero vagheggiava i trionfi della scena, e compose l'Ajace, che fu rappresentato al teatro della Scala la sera de' 9 dicembre 1811 dalla compagnia Fabbrichesi.
Prima di dar conto dell'esito di questa produzione, volendo seguir l'ordine cronologico, non va passato sotto silenzio che, per la nascita del re di Roma ei pubblicò nel Giornale Italiano una breve descrizione della festa militare ch'ebbe luogo in Milano il dì 4 aprile di questo medesimo anno, e che nello stesso giornale furono riportate le quattro iscrizioni da lui composte per la circostanza, le quali ornavano le quattro faccie della base di un gran monumento innalzato nel circo, ove la guardia reale diè un pranzo ai capi francesi e italiani della guarnigione. Di questo fatto, che potrebbe metter l'autore in apparente contradizione co' suoi principii, ecco com'ei ne parla in una lettera al conte Giovio. «Per non tardare a risponderle e a ringraziarla, le scrivo oggi mezza lettera; l'altra mezza la scriverò quando avrò potuto leggere le poesie. E me ne vengono da ogni parte, e in tre lingue: io nel leggerle non ardisco biasimare nè lodare, e solo desidero che s'avverino le profezie – Dio aiuti l'Italia! – Anch'io, per compiacere agli amici e commilitoni esultanti, banchettanti, festeggianti, ho dovuto fare iscrizioni ed augurii; ma io non ho festeggiato. Mi basta di essere spettatore ed uditore soltanto; ed ho lasciato che altri si faccia onore di quelle iscrizioni profetiche, che secondo me, non possono fare onore ad anima nata. E mi pareva anche che la fortuna (ch'io talvolta mi diletto d'insultare satiricamente e cinicamente) mi facesse le boccaccie e le fiche quand'io, Ugo Foscolo, seduto con tre altri dottori, andava stendendo certo articolacelo di giornale politico ..... E solo mi pare di essere assoluto dinanzi a me stesso, dacchè ho dissimulato il mio nome, ed ho anche impedito che si pubblicassero in stile barbaro le usate ciarlatanerie.»
Non è vero, com'egli dice per modestia, che quelle iscrizioni non facciano onore ad anima nata, che anzi sono, nella loro concisione e semplicità, degnissime di lui.
Riprendendo ora l'argomento della tragedia, ecco come ne parla il Pecchio. «Nonostante che il gusto pel teatro sia diminuito in Italia, dappoichè l'opera in musica co' suoi effeminati gorgheggi soppianti i sentimenti maschi della tragedia, e la satira morale della commedia, ebbe Foscolo questa volta la compiacenza di far nascere una curiosità al pari di un'opera nuova di Rossini.»
Grandissima in fatti era l'espettazione, affollatissimo quella sera il teatro d'amici, nemici, letterati, belle signore, magistrati di conto; ansietà e raccoglimento negli spettatori dal primo alzar del sipario. «Dissi già, prosegue il Pecchio, che il soggetto della tragedia era freddo, freddissimo, il pubblico nondimeno ascoltò attentamente e docilmente la tragedia per lunga pezza. Ma la pazienza ha poi un fine, e come avviene nelle rivoluzioni che quando sono mature basta una scintilla per farle scoppiare, così verso il quint'atto la pazienza scappò agli spettatori, quando il Pontefice dalla cima d'un monte avanzandosi esclama: O Salamini! Qui si alzò uno scoppio generale di risa. Lo promosse la somiglianza di questa denominazione, con quella di alcune salsicce, che si fanno in Lombardia anch'esse chiamate Salamini. Il pubblico credette di essersi giustamente meritato il nome di salsicciotto per quella sua soverchia pazienza.»
Il doppio senso di quella parola, che valeva tanto pei sudditi del suo eroe quanto per un salato del paese, non era stato avvertito dall'autore, e non è caso da fargliene biasimo, nè da scherzarvi sopra come fa il Pecchio, non essendo infrequenti simili inavvertenze anche in altri, e mi rammento dell'ilarità che destò nell'uditorio il sassi per tutta Atene di una tragedia moderna. Il fatto sta che il pubblico era quella sera andato al teatro per commuoversi, e sentendosi in vece annoiato, colse volentieri l'occasione di cangiare il pianto in riso, per dare sfogo al suo mal umore. Non mancarono però gli applausi; ma non erano generali e spontanei. Egli, che vi assisteva da un palco con Ugo Brunetti, se ne accorse e non volle mostrarsi al terz'atto che il pubblico lo chiamava a gran voce. Avvolto nel suo mantello, uscì del teatro e condussesi a casa.
E non fu questo solo tutto il male che incolse a quella malaugurata tragedia. Corretta in alcune parti e levata la scena VIII del 4° atto, fu rappresentata altre due sere e forse a queste sole non si arrestava, se non interveniva la polizia che sospettò, o per meglio dire i nemici del Foscolo le fecero sospettare delle allusioni, che la censura preventiva non aveva veduto. Fosservi o no sarebbero bastate le seguenti poche parole per accreditarne la voce in tempi di sospettosa tirannide, imperocchè, proferite da Calcante e dirette al re dei regi, ben s'attagliavano sul dorso di Buonaparte.
«.... tanta gioventù che giace
Per te in esule tomba, o per te solo
Vive devota a morte.»
In Agamennone si era creduto vedere Napoleone, in Ajace Moreau, oppresso da lui per invidia de' suoi alti meriti; in Ulisse Fouché, e perciò fu inscritta all'indice delle rappresentazioni proibite nei teatri del regno. Di più comparve in quei giorni il seguente epigramma, del quale s'ignora l'autore.
«Nel presentarci furibondo Ajace,
Superbo Atride, e l'Itaco fallace,
Gran fatica Ugo Foscolo non fe';
Copiò sè stesso e si divise in tre.»
Cui, con pari spirito, e con più verità, qualche amico corresse:
«Nel porre in scena il generoso Ajace,
L'altero Atride, a l'Itaco sagace,
Gran fatica Ugo Foscolo non fe';
Copiò sè stesso e si divise in tre.»
Ma il peggio di questa storia sta in ultimo, imperocchè ai censori della stampa fu tolto l'impiego, e siccome essi per licenziar la tragedia si erano riportati al placito del ministro Vaccari, che aveva scritto sul frontespizio l'ho letta io, il Foscolo ne fu dolentissimo pel ministro e per loro. Consigliato e scongiurato di umiliarsi con un atto di scusa, scrisse al Vicerè dichiarandosi solo in colpa dell'accaduto; ma protestando delle sue rette intenzioni e che allusioni non v'erano, pregava di perdonare i magistrati e di rimetterli allo stipendio. Questa sua intercessione inasprì in vece maggiormente le ire e fugli imposto, o di chiamarsi reo, o si prendesse l'esilio a Parigi; ma intromessosi il conte Venèri, ministro del Tesoro, potè ottenergli di stare in Italia, però di uscire del regno. Scelse Firenze, dipendente allora dall'impero francese; ma prima di muoversi a quella vòlta si portò a consolare la vecchia madre, soggiornando un mese a Venezia.
Tale fu la sorte di quella tragedia a Milano, nè buona accoglienza ebbe in Firenze, allorchè venne colà rappresentata nel 1816. Però, quantunque la sua azione drammatica si svolga con poco interesse e la locuzione, a mio credere, si renda difficile per le orecchie di un pubblico misto come quel de' teatri, pure, dice la critica imparziale, questo lavoro con tutte le colpe sue, per la delicatezza di alcuni pensieri e la perpetua bontà dello stile e della versificazione, sarà lettura in ogni tempo cara agli studiosi.
Per altro i nemici del Foscolo non ebbero vittoria piena, imperocchè, se riuscirono, col mettere la tragedia sotto quell'aspetto politico, a cagionargli danno e molestie, contribuirono a darle un valore più grande e a rialzare nell'opinione pubblica il nome dell'autore.